C’è troppo inglese nella ricerca scientifica?

Il fatto che la diffusione di uno studio spesso dipenda dalla lingua in cui è scritto è ritenuto un rischio di distorsioni e disparità

lost in translation
Un fotogramma del film del 2003 “Lost in translation”
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In diverse parti del mondo, nell’ambito della ricerca scientifica, gli autori e le autrici che intendano produrre lavori riconosciuti e possibilmente influenti a livello internazionale si misurano quotidianamente con la necessità di pubblicare testi in lingua inglese. Questo implica la loro capacità di leggere articoli e documenti scritti in inglese e, spesso, la partecipazione a conferenze, convegni e discussioni accademiche in cui l’inglese è la lingua parlata dai presenti.

L’inglese è talmente diffuso che in molti paesi non anglofoni come Germania, Francia e Spagna, gli articoli scientifici in lingua inglese superano in quantità, e di molto, le pubblicazioni nella lingua ufficiale di ciascuno di quei paesi. Nel biennio 2008-2011, secondo una ricerca pubblicata nel 2012 dalla rivista online Research Trends, il rapporto tra pubblicazioni scientifiche in lingua inglese e nella lingua ufficiale del paese della pubblicazione era di oltre 40 a 1 nei Paesi Bassi, di circa 30 a 1 in Italia e di circa 27 a 1 in Russia, i tre paesi con il rapporto più alto.

Da diverso tempo, all’interno del più ampio dibattito sui limiti degli strumenti e dei metodi della ricerca, esiste una discussione specifica – sviluppata anche nei paesi anglofoni – riguardo alle implicazioni problematiche dell’utilizzo dell’inglese come lingua universale della scienza. La domanda condivisa tra studiosi di diverse discipline è se parti più o meno rilevanti del sapere scientifico siano trascurate o ignorate a causa del loro non essere diffuse in lingua inglese. Ci si chiede inoltre quanto di quel sapere si potrebbe eventualmente condividere a fronte di un maggiore sforzo di traduzione e quanto invece sia, in alcuni casi, intraducibile se non a costo di perdere un pezzo dell’informazione stessa.

Il problema della traduzione è presente in modo particolare negli studi che presentano un legame molto stretto con il territorio, come per esempio molti studi di biologia che si occupano di conservazione delle specie e degli ecosistemi. Secondo un’ampia ricerca pubblicata nel 2021 sulla rivista scientifica PLOS Biology e condotta da oltre 60 ricercatori e ricercatrici provenienti da varie università e istituti di ricerca in tutto il mondo, gli studi sottoposti a revisione paritaria (peer-reviewed) ma scritti in lingue diverse dall’inglese forniscono informazioni ritenute essenziali in materia di biodiversità mondiale.

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Gli autori dello studio sostengono inoltre che studi rilevanti non in lingua inglese siano pubblicati a un ritmo crescente in 6 delle 12 lingue da loro prese in considerazione, quelle in cui c’è un numero sufficiente di studi (in totale hanno analizzato oltre 400 mila studi). Tener conto di questi contributi alla ricerca sviluppati in lingue diverse dall’inglese permetterebbe di estendere la copertura geografica delle prove scientifiche relative alla biodiversità dal 12 al 25 per cento e la copertura tassonomica – il numero di specie che sia oggetto di studi pertinenti – dal 5 al 32 per cento. Questi studi, alcuni dei quali oggetto di pregiudizi sistematici per il loro non essere scritti in inglese, fornirebbero secondo la ricerca su PLOS Biology informazioni su 9 specie di anfibi, 217 specie di uccelli e 64 specie di mammiferi non oggetto di studi in lingua inglese.

«Il presupposto ampiamente diffuso che qualsiasi informazione scientifica importante sia disponibile in inglese è alla base della sottoutilizzazione della scienza non in lingua inglese in tutte le discipline», affermano gli autori. Uno degli studi in lingue diverse dall’inglese da loro presi in considerazione è, per esempio, uno studio in lingua giapponese su una corretta misura di conservazione del gufo pescatore di Blakiston – un uccello in via d’estinzione – sull’isola di Hokkaido. Un altro studio, in lingua spagnola, riguarda l’efficacia dell’utilizzo di cani meticci da guardia per proteggere il bestiame da allevamento in Patagonia senza dover ricorrere all’uccisione di carnivori autoctoni in pericolo di estinzione.

Il biologo giapponese Tatsuya Amano, uno degli autori della ricerca su PLOS Biology e ricercatore della University of Queensland, in Australia, è anche coautore di un articolo pubblicato a settembre 2021 sulla rivista Nature Human Behaviour in cui si discutono le «gravi conseguenze» delle barriere linguistiche nella scienza. Secondo Amano e gli altri autori, le barriere linguistiche sono sia causa di grandi disparità per le comunità sottorappresentate nel mondo accademico che causa di inaccessibilità delle conoscenze non in lingua inglese.

