Sarà un periodaccio per la BCE

E forse anche per l’economia europea, ora che l’aumento dei tassi d’interesse potrebbe riportare alla luce problemi e divisioni

La presidente della BCE Christine Lagarde (AP Photo/Jean-François Badias)
La presidente della BCE Christine Lagarde (AP Photo/Jean-François Badias)
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La decisione della Banca centrale europea di alzare i tassi d’interesse, presa la settimana scorsa a seguito del peggioramento dei dati sull’inflazione, cioè l’aumento dei prezzi, è il più importante cambiamento di politica monetaria dell’ultimo decennio in Europa. Quella della BCE è anche, con tutta probabilità, una delle decisioni più difficili della storia recente dell’istituzione, che potrebbe mettere a rischio non soltanto la sua credibilità ma anche la tenuta economica dell’Unione Europea.

Benché sia necessario agire per mettere sotto controllo l’inflazione, infatti, a seconda di come la BCE si muoverà le conseguenze potrebbero essere estremamente rilevanti.

Un’azione troppo decisa sui tassi potrebbe provocare una recessione nella zona euro, mentre un’azione troppo timida potrebbe non essere sufficiente per mettere sotto controllo l’inflazione: il giusto equilibrio è complicatissimo da mantenere, e molto dipenderà da interpretazioni sull’andamento dell’economia che già adesso stanno incontrando contestazioni notevoli. Per ora, il semplice annuncio di un aumento dei tassi ha provocato grossi problemi nelle economie europee più deboli e indebitate, come quelle di Italia e Spagna: mercoledì la BCE ha annunciato misure straordinarie per proteggere questi paesi dall’aumento dello spread e da una nuova crisi del debito.

La BCE è stata l’ultima delle grandi banche centrali occidentali a decidersi a un aumento dei tassi, mesi dopo che la FED americana e la Banca centrale britannica, tra le altre, avevano cominciato a cambiare le proprie politiche monetarie per contenere l’inflazione. Le ragioni di questo ritardo sono numerose, ma una delle principali è che rispetto alle altre banche la BCE ha più preoccupazioni, legate soprattutto alla debolezza economica dei paesi più indebitati, come l’Italia.

La settimana scorsa era bastato l’annuncio che a partire da luglio sarebbero aumentati i tassi d’interesse e sarebbero terminate le politiche di acquisto di titoli da parte della BCE per far salire immediatamente lo spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi, raggiungendo livelli che non si vedevano dal 2014.

Lo spread è uno dei principali indicatori dell’affidabilità economica di un paese e definisce l’ampiezza della differenza di rendimento tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi. La Germania è considerato il paese economicamente più solido e affidabile d’Europa: per questo il rendimento dei suoi titoli di stato è molto basso e viene usato come misura di confronto con il rendimento dei titoli di stato degli altri paesi. Più è alta la differenza, più quel paese sarà percepito come rischioso rispetto alla Germania: quella differenza è lo spread.

Negli scorsi giorni, lo spread italiano è salito notevolmente perché i mercati hanno temuto che l’economia italiana (come quelle spagnola e greca) a causa di tassi più alti e della possibile recessione in arrivo sarebbe stata più in difficoltà a ripagare il proprio debito, e hanno cominciato ad agire di conseguenza. «Tutta questa attenzione sull’Italia comincia a ricordare il 2011», ha detto al Financial Times un analista finanziario, ricordando l’anno in cui la crisi del debito sovrano in Europa raggiunse il suo massimo.

In questo grafico del Sole 24 Ore si vede piuttosto bene l’aumento dello spread dopo l’annuncio dell’innalzamento dei tassi, il 9 giugno

Per questo, mercoledì, la BCE ha tenuto una riunione di emergenza, appena una settimana dopo l’ultimo incontro dei suoi membri (quello ad Amsterdam in cui era stato deciso l’aumento dei tassi). Queste riunioni di emergenza sono rare, l’ultima era stata nel 2020 per parlare dell’enorme crisi provocata dalla pandemia, e ciò dà l’idea della gravità della situazione. Dopo la riunione, la presidente della BCE Christine Lagarde ha annunciato che la banca centrale metterà a punto nuove misure per ridurre lo spread dei paesi più deboli ed evitare lo scoppio di una nuova crisi del debito: Bloomberg ha titolato che queste misure servono esplicitamente per «evitare una nuova crisi italiana». Non è ancora chiaro in cosa consisteranno, ma quasi certamente saranno nuovi programmi d’acquisto dei titoli di stato.

L’annuncio ha calmato i mercati, almeno per ora, e lo spread è calato.

Ma queste prime, notevoli difficoltà incontrate dalla BCE mostrano come per la banca centrale il grande cambiamento di politica monetaria che si è reso necessario a causa dell’aumento dell’inflazione sarà complicatissimo.

I tassi d’interesse di cui parliamo sono quelli a cui le banche centrali prestano denaro alle altre banche, in pratica il costo del denaro. Storicamente, l’innalzamento dei tassi è l’arma migliore a disposizione delle banche centrali per mettere l’inflazione sotto controllo, perché aumentando il costo del denaro si riducono i fenomeni che portano a un aumento dei prezzi. Semplificando molto, con tassi più alti fare investimenti diventa meno conveniente, e prendersi rischi economici più pericoloso: diventa più costoso chiedere un mutuo per comprare una casa, un prestito per comprare un’auto, o un finanziamento per aprire una nuova impresa. Il risultato è che spesso consumatori e imprenditori rimandano gli investimenti, provocando un “raffreddamento” dell’economia e dunque una diminuzione dell’inflazione: si compra meno, si investe meno e si fanno meno affari, e i prezzi si abbassano.

