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  • Venerdì 6 maggio 2022

Perché la Russia è così ossessionata dalla Seconda guerra mondiale

Il mito e la retorica intorno alla vittoria sulla Germania nazista è sfruttato ora da Putin per giustificare l'invasione in Ucraina

Bombardieri Tupolev Tu-22M3 sopra la piazza Rossa di Mosca (Mikhail Voskresenskiy - Host Photo Agency via Getty Images)
Bombardieri Tupolev Tu-22M3 sopra la piazza Rossa di Mosca (Mikhail Voskresenskiy - Host Photo Agency via Getty Images)
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Nei primi anni Duemila il governo russo, guidato già allora dall’attuale presidente Vladimir Putin, iniziò a intervenire sui manuali scolastici di storia. Nel 2006, durante un incontro pubblico a cui partecipavano alcuni professori, Putin se la prese con i «falsificatori del passato» e promise che il governo avrebbe sorvegliato sulla scrittura dei nuovi manuali in modo che venissero compilati in modo «obiettivo». Nel 2007 uscì un manuale di storia per le scuole a firma di Alexander Filippov, spesso ricordato come un chiaro esempio degli sforzi russi di riscrivere la storia sovietica e produrre un «passato utilizzabile» dalla nazione per trovare una nuova unità.

Il modo in cui vengono narrati gli eventi storici è un aspetto a cui il regime di Putin ha sempre dedicato molte energie, fin dai primi anni. In particolare, notevoli sforzi sono stati rivolti alla costruzione della retorica intorno a un evento in particolare, la resa dei nazisti del 9 maggio 1945. È un evento che viene ricordato ogni anno con il Giorno della vittoria, festa nazionale per i russi, e ha costituito uno dei miti fondanti dell’identità nazionale costruita da Putin. Anche il falso pretesto con cui Putin ha iniziato l’invasione in Ucraina, ossia la “denazificazione” del paese, attinge da quel periodo storico.

Non è un caso che in queste settimane si stiano facendo varie ipotesi su cosa accadrà il prossimo 9 maggio. Secondo il governo ucraino la Russia organizzerà una parata nelle strade occupate di Mariupol. Nelle scorse settimane in molti sostenevano che l’obiettivo russo fosse ottenere un qualche tipo di vittoria militare in Ucraina prima del 9 maggio, mentre oggi si parla molto dell’ipotesi – al momento senza nessun tipo di conferma – secondo cui Putin possa sfruttare l’occasione del Giorno della vittoria per dichiarare formalmente guerra all’Ucraina e annunciare la mobilitazione di massa del paese.

La piazza Rossa di Mosca durante la parata militare del 24 giugno 2020, posticipata a causa della pandemia da coronavirus (Mikhail Voskresenskiy – Host Photo Agency via Getty Images )

Il governo russo ha smentito tramite le proprie agenzie di stampa tutte queste ipotesi, ma indipendentemente da ciò il 9 maggio rimane una data di particolare importanza, in cui si celebra il mito della Grande guerra patriottica, come viene chiamata la Seconda guerra mondiale dai russi. Ma anche se oggi la vittoria sovietica sui nazisti viene ricordata e celebrata regolarmente con cerimonie pubbliche, in passato non è sempre stato così.

La Seconda guerra mondiale cominciò nel 1939 quando la Germania nazista di Hitler invase la Polonia, eppure i riferimenti temporali dei russi e della Grande guerra patriottica sono diversi: 1941-1945. Questo perché nella fase che va dal 1939 al 1941 l’Unione Sovietica era formalmente alleata con i nazisti, attraverso un accordo di non aggressione firmato pochi giorni prima dell’invasione polacca, il cosiddetto patto Molotov-Ribbentrop (dal nome dei ministri degli Esteri dei rispettivi paesi).

Nel contesto assai teso e militarizzato dell’Europa di fine anni Trenta, l’Unione Sovietica comunista aveva cercato una sponda diplomatica con Regno Unito e Francia, senza trovarla. Per mantenere la propria influenza almeno in una parte dell’Europa orientale, firmò quindi il patto con la Germania che prevedeva anche un protocollo segreto, con il quale i due paesi si dividevano le sfere di influenza: all’Unione Sovietica l’Estonia, la Lettonia, la Finlandia e la Bessarabia (parte delle attuali Ucraina e Moldavia), alla Germania la Lituania.

Questo stato di cose andava momentaneamente bene a Hitler, perché poté concentrarsi sulla Polonia e sul fronte occidentale, dove nel giro di pochi mesi ottenne una serie impressionante di vittorie militari. Una volta ottenuto il dominio su quasi tutta l’Europa a eccezione del Regno Unito, però, i piani di espansione nazisti si concentrarono verso Oriente. Tra il 1940 e il 1941 i rapporti tra i diplomatici tedeschi e sovietici si deteriorarono e il 22 giugno 1941 ebbe inizio l’offensiva tedesca contro l’Unione Sovietica, che aveva il nome in codice “Operazione Barbarossa”.

