Il mito della tortura della goccia cinese

Conosciuto in Europa da secoli come forma di violenza psicologica più che fisica, è molto radicato nella cultura popolare nonostante le sue origini incerte

tortura goccia cinese
Un disegno dell’ingegnere svedese Erik Palmqvist tratto da un suo manoscritto del 1674 (Wikimedia/Erik Palmqvist)
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La frase latina «gutta cavat lapidem» («la goccia scava la pietra»), che descrive la lenta azione erosiva dell’acqua sulle formazioni rocciose, è un’espressione già citata nel I secolo a.C. da poeti come Ovidio, Tibullo e Lucrezio. Ancora oggi è utilizzata per indicare in generale gli effetti significativi e duraturi di azioni apparentemente inefficaci ma continue e ripetute. E può avere un senso positivo, se per esempio è riferita a qualità umane come pazienza e perseveranza, oppure – più spesso – uno negativo, se invece è riferita al progressivo deterioramento di qualcosa che sembrava solido e resistente come una pietra.

L’idea alternativa e alquanto angosciante che lo stillicidio dell’acqua possa avvenire sulla testa di un essere umano, anziché su una pietra, è invece alla base di una forma di violenza nota da secoli come «tortura della goccia cinese». Sebbene sia un’idea già discussa in testi del Cinquecento sulla tortura giudiziaria, la sua storia ha origini incerte. Come incerte sono le prove di un suo reale e sistematico utilizzo come strumento inquisitorio medievale, tanto più in epoche in cui gli approcci dominanti alla materia non erano esattamente concentrati su forme di raffinata tortura mentale.

L’incertezza sulle origini storiche non ha tuttavia impedito che questa forma di tortura diventasse molto popolare nella letteratura e nell’immaginario collettivo, al punto da diventare nel tempo anche una consolidata metafora.

Nella sua versione più conosciuta, descritta e rappresentata sui libri e in altre pubblicazioni, la tortura della goccia cinese consiste nel far cadere gocce d’acqua da un recipiente posto a una certa altezza sulla testa del soggetto sottoposto alla tortura, per un periodo di tempo prolungato. Nel frattempo il soggetto rimane seduto e legato in modo da limitare le sue possibilità di movimento e di sottrarsi alla tortura, di cui ignora eventuali successive evoluzioni: fattore che aumenta presumibilmente il suo stato di agitazione.

L’origine del nome non è chiaro, ma è possibile ipotizzare che il riferimento alla Cina derivi dalla notorietà nella cultura occidentale di altre torture cinesi particolarmente diffuse sotto la dinastia Song (dal 960 al 1279) e di cui esistono più solide testimonianze storiche. A quella stessa epoca risale peraltro un detto cinese dal significato simile a quello della frase latina «gutta cavat lapidem», «shuǐdī-shíchuān» («la goccia perfora la pietra»), che potrebbe aver ulteriormente favorito l’associazione tra l’idea della goccia e uno specifico tipo di tortura.

In generale, tra tutti gli strumenti di tortura utilizzati nel corso della storia, l’acqua era ed è evidentemente uno tra i più comuni e più facilmente reperibili. Come descritto in diversi testi sui fondamenti teologici e giuridici della tortura, era inoltre un elemento notoriamente presente nell’ambito del processo inquisitorio medievale e prima ancora nelle ordalie, prove a cui le persone accusate venivano sottoposte per provare la propria innocenza e il cui esito era interpretato come un giudizio della divinità.

Nell’ordalia dell’acqua bollente, per esempio, l’accusato di un crimine era costretto a immergere le mani e le braccia in un calderone di acqua bollente per afferrare un sasso o un altro oggetto. In epoche successive, l’interrogatorio («quaestio») dell’acqua nei processi medievali prevedeva, per esempio, di fare inghiottire all’accusato una cospicua quantità di acqua tramite un imbuto (5 litri per la quaestio ordinaria, 10 per quella straordinaria), esercitando poi pressione sul ventre rigonfio.

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Una prima riflessione riguardo all’ipotesi che un continuo stillicidio d’acqua potesse provocare un danno su un essere umano viene storicamente attribuita al giurista italiano del Cinquecento Ippolito Marsili, molto conosciuto nella storia del diritto proprio per le sue riflessioni sulla tortura. In alcuni dei suoi trattati su questo tema, chiedendosi se l’acqua potesse provocare effetti a lungo termine sugli esaminati allo stesso modo di come li provoca su una pietra, Marsili esaminò diverse tecniche di tortura apparentemente in grado di non procurare un danno fisico e che, come scrisse in un passaggio delle Repetitiones Grimana, «sembrano piuttosto una cosa ridicola che non una tortura».

Come tuttavia notato già nel Cinquecento da Marsili, gran parte dell’afflizione provocata da torture come quella della goccia cinese risiede non nelle lesioni corporali che sono in grado di procurare bensì nel tormento psicologico che arrecano. E d’altronde è facilmente immaginabile il genere di ansia che sarebbe in grado di suscitare la presenza di un secchio sospeso sulla propria testa e l’impossibilità di poter fuggire in un contesto storico in cui la crudeltà nell’infliggere tormenti non conosceva sostanzialmente alcun limite.

