Per i profughi non ucraini che arrivano in Italia i problemi sono sempre di più

Dall’inizio della guerra, il sistema di accoglienza ha iniziato a metterli in secondo piano, causando disagi e ingiustizie

di Luca Misculin

(AP Photo/Alessandra Tarantino)
(AP Photo/Alessandra Tarantino)
Caricamento player

L’arrivo in Italia di centomila profughi in poco più di due mesi a causa della guerra in Ucraina ha costretto il sistema dell’accoglienza italiano a far fronte a un’emergenza che non si vedeva da molti anni.

A detta di molti addetti ai lavori, nel complesso il sistema ha tenuto, grazie soprattutto agli sforzi del terzo settore e di alcune particolarità del flusso: moltissimi ucraini sono stati accolti infatti in maniera informale da parenti o amici. Ma parlando con chi si occupa quotidianamente di accoglienza e integrazione, l’arrivo degli ucraini ha comunque causato disagi ai profughi e richiedenti asilo che arrivano da altri paesi, in questo momento meno al centro del dibattito pubblico.

«È evidente che esista una priorità politica», spiega Valeria Capezio dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), «che ci mette nella difficile posizione di portare avanti soltanto i problemi che riguardano le persone che arrivano dall’Ucraina». Alcuni operatori parlano ancora più esplicitamente del fatto che il sistema italiano abbia identificato profughi “di serie A”, cioè gli ucraini, e profughi “di serie B”, cioè tutti quelli che provengono da altri paesi, più lontani e con culture più distanti dalla nostra.

È difficile quantificare il problema con numeri e dati, che in molti casi sono parziali o non esistono affatto.

In teoria l’accoglienza dei profughi ucraini e quella di migranti e richiedenti asilo “ordinari” dovrebbero viaggiare su due binari diversi. Il meccanismo della protezione temporanea attivato dall’Unione Europea prevede che le persone che scappano dalla guerra in Ucraina non debbano presentare alcuna richiesta di protezione nel paese in cui arrivano: sono tenute soltanto a segnalarsi alle autorità competenti, che in Italia sono le questure, senza passare dalle cosiddette commissioni territoriali che hanno il compito di esaminare le richieste di protezione. Per chi non ha un posto dove stare, inoltre, governo e Protezione Civile hanno approntato un bando di emergenza per creare 15mila posti fuori dai circuiti del sistema di accoglienza, i cui risultati dovrebbero essere pubblicati a giorni.

In realtà il flusso dei profughi ucraini e quello di tutti gli altri si sono incrociati e continuano a farlo, inevitabilmente.

Nelle prime settimane di guerra, a fronte dell’arrivo di migliaia di persone, le autorità italiane avevano inserito gli ucraini nei centri di accoglienza destinati a tutti i richiedenti asilo: quindi i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), gestiti dalle prefetture, e i piccoli centri della rete Sistema Accoglienza Integrazione (SAI), gestite dal ministero dell’Interno in collaborazione con i singoli Comuni. Il 28 febbraio, nel primo cosiddetto “decreto Ucraina”, il governo aveva aumentato di 5.000 posti la rete dei CAS e di 3.000 posti quella dei SAI: ma siccome creare dal nulla posti nuovi richiede tempo, energie e diversi passaggi burocratici, il sistema italiano ha accolto i primi ucraini con le risorse e i posti che aveva a disposizione in quel momento.

Diverse testimonianze raccolte dal Post mostrano che soprattutto nei primi giorni i gestori dei centri di accoglienza hanno ricevuto pressioni dalle prefetture per trovare posti per gli ucraini, a costo di trasferire alcuni ospiti altrove o espellere più rapidamente chi non aveva più diritto di rimanerci.

«Non abbiamo alcun riscontro concreto che ci permetta di fare denuncia, ma dal territorio ci sono arrivate diverse segnalazioni di prefetture che hanno chiesto di fare spazio agli ucraini, e dove possibile revocare l’accoglienza o trasferire alcune persone per ricavare dei posti», racconta Filippo Miraglia, vicepresidente e responsabile per l’immigrazione di ARCI. «Non saprei se dipende dall’accoglienza degli ucraini ma mi sembra di notare che dal ministero dell’Interno sia arrivata una indicazione, nelle ultime settimane, di svuotare i centri o fare controlli più dettagliati sugli ospiti», spiega Caterina Bove, un’avvocata che per conto di ASGI sta compilando un rapporto sulla prima accoglienza dei profughi ucraini in Italia.

In alcune regioni sembra che questa operazione sia avvenuta in maniera più esplicita che altrove, perché i posti disponibili nel sistema di accoglienza erano pochissimi ancora prima che iniziasse la guerra in Ucraina.

In Friuli Venezia Giulia, regione amministrata dalla Lega da tempo in fondo alle classifiche per l’accoglienza nella rete SAI e dove anche i CAS sono pochi, c’è stata una «vendetta del sistema», racconta Gianfranco Schiavone, esperto di immigrazione e presidente della onlus Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS).

Negli anni scorsi l’amministrazione leghista guidata da Massimiliano Fedriga aveva smontato in maniera così sistematica la rete di accoglienza che quando si è trattato di trovare dei posti per le famiglie ucraine gli spazi non c’erano oppure erano disponibili in strutture palesemente inadatte per ospitare profughi o richiedenti asilo, come la ex caserma Cavarzerani di Udine, molto utilizzata in questi anni per accogliere i migranti arrivati attraverso la cosiddetta “rotta balcanica”.

