Le campagne elettorali fuori dalle grandi città stanno cambiando

Fanno sempre più ricorso ai professionisti della comunicazione politica e ai social network, pur mantenendo aspetti più tradizionali

di Luca Misculin

Attesa per l'arrivo del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi per la chiusura della campagna elettorale per le elezioni europee al Palazzo dei Congressi dell'Eur, 22 maggio 2014 a Roma. (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
Attesa per l'arrivo del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi per la chiusura della campagna elettorale per le elezioni europee al Palazzo dei Congressi dell'Eur, 22 maggio 2014 a Roma. (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
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Una grossa parte delle campagne elettorali in corso in tutta Italia in vista delle prossime elezioni amministrative, previste per il 12 giugno, si sta tenendo in città che hanno più di 15mila abitanti ma che non sono capoluoghi di provincia: si parla di 116 comuni, quasi uno su otto dei comuni in cui si andrà al voto (si vota anche in 26 città capoluogo). Di queste campagne si sa qualcosa solitamente per esperienza diretta – molti prima o poi si imbattono nei banchetti dei candidati, o nei volantinaggi al mercato cittadino, o nelle iniziative porta a porta – ma poco per altre vie: i giornali se ne occupano meno, dando più spazio e rilevanza ai grandi centri.

Nonostante la limitatezza delle risorse di cui dispongono spesso i partiti e le liste civiche nelle città più piccole, e nonostante molte competizioni politiche siano così locali da sembrare completamente arroccate su se stesse e impermeabili a interventi esterni, negli ultimi anni le campagne elettorali in questi centri si sono trasformate, adottando progressivamente una forma più simile a quella che da tempo si vede nelle grandi città. Diversi addetti ai lavori e candidati che hanno parlato col Post hanno raccontato come i professionisti della comunicazione politica si stiano prendendo sempre più spazio, e ci sia in generale maggiore sensibilità a strumenti e linguaggi nuovi.

«Vediamo un po’ ovunque un aumento della professionalità anche in questi posti», racconta Dino Amenduni, socio e responsabile della pianificazione strategica di Proforma, agenzia di comunicazione politica con sede a Bari, in Puglia. «Magari non trovi il super consulente o il vero e proprio spin doctor, ma l’agenzia di comunicazione sì: anche i sindaci e i consiglieri sanno che devono avere uno slogan, un logo, che si possono usare i social network in un certo modo».

Le ragioni di questa trasformazione sono dibattute, ma molti la attribuiscono soprattutto allo sbriciolamento dei partiti tradizionali e dei loro apparati, che ha favorito una professionalizzazione delle figure che prima i partiti trovavano al proprio interno. C’entra anche la diffusione dei social network, che ha richiesto figure in grado di sapere come sfruttarli a proprio vantaggio (alcune caratteristiche però rimangono le stesse: il mondo della consulenza politica, così come quello della politica, è composto in gran parte da uomini).

«Noi abbiamo una social media manager, e fino a dieci anni fa era impensabile», racconta Alfredo Sanarico, candidato consigliere comunale con una lista civica a Castellaneta, un comune di 17mila abitanti in provincia di Taranto, in Puglia. Sanarico spiega in realtà che la persona in questione non si limita a gestire i profili sui social network del candidato sindaco della coalizione, ma parla con la stampa e dà indicazioni su cosa dire e come dirlo anche ai candidati consiglieri. Concentra su di sé, insomma, varie figure della comunicazione politica contemporanea, che per semplificare molto ha come obiettivo quello di riuscire a imporre una propria narrazione attraverso l’uso di canali tradizionali ma anche non tradizionali come, appunto, i social network.

Durante una campagna elettorale l’abilità politica si misura dalle capacità di una certa persona o di un certo partito nel creare consenso: cioè trovare i voti necessari per essere eletto o eletta.

