Se esistono, perché non si fanno vivi?

Uno studio tarato sull’evoluzione delle città nelle civiltà umane ipotizza che le connessioni interstellari diventino a un certo punto insostenibili per eventuali civiltà extraterrestri molto evolute

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Un fotogramma del film del 2009 “District 9”
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Nel vasto e affascinante insieme di domande sull’origine della vita e sulle probabilità che altri posti nell’Universo possano ospitarla, una delle più frequenti riguarda un punto della discussione in cui l’esistenza di forme di vita extraterrestre – tralasciando la complessa questione della definizione stessa di vita – viene data per assodata, in modo da passare al livello successivo della questione. E la domanda successiva è: se si ammette che le condizioni che hanno reso possibile la vita possano essersi verificate in più di un posto nell’Universo oltre che sul nostro pianeta, cosa impedisce ad altri esseri viventi sufficientemente evoluti di stabilire un contatto con la Terra?

Diversi siti di divulgazione scientifica hanno descritto un recente studio pubblicato sulla rivista Journal of the Royal Society Interface come un suggestivo tentativo, uno tra i tanti, di rispondere alla domanda sul perché non ci siano contatti tra la civiltà umana e altre forme di vita extraterrestre. Gli autori sono due ricercatori americani: Stuart Bartlett, ricercatore del dipartimento di Scienze geologiche e planetarie del California Institute of Technology (Caltech), e Michael Wong, astrobiologo dell’Earth and Planets Laboratory al Carnegie Institution for Science, istituto di ricerca a Washington D.C.

Partendo da un’analisi dell’espansione urbana delle civiltà umane, di come quelle civiltà si siano evolute e di come siano infine scomparse nel corso della storia, lo studio ipotizza che eventuali civiltà aliene abbiano seguito o siano destinate a seguire un’evoluzione che porta, alternativamente, o al collasso o al necessario ridimensionamento delle ambizioni di colonizzazione di altri mondi, a fronte di una popolazione in continua crescita e di un crescente consumo di energia. Energia che, in questo secondo caso, sarebbe utilizzata da quelle civiltà per mantenere un equilibrio «omeostatico» a lungo termine, che cioè tenda a una stabilità autoregolata rinunciando alla «crescita irriducibile» e, di conseguenza, allo sviluppo di tecnologie che rendano possibili le interconnessioni con altre civiltà nell’Universo.

Da decenni, parte del dibattito sull’esistenza della vita extraterrestre ruota intorno alle condizioni di possibilità dei viaggi interstellari, notoriamente irrealizzabili con la tecnologia sviluppata dagli esseri umani e attualmente impiegata nelle missioni spaziali. Sarebbe infatti impossibile, con i mezzi attuali, raggiungere velocità che permettano di percorrere in un tempo ragionevole le enormi distanze che separano i sistemi planetari.

Nel 1975, in un citato articolo intitolato An explanation for the absence of extraterrestrials on Earth, l’astrofisico americano Michael Hart sostenne che compiere viaggi interstellari sarebbe una cosa fattibile, per una civiltà tecnologicamente molto evoluta, e che una migrazione intergalattica dovrebbe avvenire in pochi milioni di anni. Che in senso cosmico è un intervallo di tempo relativamente breve, considerata l’età delle stelle più antiche nella Via Lattea (oltre 10 miliardi di anni), la galassia in cui si trova il nostro sistema solare.

Hart affermò che alieni intelligenti avrebbero già potuto visitare la Terra a un certo punto della storia del nostro pianeta, a meno che non avessero iniziato il loro viaggio meno di due milioni di anni fa. Suggerì quindi che l’assenza di colonizzatori sulla Terra e di prove dei loro progetti ingegneristici nel sistema solare possano essere spiegate meglio dall’ipotesi che non esistano civiltà extraterrestri abbastanza evolute nella nostra galassia. Non escluse tuttavia altre ipotesi: che quelle civiltà siano troppo giovani per raggiungere la Terra, e le loro tecnologie a uno stadio ancora primitivo; che abbiano visitato la Terra ma non siano state osservate; che abbiano scelto di non visitare la Terra, pur avendone la possibilità; o che una qualche difficoltà fisica correlata all’astronomia, alla biologia o all’ingegneria impedisca loro di viaggiare nello Spazio.

