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  • Sabato 30 aprile 2022

La fluidità tra promozione e informazione nel giornalismo di moda è più fluida ancora

In modi differenti tra Italia e Stati Uniti

Un articolo del 2018 del sito di news Business of Fashion
Un articolo del 2018 del sito di news Business of Fashion
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Negli ultimi mesi il giornalismo di moda americano sta discutendo, con nuova intensità e con inusuali rivendicazioni sindacali, sulla legittimità per i redattori e collaboratori dei giornali di operare come influencer, proponendo sui propri canali social contenuti sponsorizzati e quindi pagati dalle aziende, in autonomia rispetto al proprio lavoro giornalistico. La pratica, che negli Stati Uniti è lecita ma soggetta a regolamentazioni interne da parte delle testate, sta diventando sempre di più una fonte di reddito e di retribuzioni che da alcuni dei beneficiari sono ritenute “indispensabili”, in considerazione del calo dei compensi nell’editoria giornalistica: chi ha saputo crearsi un seguito social numericamente importante può incassare anche cifre pari o superiori al reddito abituale.

La questione non sembra dover innescare identiche rivendicazioni nel giornalismo di moda italiano, perché nel nostro paese la possibilità di svolgere una qualsiasi attività pubblicitaria è vietata ai giornalisti dai regolamenti dell’Ordine nazionale. Però la crisi delle aziende editoriali e un crescente rapporto di sudditanza nei confronti dei brand e degli inserzionisti (che sta alla base di queste polemiche americane) ha riflessi importanti anche nel contesto italiano. I rapporti fra giornalismo, marketing e pubblicità nel settore sono infatti caratterizzati da ampie “zone grigie”.

Negli Stati Uniti la discussione si è riaperta dopo il licenziamento di Andrew Nguyen, giornalista di The Cut, sito che si occupa soprattutto di moda all’interno del New York Magazine. Era stato lo stesso Nguyen ad annunciare ai suoi follower su Instagram la decisione dell’azienda, al termine di un procedimento interno per una collaborazione pubblicitaria non autorizzata con Target, enorme catena di grandi magazzini americana. Nguyen, che in passato aveva fatto lo stilista, grazie anche al suo ruolo con The Cut aveva guadagnato un buon seguito sui social ed era contattato da varie aziende per pubblicare contenuti sponsorizzati. “Mi piaceva trasformare le mie passioni in opportunità pagate di dare nuovi confini al mio lavoro – ha scritto poi Nguyen su Instagram – e mi aiutava finanziariamente, visto che il mio stipendio al giornale non era sufficiente per vivere in una città cara come New York”. I regolamenti interni a The Cut prevedono la richiesta di un’autorizzazione, che veniva valutata “caso per caso – hanno detto poi alcune fonti a Gawker, blog newyorkese che si occupa di media e gossip – ma senza una comprensibile policy: le decisioni sembravano basarsi sul ‘vivi e lascia vivere’”. L’autorizzazione, arrivata per molte delle precedenti collaborazioni di Nguyen, fu negata perché il giornalista qualche mese prima aveva scritto una recensione positiva di una collezione di Target e le due cose potevano apparire in relazione: il successivo ingaggio da parte della stessa azienda avrebbe creato un conflitto di interessi. Nguyen, il cui cachet per la partecipazione al video sarebbe stato pari al 40 per cento del suo stipendio annuale da The Cut, annunciò che avrebbe partecipato comunque, appellandosi alla poca chiarezza delle norme, ad alcuni precedenti simili di colleghi e superiori, e a una politica contraddittoria della testata, che a sua volta spesso è protagonista di operazioni simili. Qualche settimana dopo l’inizio delle riprese del video era stato licenziato.

La regolamentazione o meglio la liberalizzazione di questo tipo di collaborazioni è diventata una delle richieste comuni di molti degli impiegati nel settore del giornalismo di moda americano. Negli ultimi anni i giornalisti hanno spesso costruito comunità e seguiti simili a quelli di influencer di medio livello, diventando possibili attori nel mercato in forte crescita dei post sponsorizzati, in cui i personaggi scelti dalle aziende promuovono oggetti, vestiti, collezioni. Intanto, di pari passo, la crisi del settore editoriale portava a una riduzione dei compensi e alla ricerca, da parte delle testate, di nuove forme di introiti.