L’effetto collaterale dell’aumento dei tassi, tuttavia, è che se l’economia si raffredda troppo si rischia una recessione, dalla quale poi può diventare complicato uscire. Per questo le banche centrali hanno un compito particolarmente delicato: devono “raffreddare” l’economia a sufficienza da mettere sotto controllo l’inflazione, ma non troppo. Quest’equilibrio è inoltre difficilissimo da raggiungere, perché gli effetti dell’aumento dei tassi si vedono di solito dopo mesi, e non ci sono indicatori affidabili per prevedere come andranno le cose: bisogna basarsi soprattutto sull’esperienza.

Tutti i banchieri centrali che in questi mesi hanno modificato i tassi conoscono perfettamente questo problema. Negli Stati Uniti, il dibattito su quanto sia opportuno aumentare i tassi e mettere a rischio la crescita economica va avanti da mesi, e soltanto di recente la FED sembra aver deciso di dare ascolto a chi ritiene che sia necessaria una misura aggressiva: mercoledì il suo presidente Jay Powell ha annunciato il più importante rialzo dei tassi dal 1994.

Per la BCE però le cose sono ancora più complicate, perché negli ultimi tempi il suo ruolo e la sua attività sono cambiati. Benché, da statuto, il compito primario di tutte le banche centrali sia mantenere sotto controllo i prezzi, da quando l’allora presidente Mario Draghi pronunciò il suo famoso «whatever it takes» (nel 2012, nel pieno della crisi che era in corso in Europa), il compito della BCE è cambiato notevolmente, anche se in maniera informale: negli ultimi dieci anni le risorse e l’attenzione della banca centrale si sono concentrate quasi esclusivamente sul mantenimento dell’unità nella zona euro, tramite politiche espansive come l’acquisto di titoli, che hanno sostenuto soprattutto i paesi più deboli come Italia e Spagna.

È per questo che la BCE è stata una delle ultime a muoversi contro l’inflazione, ed è per questo che ancora adesso continua a rimanere una certa incertezza – e molto dibattito – su quali dovrebbero essere le sue prossime mosse.

Il quartier generale della BCE, a Francoforte (Thomas Lohnes/Getty Images)

All’interno della BCE (la cui politica monetaria è decisa da un consiglio direttivo composto da 25 membri), così come tra i governi europei, il dibattito sulla natura dell’aumento dell’inflazione e su come affrontarla va avanti da mesi.

L’interpretazione ormai prevalente (specie dopo i dati molto preoccupanti delle ultime settimane) è che l’inflazione sia effettivamente tornata a livello sistemico e che sia necessaria una politica aggressiva e rapida per metterla sotto controllo. Quest’interpretazione è sostenuta dai cosiddetti “falchi”, esponenti soprattutto dei paesi del nord Europa, che vorrebbero aumenti dei tassi molto importanti e che la BCE rinunci completamente alle politiche di stimolo della crescita adottate nell’ultimo decennio.

«I tassi dell’inflazione nell’area euro non cadranno da soli», ha detto di recente Joachim Nagel, il presidente della Banca centrale tedesca, aggiungendo che c’è bisogno di una «azione risoluta».

I falchi sostengono che una restrizione decisa della politica monetaria sia necessaria anche a costo di subire una breve recessione, per evitare danni peggiori sul lungo termine. Sul Financial Times il giornalista economico Chris Giles ha ricordato che negli anni Settanta, cioè l’ultima volta che l’Europa ebbe a che fare con un’alta inflazione, la Banca centrale tedesca alzò i tassi in maniera molto aggressiva, e il paese «sopportò il dolore e subì una crisi breve e poco profonda». Al contrario, i paesi che scelsero «una via più accomodante, come Italia e Francia» dovettero combattere con l’inflazione per molto più tempo, trovandosi infine in recessioni molto più profonde.

L’interpretazione opposta è quella delle cosiddette “colombe”, di cui fanno parte molti esponenti dei paesi del sud Europa, che sostengono che l’inflazione che sta colpendo in questi mesi l’Europa sia da attribuire a fattori congiunturali come per esempio l’aumento del costo dell’energia, che a sua volta provoca un aumento del costo tutte le altre attività. Secondo questa tesi, non ha senso alzare i tassi e “raffreddare” tutta l’economia della zona euro, rischiando perfino una recessione, se le cause dell’aumento dell’inflazione stanno altrove.

Lo ha detto per esempio l’economista Francesco Giavazzi, consigliere economico del presidente del Consiglio Draghi e una delle persone a lui più vicine, secondo cui l’innalzamento dei tassi per rispondere all’aumento dell’inflazione è «uno strumento sbagliato. Noi non abbiamo una inflazione da domanda come negli Stati Uniti ma abbiamo una inflazione legata al prezzo del gas». Alzare i tassi, secondo Giavazzi, rischia di non essere sufficientemente efficace contro l’inflazione, e di portare piuttosto a una riduzione della «domanda privata», con un conseguente rallentamento dell’economia, e forse una recessione.

Il compito difficilissimo della BCE sarà dunque quello di districarsi in mezzo a queste pressioni opposte, sapendo che molto probabilmente qualunque cosa farà rischierà grosse critiche, e che la prospettiva migliore sarà quella di ridurre il danno, non di eliminarlo completamente. A rendere ancora più complesso questo compito c’è il fatto che, come ha notato il Financial Times, dei 25 membri del consiglio direttivo soltanto uno, l’olandese Klaas Knot, faceva parte del gruppo l’ultima volta che la banca centrale alzò i tassi, nel 2011, e ha esperienza diretta di come andarono le cose e di come potrebbero andare.