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  • Domenica 17 luglio 2022

I prezzi del petrolio potrebbero rimanere alti a lungo

E se caleranno, forse non sarà una buona notizia

Una piattaforma petrolifera al largo del Golfo del Messico (Getty Images)
Una piattaforma petrolifera al largo del Golfo del Messico (Getty Images)
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Dall’inizio dell’anno, l’aumento considerevole del prezzo del petrolio è uno dei fattori più preoccupanti per la tenuta delle economie mondiali, una delle principali ragioni dell’aumento dell’inflazione e tra i maggiori rischi di recessione per i paesi occidentali. Ma nonostante i numerosi tentativi di risolvere la situazione fatti da vari governi, è molto probabile che i prezzi del petrolio – e dunque del carburante – rimarranno alti ancora per vari mesi, se non addirittura anni.

Gli alti prezzi del petrolio sono provocati da alcuni fattori esterni, come la guerra in Ucraina e il fatto che l’Occidente stia tagliando le forniture di petrolio russo, ma anche da importanti fattori strutturali: semplificando, allo stato attuale l’offerta di petrolio nel mondo non riesce a soddisfare tutta la domanda, e questa situazione potrebbe proseguire ancora per molto tempo, mantenendo alti i prezzi.

Quindi, secondo vari analisti, l’unica cosa che potrebbe far davvero calare i prezzi sarebbe un crollo della domanda: in quel caso, tuttavia, sarebbe a causa di un rallentamento complessivo delle attività, e significherebbe che l’economia mondiale sarà entrata in recessione.

La guerra in Ucraina è certamente il fattore principale dell’attuale rialzo dei prezzi, iniziato in maniera sostenuta in perfetta concomitanza dell’invasione russa, il 24 febbraio. All’inizio di marzo, i prezzi sono aumentati fino a 119 dollari per barile di greggio, e dopo un breve calo sono tornati agli stessi livelli a inizio giugno. Attualmente sono un po’ calati, scendendo sotto ai 100 dollari al barile, appunto perché sono aumentati i timori di una recessione globale.

Se l’economia mondiale riuscirà a rimanere sufficientemente stabile, tuttavia, varie analisi ritengono probabile che i prezzi rimarranno alti.

La guerra in Ucraina è la più immediata causa della riduzione dell’offerta di greggio: in parte a causa delle sanzioni occidentali e in parte a causa di decisioni autonome prese dalla Russia, le forniture di petrolio russo verso Europa e Stati Uniti si sono ridotte considerevolmente, e dovrebbero interrompersi del tutto entro la fine dell’anno. La Russia ha trovato altri compratori del suo petrolio, soprattutto tra Cina e India, ma nonostante questo, un po’ per la riluttanza generale a fare affari con il governo russo e un po’ per gli effetti delle sanzioni (per esempio sulle tecnologie estrattive), la produzione totale della Russia dall’inizio dell’anno è calata di un milione di barili di greggio al giorno.

La Russia produce all’incirca 10 milioni di barili di greggio al giorno, che sono il 10 per cento circa della produzione globale.

Un barile di petrolio in Mississippi (Mario Tama/Getty Images)

Ma anche senza il calo della Russia, la produzione di petrolio nel mondo rimarrebbe comunque in crisi perché, come ha scritto Bloomberg, «il mondo fatica a produrre il petrolio di cui ha bisogno».

Il picco di produzione mondiale di petrolio si ebbe nel 2019, subito prima dell’inizio della pandemia da coronavirus. La crisi provocata dalla pandemia nel 2020 costituì invece il più grande sconvolgimento sul mercato energetico da vari decenni: la domanda di greggio crollò, e alcuni indicatori dei prezzi del petrolio scesero perfino sotto lo zero. Assieme alla domanda, crollò ovviamente anche la produzione: molti siti estrattivi e raffinerie rallentarono l’attività e alcune perfino chiusero, perché le operazioni non erano più sostenibili.

Ma come è successo in altri settori, dalla cosiddetta “supply chain” (i commerci globali) all’aviazione civile, la ripresa delle attività economiche dopo le prime ondate della pandemia è stata molto più forte e inaspettata di ogni previsione: la domanda di petrolio è risalita prestissimo ed è stata immediatamente molto intensa, e i produttori non erano preparati per far fronte alla richiesta.

A questa impreparazione hanno contribuito vari fattori: in molti paesi le infrastrutture di estrazione e raffinazione del petrolio sono vecchie e obsolete, e la crisi legata alla pandemia ne ha provocato la chiusura definitiva, o ha reso la ripresa delle operazioni molto più lunga e complicata del previsto.

Da anni, inoltre, in tutto il settore scarseggiano gli investimenti perché il petrolio – benché ancora centrale per le economie di tutto il mondo e benché la domanda sia attualmente altissima – è considerato una fonte di energia il cui utilizzo si ridurrà progressivamente per via della transizione ecologica. Molti produttori sono convinti che fare investimenti a lungo termine non valga la pena, perché c’è il forte rischio che non verranno ripagati e che un nuovo crollo del prezzo sarà inevitabile. Per questo, sono esitanti ad aprire nuovi pozzi e fare gli investimenti che sarebbero necessari per aumentare la produzione.

Secondo Bloomberg, le cinque più grandi compagnie di produzione di greggio al mondo nel 2022 si sono impegnate a investire 81,7 miliardi di dollari per migliorare e ampliare le loro attività: è la metà degli investimenti che avevano fatto nel 2013.

Il risultato di tutti questi problemi è che anche i paesi che hanno soddisfatto il grosso della domanda di petrolio negli ultimi decenni adesso faticano a farlo. A maggio l’OPEC+ (l’organizzazione che include i 13 membri dell’OPEC, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, tra cui Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, più altri dieci importanti produttori tra cui la Russia) ha prodotto 2,7 milioni di barili in meno al giorno rispetto all’obiettivo che l’organizzazione stessa si era prefissata.

(David McNew/Getty Images)

Molte delle speranze dell’Occidente sono concentrate su Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, due paesi che, almeno in teoria, avrebbero ancora un certo margine di produzione.

Questa settimana il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha fatto un viaggio in Medio Oriente che ha avuto come tappa principale proprio l’Arabia Saudita, con l’obiettivo di convincere il regime che governa il paese ad aumentare la produzione (il viaggio, tra le altre cose, è stato interpretato da alcuni commentatori americani come un’umiliazione politica: durante la campagna elettorale Biden aveva promesso che avrebbe fatto del regime autoritario saudita un «paria» a livello internazionale).

Ma è molto probabile che anche Arabia ed Emirati siano molto vicini al limite della loro produzione, allo stato attuale degli investimenti e dei macchinari usati. Il mese scorso il presidente francese Emmanuel Macron si è fatto filmare durante una riunione del G7 mentre diceva a Biden che gli Emirati sono al «massimo, massimo» della produzione, mentre l’Arabia Saudita ha quasi raggiunto il limite della propria capacità produttiva.