La mancanza di capacità linguistiche influisce spesso sulle opportunità di istruzione e di carriera per i non madrelingua inglese, che costituiscono il 95 per cento della popolazione mondiale, fanno notare gli autori dell’articolo. E spesso il compito di superare quelle barriere linguistiche è lasciato ai singoli individui, che possono farlo soltanto attraverso i propri sforzi e investimenti, a seconda delle loro possibilità. Tra le misure ritenute dagli autori dell’articolo potenzialmente utili a ridurre il problema delle barriere linguistiche ci sono la diffusione dei risultati delle ricerche in più lingue e l’utilizzo di conoscenze diffuse in lingue diverse dall’inglese. Servirebbe inoltre fornire sostegno concreto a ricercatori e ricercatrici interessati a parlare una lingua diversa dalla loro lingua madre.

Le barriere linguistiche nella ricerca ostacolano il trasferimento di conoscenze e determinano lacune e distorsioni nel sapere condiviso, secondo Amano. Questo si riflette in un maggiore orientamento della comunità scientifica verso lavori pubblicati in inglese e, in alcuni casi, in una rappresentazione eccessiva di determinati risultati e una mancata rappresentazione di altri.

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Come ricordato da Amano in una precedente ricerca su PLOS Biology, nel 2004 alcuni importanti studi che riportavano casi di infezione di maiali con il virus dell’influenza aviaria (H5N1) avvenuti in Cina furono inizialmente trascurati dalle organizzazioni internazionali, inclusa l’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché pubblicati soltanto in cinese. «Sarebbe opportuno procedere urgentemente con la preparazione alla pandemia di due sottotipi di influenza», scrissero gli autori in uno degli studi, pubblicato su una piccola rivista di medicina veterinaria.

Alcuni studiosi non vedono un problema nel fatto che l’inglese sia la lingua della scienza e, in termini generali, ritengono anzi che l’esistenza di una lingua comune sia un bene per la ricerca. Secondo Scott Montgomery, geologo della University of Washington e autore del libro Does Science Need a Global Language?, l’uso di un unico linguaggio condiviso è essenziale non soltanto per ragioni di efficienza ma di collaborazione nel mondo accademico. Montgomery ha detto al Guardian che «l’apprendimento dell’inglese dovrebbe essere qualcosa di simile all’apprendimento della matematica, per gli scienziati».

Come osservato dallo storico della Princeton University Michael Gordin, peraltro esperto di storia dello sviluppo delle scienze naturali in Russia, la traduzione dei risultati della ricerca in una lingua più diffusa è una pratica abituale e presente da millenni nella storia della scienza. «La conoscenza araba, che fu centrale dal IX al XIII secolo, era in parte conoscenza persiana tradotta in arabo, ma un’altra cospicua parte era greca e siriaca [una lingua semitica appartenente al gruppo dell’aramaico orientale] tradotta in arabo», ha detto Gordin al Guardian.

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Come raccontato da Gordin in un articolo pubblicato nel 2015 sulla rivista Aeon, per un lungo periodo compreso tra il XV e il XVII secolo gli scienziati condussero le loro ricerche utilizzando sostanzialmente due lingue: la loro lingua madre, quando discutevano del loro lavoro nelle conversazioni, e il latino, quando scrivevano testi ufficiali e comunicavano con scienziati di altri paesi. Il latino non era la lingua madre di alcuna nazione specifica, e gli studiosi di tutte le società europee potevano farne un uso che era concretamente percepito come un uso tra pari: «Un veicolo adatto per affermazioni sulla natura universale», non una lingua «posseduta» da un qualche paese.

Le successive evoluzioni della Rivoluzione scientifica portarono molti scienziati a cominciare a mettere da parte il latino e preferire la lingua dei loro rispettivi paesi, nel tentativo di raggiungere un «pubblico più locale» e ottenere più facilmente patrocinio e sostegno, scrive Gordin. Ma questo cambiamento rese progressivamente più difficile per gli scienziati comprendere il lavoro svolto al di fuori dei loro paesi, portando alla formazione di barriere linguistiche all’interno della comunità scientifica.

Con il passare del tempo, di conseguenza, i vocabolari scientifici di molte lingue non sono riusciti a tenere il passo di scoperte e nuovi sviluppi della ricerca in determinati contesti accademici. Fino al punto che sono oggi frequenti i casi in cui le parole vengono semplicemente importate e traslitterate dall’inglese, come per esempio per la parola «quark», scrisse l’Atlantic nel 2015.