Il dibattito sull’assenza di prove che la Terra sia mai stata visitata da altre civiltà, nonostante le possibilità che un simile evento si verifichi, è generalmente noto come «paradosso di Fermi». Prende il nome da un aneddoto – citato, tra gli altri, dai celebri astrofisici Carl Sagan e Iosif Shklovsky – secondo cui nel 1950 il famoso scienziato italiano premio Nobel per la fisica nel 1938 pronunciò la domanda «Dove sono tutti quanti?», presumibilmente nel corso di una conversazione a pranzo sugli alieni, durante una visita a Los Alamos (la città del New Mexico sede del centro di ricerca che aveva sviluppato la prima bomba atomica americana).

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Come suggestivamente sintetizzato sul sito del SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence, il programma scientifico statunitense ideato negli anni Sessanta e dedicato alla ricerca di vite extraterrestri nell’Universo), «Fermi comprese che qualsiasi civiltà con una modesta quantità di tecnologia missilistica e una spudorata quantità di incentivi imperiali potrebbe rapidamente colonizzare l’intera Galassia». In genere, la questione si complica al momento di trarre conclusioni da quella che l’astrofisico italiano Amedeo Balbi nel libro Dove sono tutti quanti? definisce l’«unica certezza» in tutta questa discussione: l’assenza di prove di civiltà avanzate nella nostra galassia.

L’ipotesi di Hart, che quelle civiltà non esistano, non è necessariamente quella corretta ma potrebbe esserlo più di altre sulla base di un celebre assunto spesso citato da Sagan: «Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie». Gli argomenti di Hart furono poi ripresi, tra gli altri, dal fisico matematico statunitense Frank Tipler, docente alla Tulane University a New Orleans, in un articolo del 1980 intitolato Extraterrestrial intelligent beings do not exist.

Tipler scelse un approccio particolare per arrivare sostanzialmente alla stessa conclusione di Hart. Per la maggior parte dell’articolo si concentrò sui possibili modi di ottenere le risorse necessarie a compiere viaggi interstellari per una civiltà sufficientemente evoluta. Suggerì che i viaggi fossero possibili ammettendo che quelle civiltà disponessero di speciali mezzi spaziali auto-replicanti, in grado di muoversi nello Spazio a una velocità molto vicina a quella della luce e intanto di creare copie di sé stessi durante il viaggio, di pianeta in pianeta. Considerò quindi l’assenza di prove dell’esistenza di mezzi così avanzati una ragione sufficiente per concludere che non esistono forme di vita intelligente nel resto della Galassia.

Tipler sostenne, tra le altre cose, l’idea che le persone possibiliste riguardo all’esistenza di intelligenze extraterrestri condividano in genere con quelle entusiaste e appassionate di avvistamenti di UFO una comune inclinazione a credere che «un miracoloso intervento interstellare» salverà l’umanità da sé stessa. Come se tra queste persone fosse diffuso un certo pessimismo di fondo rispetto al destino delle civiltà terrestri.

A scenari negativi o persino catastrofici sembrano alludere anche altre ipotesi di spiegazione dell’assenza di comunicazioni con civiltà aliene, ipotesi che, come quella di Tipler, si concentrano sul discorso delle risorse e della tecnologia. «Forse che lo sviluppo della tecnologia è un evento rarissimo, oppure che una volta raggiunto un certo livello tecnologico le civiltà immancabilmente si autodistruggono?», si chiede Balbi a proposito delle difficili conclusioni da trarre dall’assenza di prove di forme di vita extraterrestre.

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Anche le argomentazioni proposte da Wong e Bartlett nello studio recentemente pubblicato sul Journal of the Royal Society Interface si concentrano sulla possibilità che le civiltà planetarie, man mano che crescono in scala e in sviluppo tecnologico, finiscano per raggiungere un punto di crisi – definito «burnout asintotico» – in cui l’innovazione, in sostanza, non è più in grado di tenere il passo con il fabbisogno energetico. Wong e Bartlett prendono come riferimento per l’evoluzione di possibili civiltà aliene l’evoluzione delle città terrestri, intese come «fenomeni socio-biologici» potenzialmente in grado di «rivelare tendenze universali» e riflettere i principi alla base della propria organizzazione.

La transizione energetica avvenuta nel passaggio dalle società dei cacciatori-raccoglitori a quelle degli agricoltori favorì le condizioni di sviluppo della civiltà umana per come la conosciamo, basata su insediamenti permanenti e densamente popolati in cui gli individui condividono risorse, infrastrutture e idee. In un certo senso, affermano Wong e Bartlett, una città è «un superagente composto da singoli agenti umani» più o meno come un organismo multicellulare è un superagente composto da singoli agenti cellulari. Entrambi i casi, per esempio, ammettono una «differenziazione degli agenti individuali» – o, in altri termini, una suddivisione del lavoro – senza che venga meno il superagente nel complesso.