Sciascia Gambaccini, ex direttrice moda di Vogue Italia, Interview, Marie Claire, Jane e A, che oggi vive e lavora negli Stati Uniti, spiega: «Fino a pochi anni fa era ritenuto molto scorretto pensare che una fashion editor potesse promuovere un prodotto, ma parlo di un periodo in cui i redattori, sia in Italia che negli Stati Uniti, avevano uno stipendio fisso e un contratto buono. Oggi non è più così. Ricordo che negli anni ’90 un collega fu rimproverato per aver partecipato a un noto programma televisivo, perché editoria e tv “dovevano rimanere separati”. Ora i vari mondi si stanno mescolando: del resto ci sono fashion editor che riescono a svolgere il loro compito sui social in modo credibile. Se lo fanno con etica e solidità professionale io non ho problemi a fidarmi del loro giudizio, ben sapendo quali sono le dinamiche alle spalle».

Praticamente tutte le riviste statunitensi più note operano nel settore dei social con contenuti sponsorizzati (anche il Post promuove sui social network alcuni suoi articoli sponsorizzati, con indicazione esplicita della loro natura, ndr), e alcune chiedono ai loro giornalisti di punta di partecipare in prima persona ai post con una retribuzione stabilita. Chrissy Rutherford, autrice di Harper’s Bazaar, ha raccontato a Amy Odell, (che cura una seguita newsletter di moda e cultura, Back Row): “Venivamo pagati 500 dollari per collaborazioni che fruttavano alla casa editrice anche cifre a sei zeri”. Rutherford è poi diventata influencer a tempo pieno, con tariffe fra i 2500 e i 4000 dollari per contenuti sponsorizzati sui suoi canali social.

Altri editori (fra cui Vogue Usa) permettono iniziative e accordi personali dei propri giornalisti con i brand, ma trattenendo una cifra fra il 40 e il 50 per cento (contro il classico 20 per cento degli agenti), in virtù del fatto che la notorietà del giornalista è legata alla testata che rappresenta. Esiste insomma un mercato, per lo più peculiare del settore della moda (ma attivo anche nel beauty e in parte nell’automotive), mal regolamentato e con limitazioni imposte solo dagli statuti interni degli editori. Statuti che spesso negli Stati Uniti sono invece molto più rigidi rispetto all’Italia per quel che riguarda i regali, i viaggi e le trasferte pagate dagli inserzionisti. I primi non possono generalmente essere accettati se il valore supera una cifra che può variare dai 100 ai 25 dollari, i secondi sono soggetti ad autorizzazione e spesso “sconsigliati”, almeno nelle testate più tradizionali e autorevoli. D’altro canto, però, la moltiplicazione del numero degli appuntamenti e delle sfilate, che si svolgono spesso in località esotiche e raggiungibili solo con viaggi costosi, ha fatto sì che la presenza dei giornalisti agli eventi al di fuori del circuito classico Parigi-Milano-Londra-New York sia legata all’organizzazione di “viaggi stampa” pagati dai brand.

In Italia contesto, regole e situazioni sono molto diverse, seppur in uno scenario di rapporti di forza economica simili. La discriminante decisiva, riguardo ai contenuti sponsorizzati, è il divieto per i giornalisti iscritti all’Ordine di partecipare a ogni tipo di pubblicità di prodotti a fini commerciali. Il mercato dei post sponsorizzati è rimasto quindi prerogativa degli influencer. «Va detto – puntualizza Federica Salto, giornalista freelance e autrice di una newsletter settimanale – che pochi fra gli assunti nei grandi giornali di moda appartengono alla generazione “Insta-friendly”. Esiste invece un mondo, nella generazioni più giovani, in cui i confini fra giornalista, influencer e collaboratore per le stesse case di moda sono labili: parlo di freelance che non sono nemmeno più interessati a prendere il tesserino dell’Ordine, perché quel percorso è quasi impossibile da percorrere e poco remunerativo, e si muovono invece con libertà fra collaborazioni di ogni genere, ora editoriali, ora di pubblicazioni pubblicitarie, ora di creazione di un proprio “brand” sui social».

Redattori del settore raccontano che, nella maggior parte dei casi, i giornali chiedono espressamente ai dipendenti presenza e attività sui social dai profili personali, ma finalizzata alla promozione della testata e dei suoi contenuti, senza spostarsi mai a livello commerciale. Politiche dichiaratamente “ibride” fra marketing e giornalismo con coinvolgimento dei redattori non sono possibili per la separazione rigida, almeno a livello formale e “sindacale”, tra i due diversi uffici.

