L’alfabeto farfallino ve lo ricordate?

O meglio, vefe lofo rificofordafatefe? È un modo di parlare usato dai bambini italiani di varie epoche, ma di gerghi simili ce ne sono tantissimi

(Suzanne D. Williams/Unsplash)
(Suzanne D. Williams/Unsplash)
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Negli ultimi tempi su TikTok i video in cui si parla “in corsivo” stanno accumulando milioni di visualizzazioni. È un modo di parlare caricaturale che ha una cadenza simile a una cantilena e in cui si aprono e si storpiano le vocali, che scimmiotta un gergo e un accento associato generalmente ad alcune ragazze lombarde, ma certamente non è l’unico modo di parlare ironico e giocoso che gli adolescenti hanno inventato e utilizzato negli anni. A molte persone per esempio sarà capitato, in una fase dell’infanzia o dell’adolescenza, di parlare in alfabeto “farfallino” con l’intento – spesso fallimentare – di non farsi capire da adulti o docenti.

L’alfabeto farfallino è un modo di parlare mascherato, con un’origine ignota ma un funzionamento molto semplice: ogni vocale di una parola viene raddoppiata interponendovi una “f”, cioè in sostanza dopo ogni vocale di una parola si aggiunge una “f” seguita da quella stessa vocale. È più facile con un esempio: la frase «L’ho letto sul Post», in farfallino diventerà «L’hofo lefettofo suful Pofost».

Si sa poco anche sull’età del farfallino, ma di certo in Italia è radicato da molti anni. Nel 1983 uscì un’edizione italiana di Esercizi di stile dello scrittore francese Raymond Queneau, in cui si parlava del javanais, un modo di parlare simile al farfallino diffuso in Francia, dove di modi per storpiare le parole ce ne sono molti. Il javanais si parla mettendo la sillaba “-av” dopo ogni consonante (“Paris” diventa quindi “Pavaravis”). Per rendere l’argomento comprensibile e più vicino ai lettori e alle lettrici italiane, Umberto Eco – che tradusse il libro – decise di rendere il javanais proprio con il farfallino, che era diffuso già allora.

In un’opera uscita vent’anni prima della traduzione di Eco, cioè di Federico Fellini, c’è un esempio di qualcosa ritenuto simile al farfallino. Il protagonista del film a un certo punto si incontra con una chiaroveggente che cerca di leggergli la mente azzeccando la parola che stava pensando, apparentemente senza senso: “Asa Nisi Masa”. Si scopre poi che era una specie di formula magica ricorrente di quando il protagonista era bambino, e l’ipotesi più accreditata è che la parola significhi “anima” in un alfabeto simile al farfallino, ma con la “s” al posto della “f”.


La traduzione di Queneau non è l’unico caso in cui alfabeti stranieri inventati sono stati resi in italiano con il farfallino: in una scena della serie tv americana Big Bang Theory, i protagonisti Leonard e Sheldon stanno cercando di smascherare le bugie delle rispettive fidanzate, Penny ed Amy. Per non farsi capire i due parlano in lingua Klingon, parlata da una specie aliena in Star Trek, e a quel punto Penny ed Amy, in risposta, cominciano a parlare in ubbi dubbi, un modo di parlare popolare negli Stati Uniti che consiste nel mettere la sillaba “ub” prima di ogni vocale. Ovviamente per il pubblico italiano l’ubbi dubbi è sconosciuto, quindi nella versione italiana Penny ed Amy parlano farfallino.


Nel film The Mask con Jim Carrey successe una cosa simile. In una scena due poliziotti parlano in pig latin, un altro modo criptico di parlare in inglese utilizzato dai bambini per non farsi capire. In questo caso la prima lettera della parola viene spostata alla fine e aggiunto il suffisso “-ay”, quindi “bye” diventa “yebay”. Se invece la parola comincia con un gruppo consonantico si sposta tutto il gruppo (per esempio “smile” diventa “ilesmay”), mentre se comincia per vocale rimane invariata e si aggiunge il suffisso “-yay”. Anche in questo caso i due poliziotti vennero doppiati in farfallino.

«Nix, he’s got a gun!», “Fermo, ha una pistola!”

Oltre al pig latin, al javanais e all’ubbi dubbi ci sono molti altri modi di parlare che rientrano in questo genere di alfabeti e linguaggi alternativi. In italiano, soprattutto nel milanese, è diffuso il riocontra, un modo di parlare in cui si invertono semplicemente le sillabe.

In Colonne, la newsletter del Post su Milano, il 4 febbraio scrivevamo: «A Milano la pratica di usare le parole con le sillabe al contrario si chiama “riocontra” (da contra-rio, appunto): è uno slang che si fa risalire ai Paninari degli anni Ottanta e che è molto diffuso nella musica rap e nel panorama underground – come si dice – della città: ma potreste averlo sentito anche in altri contesti. In riocontra, il padre e la madre diventano il drepa e la drema, la casa la saca, la strada la dastra, il fumo il moffo, la tipa la pati, il foschi lo schifo, il vecchio il chiove».


Il riocontra è sostanzialmente analogo al verlan francese (verlan è l’inversione di l’envers, cioè “il contrario”). E sempre in Francia ci sono ancora altri modi di parlare criptici, come il largonji, di cui esistono diverse varianti. Una delle più utilizzate è il louchébem, che funziona all’incirca così: alle parole che iniziano per consonanti viene sostituita la lettera iniziale con la “l”, e alla fine della parola viene rimessa la consonante con un suffisso libero, che può essere “-oc”, “-em/éme”, “-uche” o altri ancora. Se invece la parola inizia per “l” o per vocale si fa la stessa cosa ma con la seconda sillaba.

È un gergo nato tra i criminali all’inizio dell’Ottocento e soltanto alla fine del secolo se ne sono appropriati i macellai parigini: il suo nome è appunto “macellaio” in gergo (“boucher”, diventato “louchébem”).

– Leggi anche: Come si inventa una lingua

In Spagna e nei paesi ispanici, poi, c’è il jeringonza, che è sostanzialmente una variante del farfallino con la “p” al posto della “f”: Carlos, in jeringonza, diventa “Caparlopos”. In Italia e nel mondo esistono tanti linguaggi simili al farfallino ma meno conosciuti, magari perché si sono diffusi solo per breve tempo e in gruppi di persone ristretti. Ne parlava già Stefano Bartezzaghi su Repubblica in un articolo del 2000, in cui riportava testimonianze di lettori proprio a proposito degli «alfabeti segreti».

Un lettore per esempio gli segnalava «un alabeto [cioè un alfabeto a cui si tolgono le lettere] che da un paio d’anni va molto a Senigallia (An). La regola è che tutti sostantivi e aggettivi sono bisillabi, e tutte le parole maschili terminano in o, quelle femminili in a. Così tu sei Stefo Barti, scrivi sulla Repa una rubra che si chiama Lesso e nuve [Lessico e nuvole], e così via. Bua forta!». O ancora un altro lettore, Vito Benigni, scriveva:

Ricordo che a Roma, nel mercato dell’usato di Via Sannio (mitico!) i venditori usavano un gergo inventato da loro per non farsi capire dal cliente. Anteponevano la sillaba “tre” a tutte le sillabe della parola. Ad esempio “Stefano” diventava “Trestetrefatreno”. Trebeltrelo, treno?