Ritenendo in ogni caso queste pratiche un importante progresso rispetto ad altri tipi di torture, perché potenzialmente più efficaci per ottenere dall’accusato dichiarazioni utili a giungere alla verità dei fatti, Marsili descrisse anche un’altra tecnica destinata a trovare molte applicazioni nei secoli successivi: la cosiddetta «veglia coatta», oggi ampiamente nota come privazione del sonno. La veglia coatta prevedeva che l’accusato rimanesse seduto per lungo tempo – come nel caso della goccia cinese – ma in presenza di aguzzini che gli impedissero di dormire, anche fino a 40 ore di seguito.

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Altre circostanze e fattori contribuirono nel corso del tempo a rendere popolare la tortura della goccia d’acqua, in molti casi anche in contesti diversi da quelli giudiziari e persino per scopi terapeutici. Come riferito dalla sociologa americana e studiosa di storia della psichiatria Mary de Young nel libro Encyclopedia of Asylum Therapeutics, 1750–1950s, un apposito strumento che permetteva di lasciar gocciolare un secchio d’acqua fredda sulla fronte di pazienti legati a una sedia e bendati fu diffuso in diversi istituti psichiatrici francesi e tedeschi verso la metà dell’Ottocento.

Tra i sostenitori della tesi secondo cui le malattie mentali avessero cause biologiche localizzate in organi e tessuti diversi dal cervello, racconta De Young, si pensava che la continua caduta delle gocce potesse curare le cefalee nervose e l’insonnia, principalmente, ma anche la congestione di sangue alla testa, ritenuta una possibile causa della pazzia. Uno strumento dello stesso tipo fu probabilmente utilizzato anche in diversi manicomi in Russia e sicuramente in un piccolo manicomio a Poltava, oggi parte dell’Ucraina, in cui i 20 pazienti dormivano su giacigli di paglia sul pavimento, riferisce De Young, ed erano sottoposti al gocciolamento più in caso di punizione che non come forma di terapia.

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La tortura della goccia cinese fu anche un frequente riferimento letterario tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in numerosi racconti di avventura, tra cui quelli del tedesco Karl May e quelli di Emilio Salgari, che la citò in un capitolo del romanzo del 1903 Le pantere d’Algeri. «Quella semplice goccia gli pareva che diventasse più pesante di minuto in minuto e che gli percuotesse il cranio con maggior forza, come se il liquido si fosse tramutato in mercurio», scrisse nel passaggio in cui il barone di Sant’Elmo viene sottoposto alla tortura della goccia cinese dallo spietato Culchelubi, comandante immaginario delle galere di Algeri.

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Una statua che riproduce la tortura della goccia cinese al Museo della tortura a Bruges, in Belgio (Flickr/Dimitris Kamaras)

La tendenza ad associare le torture cinesi all’acqua fu infine probabilmente rafforzata negli anni Dieci del Novecento anche dagli spettacoli di prestigio dell’illusionista americano Harry Houdini. In uno dei suoi più celebri numeri di magia, chiamato «cella della tortura cinese dell’acqua», Houdini chiedeva ai suoi collaboratori di essere immerso in una cella di vetro e acciaio piena d’acqua e chiusa a chiave, riuscendo poi a uscirne senza ricevere aiuto.

Una parte essenziale della tortura della goccia cinese, sia nell’immaginario collettivo che nelle descrizioni più dettagliate di questa pratica violenta, è indurre il soggetto a pensare che l’azione ininterrotta del gocciolamento possa effettivamente provocare danni gravi e irreparabili. Sebbene non esistano prove attendibili dell’uso né dell’efficacia della tortura della goccia nel corso di interrogatori o processi, è ipotizzabile che eventuali danni psicologici duraturi siano proporzionali alla durata e all’intensità dell’esposizione allo stimolo.

In una puntata dedicata alla tortura della goccia cinese dal programma televisivo americano MythBusters, che si occupa di provare la validità di miti e leggende metropolitane, il conduttore Adam Savage attribuì a questa tecnica una certa efficacia nell’indurre una persona prigioniera a una confessione. Aggiunse tuttavia che l’efficacia era probabilmente collegata più agli effetti della limitazione dei movimenti della persona che non a quelli dell’acqua.

In seguito, Savage raccontò di aver ricevuto un’email anonima dopo quella puntata. Gli autori dell’email scrissero di aver studiato più a fondo gli effetti della tortura della goccia d’acqua cinese riscontrando un’incredibile efficacia nel caso in cui l’intervallo di tempo tra una goccia e l’altra sia irregolare. Mentre uno stimolo regolare può essere isolato dal cervello, aggiunsero, un gocciolamento imprevedibile era risultato «in grado di indurre una crisi psicotica entro 20 ore».