Facendo l’esempio della Svezia, che da decenni favorisce l’utilizzo dell’inglese come lingua primaria nell’istruzione scientifica di livello universitario, il linguista australiano Joe Lo Bianco, docente alla University of Melbourne ed ex presidente dell’Australian Academy of the Humanities, un ente di ricerca in studi umanistici, osservò in uno studio nel 2007 il fenomeno del «progressivo deterioramento delle competenze linguistiche in svedese nei discorsi di alto livello». Lo Bianco definì «collasso del dominio» quel caso in cui una lingua smetta di adattarsi ai cambiamenti in un determinato campo, al punto da cessare del tutto di essere un mezzo di comunicazione efficace in quel particolare dominio.

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Un modo di rendere le conoscenze scientifiche meno inaccessibili per le persone che non conoscono l’inglese, secondo lo storico della scienza Gordin, potrebbe essere l’estensione dell’uso della traduzione automatica. Oppure potrebbe essere utile finanziare grandi organizzazioni scientifiche affinché si occupino dell’editing e della traduzione in una lingua universale di testi scientifici diffusi nelle varie lingue locali. Idealmente, per Gordin, sarebbe vantaggioso un contesto internazionale in cui, per esempio, cinese, inglese e spagnolo siano considerate le tre lingue della scienza – e ci si aspetti quindi che gli scienziati ne abbiano una conoscenza passiva – così come inglese, francese e tedesco rappresentavano la maggior parte della comunicazione della scienza nel XIX secolo.

In molti paesi del sud del mondo, come ha spiegato al Guardian Nina Hunter, ricercatrice della University of KwaZulu-Natal a Durban, in Sudafrica, la disuguaglianza nell’influenza internazionale rispetto a quella dei paesi del nord è legata spesso a situazioni storiche in cui molti biologi di comunità indigene in Sud America e in Africa hanno già dovuto compiere lo sforzo di imparare la lingua coloniale del loro paese. E molti di loro non hanno di fatto la possibilità di accrescere le proprie conoscenze personali e professionali perché gran parte della ricerca internazionale è pubblicata esclusivamente in una lingua che non conoscono.

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Valeria Ramírez Castañeda, una biologa colombiana di madrelingua spagnola della University of California, Berkeley, che conduce studi in scienze biologiche in Amazzonia, scrisse in un articolo pubblicato nel 2020 su PLOS One che la Colombia è uno tra i paesi con minore conoscenza dell’inglese al mondo e che la necessità di pubblicare articoli scientifici in inglese comporta per molte ricercatrici e ricercatori colombiani una spesa economica rilevante. Stando ai prezzi dei servizi di traduzione ed editing in inglese presi in considerazione da Castañeda, il costo per un singolo articolo comporta una spesa compresa tra un quarto e metà dello stipendio mensile di un dottorato in Colombia.

Come peraltro indirettamente confermato da Castañeda al Guardian, esistono infine problemi di incommensurabilità tra lingue diverse e limiti intrinseci di traducibilità di alcune conoscenze prodotte in parti diverse del mondo. Problemi che sono stati peraltro oggetto di un esteso dibattito e di influenti studi di linguistica e di antropologia fin dai primi decenni del Novecento.

Castañeda ha detto che nel lavoro che conduce con le comunità indigene in Amazzonia, per esempio, si misura con lingue locali che in molti casi non hanno una singola parola per definire le specie animali oggetto dei suoi studi. «Per me è impossibile tradurre tutto quanto in inglese», ha detto Castañeda, affermando la necessità che la scienza sia presentata in più lingue e che alle persone sia data la possibilità di fare scienza nella propria lingua madre.

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Come detto all’Atlantic nel 2015 dall’esperto di comunicazione della scienza indiano Sean Perera, ricercatore alla Australian National University, a Canberra, fino a quando l’inglese rimarrà la lingua egemonica della scienza, costringere gli scienziati di altre origini culturali a esprimersi in una lingua unica comporterà «il grande costo di perdere i loro modi unici di comunicare le idee». Con il rischio che, nel tempo, quei modi di comprendere il mondo scompaiano del tutto.

Utilizzare soltanto una lingua come linguaggio universale della scienza, concludeva l’Atlantic, significa selezionare un solo modo di guardare al mondo, un modo molto specifico e «che può rendere facile scartare altri tipi di informazioni classificandole come nient’altro che folclore». Esiste invece una crescente consapevolezza del fatto che la conoscenza non prodotta attraverso i metodi di ricerca accademici tradizionali possa essere di grande valore per la comunità scientifica.

Lo dimostra – ed è soltanto uno tra numerosi esempi – il caso di alcune leggende tramandate tra i Luritja, una popolazione aborigena dei deserti dell’Australia centrale. Una di queste narra la storia di un «diavolo di fuoco» che scese dal Sole e raggiunse la Terra distruggendo ogni cosa nelle vicinanze dell’area in cui atterrò: evento che alcuni astrofisici e geologi hanno associato alla caduta di un meteorite circa 4.700 anni fa in una parte del Territorio del Nord, in Australia, oggi area protetta nella zona del Ghan.