C’è tuttavia una differenza sostanziale tra queste due strutture organizzative della vita, sottolinea lo studio. Le strutture basate sul metabolismo biologico tendono a ridimensionare quel metabolismo in funzione delle dimensioni dell’organismo, portando a economie di scala e ritmi di vita decrescenti con l’aumento delle dimensioni. Un esempio tipico nella biologia, citato dagli autori dello studio, è la profonda differenza tra un elefante e un topo in termini di tasso metabolico, la quantità di energia utilizzata da un animale per unità di tempo.

Al contrario, le città sono strutture organizzative che mostrano una crescita potenzialmente illimitata, in cui i ritmi di vita crescono all’aumentare delle dimensioni. Esempi di questa crescita, citati da Wong e Bartlett e definiti casi di «ridimensionamento superlineare», sono la più alta velocità media di camminata, i più alti tassi di criminalità e la maggiore diffusione di malattie infettive nelle città più grandi. Ma soprattutto, fanno notare i ricercatori, a crescere in funzione delle dimensioni delle città è il consumo di energia complessivo.

In qualsiasi scenario analizzato da Wong e Bartlett, una civiltà in cui «gli scambi sociali tra agenti formino una rete dinamica che si traduce in un ridimensionamento superlineare», e cioè in una crescita illimitata, tenderà a raggiungere un punto di collasso («burnout asintotico»). Quanto più quella civiltà si avvicinerà a quel punto, tanto più frequenti saranno le crisi che dovrà affrontare. Crisi di fronte alle quali quella civiltà potrà o ridefinire la propria evoluzione in modo da favorire una sorta di stabilità «omeostatica», destinando maggiori risorse al benessere sociale, allo sviluppo sostenibile e all’integrazione nel proprio ambiente, o proseguire nella crescita fino al collasso.

L’ipotesi generale di Wong e Bartlett è che una civiltà planetaria che abbia raggiunto uno stato assimilabile a quello di «una città globale virtualmente connessa» si troverà a un certo punto di fronte a un burnout asintotico, una sorta di fase finale in cui la frequenza delle crisi legate al consumo globale di energia sarà via via maggiore rispetto alla frequenza delle innovazioni tecnologiche necessarie a sostenere un’eventuale rete di relazioni interstellari. Pur senza rinunciare completamente all’esplorazione spaziale, quella civiltà non si espanderebbe su scale abbastanza grandi da stabilire un possibile contatto con la Terra.

Le civiltà prossime al collasso sarebbero peraltro quelle più facili da rilevare per l’umanità, affermano Wong e Bartlett, perché dissiperebbero grandi quantità di energia in un modo «selvaggiamente insostenibile». Una ragione in più per credere che eventuali forme di vita extraterrestre inizialmente rilevabili dall’umanità, secondo i ricercatori, sarebbero con ogni probabilità «di tipo intelligente, sebbene non ancora saggio».

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L’obiettivo dell’articolo, concludono i ricercatori, dovrebbe essere alimentare una discussione nella consapevolezza che non esistono prove della verità di questa ipotesi, come vale del resto per molte altre di astrobiologia, l’ambito di studi interdisciplinare che si occupa delle condizioni, dell’evoluzione e della distribuzione di possibili forme di vita nell’Universo. L’assunto dei due ricercatori, del tutto opinabile, è che valga per eventuali civiltà aliene l’idea che gli agenti dell’organismo sociale si auto-organizzino in superagenti simili alle città. E non è detto che sia per forza così.

Uno degli avvertimenti più condivisi dagli astrobiologi, ricordano gli stessi Wong e Bartlett, è di fare attenzione a utilizzare le caratteristiche specifiche della vita terrestre come guida nella ricerca di forme di vita extraterrestre, dal momento che alcune di quelle caratteristiche potrebbero essere tratti particolari della vita ma non fondamentali. L’idea delle città come struttura organizzativa della vita potrebbe anche non avere senso, in scenari diversi da quelli considerati dai ricercatori. Come potrebbero esistere civiltà tecnologiche le cui dinamiche di auto-organizzazione ci apparirebbero estranee allo stesso modo di come ci apparirebbe estranea una forma di vita che non richieda la presenza di ossigeno per esistere.

Come scrive Balbi in Dove sono tutti quanti?, sono stati scritti interi libri sul problema sollevato da Fermi, ma da qualunque parte si affronti la questione non c’è una soluzione: «solo domande».