«Il governo regionale non avrebbe potuto mettere i profughi ucraini in questi spazi, perché si sarebbe attirato enormi critiche», racconta Schiavone, parlando di un esplicito «fastidio istituzionale» dimostrato dai funzionari locali quando constatavano che nei centri migliori i pochi posti disponibili erano già occupati dai richiedenti asilo arrivati attraverso la “rotta balcanica”: «ci sono state forzature per cercare di trasferire persone, terminare i progetti di accoglienza e liberare posti per sistemare gli ucraini».

Alla fine il Friuli Venezia Giulia è riuscito a fare pochissimo, limitandosi a permettere un punto di prima accoglienza alla frontiera con la Slovenia, gestito peraltro da associazion del terzo settore. Le manifestazioni di interesse al bando della Protezione Civile provenienti dal Friuli sono state pochissime: i posti a disposizione sono appena 84, quattordici in più di quelli disponibili in Molise, e 1.585 in meno di quelli in Veneto.

– Leggi anche: La problematica gestione dei migranti in Friuli Venezia Giulia

Ma oltre che nei centri, i disagi per il resto del sistema di accoglienza si sono concentrati nelle questure, da dove devono passare sia i profughi ucraini che vogliono ottenere la protezione temporanea, sia i richiedenti asilo e migranti ordinari. «Il grande problema della crisi ucraina è quello dell’accessibilità alle questure», spiega Capezio di ASGI.

Sono le questure, per conto del ministero dell’Interno, che gestiscono la stragrande maggioranza delle pratiche che riguardano il settore dell’immigrazione: dal rinnovo dei permessi di soggiorno, passando per le richieste di protezione internazionale, fino ad arrivare al nuovo canale riservato alle pratiche per la protezione temporanea degli ucraini, che ha sottratto personale ed energie a tutte le altre pratiche. «Gli uffici immigrazione delle questure italiane sono al collasso. Manca il personale ed il dramma ucraino mette in ginocchio un impianto già debole», scriveva a inizio marzo la CGIL.

Anche Filippo Miraglia, dell’ARCI, conferma che «il sistema era già ingolfato prima del 24 febbraio». «È dal 1997 che facciamo campagna per il trasferimento delle competenze delle questure in materia di immigrazione agli enti locali, anche per ragioni politiche. Ma è evidente che finché le competenze ce le avranno loro, i ritardi si tradurranno in aggravi di spesa e di tempo, oltre che di ingiustizie».

Capezio, dell’ASGI, spiega che il problema è più evidente nelle grandi città come Milano, Roma e Napoli, in cui le questure, semplicemente, non hanno il personale necessario per gestire efficacemente tutte le pratiche. E dall’inizio del flusso ucraino la priorità assoluta è stata data agli ucraini a discapito di tutti gli altri, a prescindere da dove provenissero.

Fra i primi cinque paesi di provenienza dei richiedenti asilo sbarcati nel 2022 in Italia, per esempio, ci sono ancora la Siria e l’Afghanistan, rispettivamente un paese in guerra e uno governato da una dittatura radicale e sanguinaria, ma anche paesi in cui le minoranze etniche sono spesso vittime di violenza come Bangladesh ed Egitto.

«Ci siamo trovati di fronte a questure che a marzo e ad aprile rimandavano indietro le persone che si mettevano in fila manifestando la volontà di chiedere asilo, dicendo loro che dovevano tornare ad ottobre perché adesso era il turno degli ucraini», racconta Capezio, che suggerisce che i casi siano stati molti di più di quelli osservati dalle associazioni che si occupano dei diritti dei migranti: «Tantissime persone che non hanno i contatti di un avvocato o qualcuno che le aiuti sono invisibili sul territorio».

Capezio aggiunge che anche i pochi richiedenti asilo che riescono a prendere appuntamento con la questura devono superare moltissimi altri ostacoli e passaggi burocratici per ottenere per esempio il codice fiscale, che in Italia permette di lavorare e ricevere assistenza sanitaria.

In teoria esistono regole precise, per esempio, per chi presenta in questura una domanda per la protezione speciale, quello che una volta si chiamava permesso di soggiorno per motivi umanitari ed era stato abolito dai cosiddetti “decreti sicurezza” promossi da Matteo Salvini. In teoria tutti i richiedenti di protezione speciale dovrebbero ottenere rapidamente un codice fiscale. «In realtà, come spesso accade, le prassi delle questure sono le più disparate», dice Capezio: «Milano non rilascia il codice fiscale, Lecce lo rilascia, altre ancora fanno problemi e sottopongono un quesito all’Agenzia delle entrate. Tutto questo a discapito della possibilità di esercitare diritti fondamentali».

Ai profughi ucraini, invece, il codice fiscale viene dato nel momento in cui si presentano in questura per segnalarsi e chiedere la protezione temporanea: la ricevuta della richiesta contiene già un codice fiscale. «Una persona che sa di avere passato drammi simili se non equivalenti non riesce a comprendere questa differenza di trattamento», racconta Caterina Bove di ASGI. E il rischio concreto è che con queste premesse qualsiasi progetto di accoglienza e integrazione parta col piede sbagliato.

Nelle prossime settimane è plausibile che la pressione sul sistema aumenterà: è arrivata la bella stagione, quella in cui tradizionalmente risalgono gli sbarchi dalle coste del Nord Africa e gli arrivi via terra della “rotta balcanica”. E i numeri fanno pensare che il 2022 sarà un anno in linea col 2021, quando soltanto via mare arrivarono 67mila persone, il numero più alto dal 2017.

L’unico fattore che potrebbe cambiare le cose è una progressiva riduzione delle ostilità in Ucraina, che convincerebbe diversi profughi arrivati in Italia a tornare indietro: ma su questo, al momento, non esiste alcuna certezza.