L’offensiva non andò secondo i piani per via di una serie di cause, tra cui l’arrivo dell’inverno e un’inaspettata resistenza sovietica nelle città. Divenne in seguito particolarmente celebre l’assedio di Leningrado (oggi San Pietroburgo), durato 900 giorni e oggetto a sua volta di una glorificazione nei decenni successivi.

Il monumento al milite ignoto nei giardini di Alessandro, lungo le mura del Cremlino (Alexey Filippov – Host Photo Agency via Getty Images)

L’inerzia della guerra cominciò a cambiare grazie all’enorme quantità di risorse umane messe in campo dall’esercito sovietico – l’Armata Rossa – che sconfisse clamorosamente la Germania nella battaglia di Stalingrado, e grazie all’intervento degli Stati Uniti che impegnò i nazisti su più fronti. Eppure dopo lo storico ingresso dell’Armata Rossa a Berlino e la resa dei nazisti, il regime sovietico per anni parlò con riluttanza di quella vittoria.

Le enormi perdite dell’Unione Sovietica, oltre 26 milioni di uomini, oggi vengono celebrate ma nei primi anni dopo la guerra vennero occultate. L’allora leader sovietico, Stalin, diffuse cifre molto inferiori, temendo di offrire al mondo un’immagine di debolezza. I racconti degli assedi – scritti principalmente da donne intellettuali rimaste nelle città – venivano censurati nelle loro parti più crude, in cui si raccontava la fame e la miseria.

Inoltre, Stalin era probabilmente consapevole di aver commesso un tragico errore di valutazione tra il 1940 e il 1941, quando si rifiutò sistematicamente di dare ascolto all’intelligence che lo avvertiva dell’imminente invasione tedesca, di cui c’erano chiari segnali. Qualsiasi celebrazione ufficiale rischiava quindi di dare risalto anche a questi errori, e alla contraddizione di essere rimasti alleati fino all’ultimo di un paese che poi si era rivelato aggressore, nonché principale responsabile della più grande catastrofe del Novecento.

Un nuovo racconto pubblico delle vittorie della Seconda guerra mondiale e dell’eroismo della resistenza sovietica venne introdotto solo dopo la morte di Stalin, con l’ascesa al potere di Nikita Kruscev. Anche se in molte repubbliche socialiste il 9 maggio era già festa nazionale, in Russia lo diventò soltanto nel 1965. Da quel momento la vittoria sui nazisti diventò uno dei temi più esplorati dalla propaganda e dalla cultura di regime, le vennero dedicati film, libri e documentari e cominciarono i riti di celebrazione massicci con le parate militari, ridimensionate negli anni Novanta e poi riprese da Putin.

Secondo lo storico Nikolay Koposov, esperto di storia delle idee e di memoria storica, negli anni Duemila la Grande guerra patriottica «è diventata un vero e proprio mito delle origini per la Russia postsovietica […]. Sebbene la storiografia recente presenti un quadro della guerra molto più contrastato rispetto alla sua immagine eroica convenzionale, ciò non impedisce a questo mito, sostenuto dalla propaganda statale, di conquistare l’opinione russa».

Koposov aggiunge un altro elemento all’importanza di questo mito: citando la storica russa Dina Khapaeva, definisce la memoria della Grande guerra patriottica un «mito di sbarramento», cioè funzionale a oscurare un’altra memoria, «quella del terrore staliniano, e a convincere i russi del ruolo positivo dello Stato nella storia nazionale».

Enfatizzando il mito della vittoria sui nazisti, il regime ha potuto così eclissare gli aspetti più problematici del passato sovietico, come l’autoritarismo e la violenza indiscriminata contro gli oppositori politici. «La società postsovietica ha avuto tendenza a mostrare maggiore indulgenza verso il proprio passato» scrive Koposov. «Si è fissata sul suo preteso lato eroico, senza riflettere sui suoi aspetti tragici, di cui peraltro è perfettamente cosciente».

Da vent’anni insomma è in atto un processo di rivalutazione del passato, al cui centro c’è un popolo – quello russo – rappresentato come innocente e glorioso, che non merita di sentirsi inferiore all’Occidente, come invece era avvenuto nell’ultimo periodo del regime comunista e negli anni Novanta, caratterizzati da una grave crisi economica che segnò profondamente la società russa. Questo processo è stato da un lato favorito dal governo e dall’altro sfruttato, scrive Koposov: «Nella misura in cui la guerra del 1941-1945 può essere considerata al tempo stesso come un trionfo dello Stato e un’azione eroica del popolo, la sua memoria serve da luogo d’incontro privilegiato fra l’ideologia statalista e la fierezza nazionale».