Per farlo, fino a qualche anno fa, serviva soprattutto avere una estesa rete di relazioni da coltivare ed espandere con le proprie competenze e qualità personali. Un candidato o una candidata partiva con una base di voti e durante la campagna elettorale lavorava per espanderla cercando di farsi conoscere in più contesti possibili e coi mezzi più disparati: fra le bancarelle del mercato, attraverso manifesti e santini, cioè i cartoncini che contengono un ritratto del candidato o della candidata, con comizi nelle associazioni di categoria, nei sindacati, nelle parrocchie, con le visite porta a porta.

A Tolentino, una cittadina di 20mila abitanti in provincia di Macerata, nelle Marche, in gran parte funziona ancora così. Lo racconta Rodolfo Frascarello, coordinatore provinciale del Partito Democratico.

Nonostante il partito possa dire di avere reclutato due candidate consigliere tramite la propria pagina Instagram, la 21enne Elena Silvetti e la 19enne Giada Malpiedi, secondo Frascarello «il 60-70 per cento della nostra campagna elettorale è ancora di tipo tradizionale». Inoltre, almeno finora, alla campagna non lavorano professionisti esterni: i profili sui social network dei candidati e la comunicazione politica vengono gestiti da «alcuni giovani che sono vicini al partito e ci danno una mano gratis».

La vicenda del Partito Democratico di Tolentino è in linea con un atlante stilizzato della comunicazione politica nei piccoli-medi centri che descrive Amenduni: «al Centro, soprattutto nel centrosinistra, c’è ancora una cultura legata all’organizzazione di partito che rende più facile creare eventi», e che convive con le strategie più moderne. «E mentre al Sud il voto è legato a filiere in cui la comunicazione politica sposta poco, al Nord le campagne assomigliano di più a quelle dei grandi centri».

Ci sono delle eccezioni, ovviamente. La politica locale di Mondovì, 22mila abitanti in provincia di Cuneo, in Piemonte, è dominata da decenni dalla famiglia Costa, che ha espresso ben due ministri: Raffaele, ministro della Sanità, dei Trasporti e degli Affari regionali negli anni Novanta, ed Enrico, ministro degli Affari regionali nei governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. I Costa hanno una solida tradizione centrista, tanto che Enrico Costa oggi è vicesegretario di Azione, il partito di Carlo Calenda.

A Mondovì i Costa contano talmente tanto che nel 2016 contribuirono a fare eleggere un sindaco che si presentò fuori dalle coalizioni di centrodestra e centrosinistra. A questo giro la stessa coalizione civica e centrista sostiene un altro candidato, che ha buone possibilità di essere eletto anche perché sostenuto da molte famiglie in vista della cittadina.

Enrico Costa durante un recente comizio (ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)

Anche a Mondovì, comunque, le liste si appoggiano a personale esterno per la comunicazione politica e la gestione dei social network; che però sono liberi professionisti che lavorano soprattutto in Piemonte, slegati da una grande agenzia.

Non è un caso, però, che un po’ in tutti piccoli-medi centri le strategie più contemporanee della comunicazione politica convivano insieme a quelle più tradizionali, che continuano a resistere.

La prima ragione è anagrafica. Gli elettori più anziani vanno tradizionalmente a votare in percentuale maggiore di quelli giovani: e il loro voto è ancora più prezioso nelle cittadine da qualche decina di migliaia di abitanti perché, banalmente, molti giovani tendono a trasferirsi nelle grandi città per studiare o lavorare. I metodi di campagna elettorale funzionano perché sono ancora i migliori per raggiungere le persone di una certa età, «che ancora oggi hanno piacere a ricevere una telefonata e ad essere coinvolte», racconta Frascarello.

La seconda ragione ha una natura economica. Da quando il finanziamento pubblico ai partiti è stato prosciugato con una legge dell’allora governo di Enrico Letta, nel 2013, nella politica locale girano pochissimi soldi. Le direzioni centrali dei partiti finanziano le campagne elettorali nelle grandi città e lasciano che in quelle più piccole i candidati sindaci e consiglieri si finanzino con i propri soldi o tramite cene o aperitivi. A volte i soldi sono talmente pochi che bastano soltanto per un consulente esterno a cui tocca fare un po’ tutto, e il cui stipendio viene diviso fra il candidato sindaco e i consiglieri della coalizione, come nel caso di Castellaneta.

Senza consulente esterno, quindi considerando solo materiali elettorali ed eventi, una campagna elettorale di una coalizione costa qualche migliaio di euro, che può arrivare a 10 o 15mila euro a seconda della tornata. Più o meno quanto costa la campagna elettorale di un singolo candidato o candidata consigliere comunale in una grande città.

Poi c’è anche un elemento di contesto. In una cittadina da 20mila o 30mila abitanti ci si conosce molto di più che in una grande città: per questo «le visite porta a porta, fisicamente, hanno ancora una loro efficacia», spiega Giovanni Diamanti, fondatore e responsabile per il marketing politico dell’agenzia di comunicazione Quorum/YouTrend, che ha sede a Torino. Le visite in cui il candidato o la candidata bussa alla porta degli elettori per presentarsi e illustrare il suo programma sono la norma negli Stati Uniti, spiega Diamanti, ma nelle principali città italiane «non c’è una grande tradizione perché nei condomini la persona che viene a bussare fa paura». Nelle cittadine, invece, «il contatto diretto fra candidato ed elettore ha maggiore rilevanza».

Esiste comunque una estesa percezione che il modo di fare campagna elettorale, che ha quindi comportato l’esigenza di avere nuove figure, sia cambiato una decina d’anni fa con la diffusione capillare di Facebook fra gli over 50, cioè fra gli elettori più assidui.

(Valeria Ferraro/SOPA Images via ZUMA Wire)

Tutti i candidati, anche quelli delle liste civiche più piccole e meno ambiziose, usano Facebook per fare politica: che siano il post contro la giunta uscente, il video per pubblicizzare le opere realizzate negli ultimi anni, la card – cioè la grafica con foto e parole – che prende in giro una dichiarazione dell’avversario. Soprattutto nei giorni precedenti al voto c’è tutto un traffico di “mi piace” reciproci fra candidati e attivisti, poco indicativo del risultato finale ma utile per dare l’impressione di essere sul pezzo.

Ma l’arrivo di Facebook ha portato anche cambiamenti più profondi, per esempio sul profilo dei candidati.

«Da qualche anno succede che persone che non fanno parte dell’establishment classico riescano a emergere grazie all’uso scientifico dei social», spiega Pietro Raffa, amministratore delegato dell’agenzia di comunicazione MR & Associati, di Milano. «Parliamo del classico personaggio che non ha rapporti con le élite e che tendenzialmente emerge in campagne di protesta e discontinuità», spiega Raffa. O ancora, ci sono casi di personaggi già noti che vogliono rifarsi una fama, magari da candidata o candidato espressione della società civile.

Facebook ha cambiato anche il tono e i temi delle campagne elettorali. La cronica crisi dell’editoria ha comportato la chiusura di decine di giornali locali, e molte aree si sono ritrovate con una copertura giornalistica scarsa, magari di un paio di pagine a settimana sul quotidiano cartaceo di riferimento, se non addirittura assente. In questo vuoto i lettori si sono spostati soprattutto su Facebook, dove i toni sono esasperati dall’effetto bolla e dalla polarizzazione.

Se da un lato questo genera una quantità notevole di piccole polemiche, storie che si ingigantiscono e amicizie che si rompono davanti a tutti – «se stai a New York puoi sapere quello che succede a Tolentino in tempo reale», dice Frascarello – dall’altro contribuisce alla dilatazione della campagna elettorale lungo tutti gli anni del mandato. «Ormai viviamo in una campagna elettorale perenne, che si limita ad accentuarsi nel periodo elettorale», dice Frascarello, che però non sembra così dispiaciuto: ricorda con affetto, per esempio, gli ultimi cinque anni passati a «martellare» il sindaco uscente di centrodestra, che a questo giro spera di battere.