Diversa e meno regolamentata è la questione dei regali dalle case di moda, ricevuti o richiesti. Anche in questo settore è diventata comune sui social la pratica dell’“unboxing”, l’atto di spacchettare in video un regalo ricevuto da un brand, raccontandone le caratteristiche e ringraziando per l’omaggio (pratica che ormai è sfruttata anche in altri settori, come per esempio quello dei libri). Questa pubblicità poco occulta e per lo più tollerata coinvolge anche i giornalisti di moda, inserendosi in una zona grigia e non regolamentata che secondo molti addetti ai lavori ha compromesso almeno in parte la credibilità della stampa di settore (anche se è erede poco lontana della tradizionale pratica giornalistica di scrivere bene di strutture ricettive o offerte di viaggio di cui si è beneficiato gratuitamente).

Antonio Mancinelli, giornalista, scrittore e docente di moda, protagonista di questo mondo dagli anni Ottanta, dice: «L’unboxing è totalmente contrario alle regole dell’Ordine, ma le connessioni fra stampa e stilisti si muovono e si sono sempre mosse su un doppio livello. A questo, che coinvolge i giornalisti e che ai tempi d’oro era anche molto più generoso, se ne affianca uno più alto, che interessa direttori, amministratori delegati, uffici marketing e passa sopra la testa delle redazioni». Il tema è quello della dipendenza di molte delle testate specializzate dagli investimenti pubblicitari delle grandi case, una condizione che in tempi recenti accomuna anche molti quotidiani e riviste generaliste ma che è ovviamente più pesante su pubblicazioni con argomenti e pubblico di settore. Le relazioni sono state strette sin dagli anni Settanta ed è in questo campo che nascono le collaborazioni conosciute come pubbliredazionali. Sono le pagine speciali, scritte e composte da un giornale ma acquistate da inserzionisti, che ne decidono il tema e che hanno un controllo, più o meno grande a seconda delle occasioni, anche sui contenuti. Le pagine dovrebbero essere distinte e riconoscibili per il lettore: accortezza che negli ultimi anni è sempre meno rispettata.

Nacquero sul finire degli anni Settanta, quando il direttore di Uomo Vogue Flavio Lucchini e il direttore commerciale di Condé Nast Attilio Fontanesi lanciano la formula del “groupage”, servizi editoriali di dieci-venti pagine con cui i sarti italiani, da Valentino a Balestra, da Krizia ad Armani, potevano mostrare il loro lavoro utilizzando le strutture e capacità editoriali di periodici di alto livello. «Era tutto alla luce del sole e per questo onesto – sostiene Mancinelli – invece capii che le cose stavano precipitando agli inizi degli anni Novanta, quando in redazione al Corriere arrivò una telefonata di uno stilista: annunciava il ritiro della pubblicità dopo una recensione negativa di una sua sfilata. Se questo poteva accadere anche nei quotidiani, meno dipendenti dagli investimenti pubblicitari del settore, era il segno della fine».

Oggi molti professionisti del settore lamentano l’assenza di una vera “critica di moda” (ovvero capace anche di critica e analisi e non solo di promozione), che è invece consolidata, seppur con limiti e criticità, in altri campi anche commerciali, come il cinema, l’editoria o la ristorazione.

In tempi recenti la prolungata crisi dei periodici e la contemporanea contrazione del comparto moda conseguente alla pandemia sta mettendo in ulteriore difficoltà la stampa di settore, già scavalcata sia dalla crescita di rilevanza e di attenzioni per gli influencer che dallo sviluppo dei grandi brand come produttori autonomi di contenuti editoriali. I grandi marchi hanno mezzi per assoldare registi e fotografi di alto livello e per assumere i più quotati social media manager, e trasmettere i loro messaggi online senza intermediazioni. «La risposta dei giornali – dice ancora Mancinelli – invece di rivaleggiare per qualità, è stata cercare di venire ulteriormente incontro ai brand rendendo la collusione fin troppo evidente e finendo col diminuire il proprio valore nella percezione non solo dei lettori, ma anche delle stesse aziende».

Come in ogni contesto, il panorama generale ha declinazioni diverse a seconda delle specificità e della forza della testata, nonché numerose eccezioni. L’ultimo decennio ha visto l’intensificarsi di un dibattito sui modelli del giornalismo di moda nonché la nascita di riviste indipendenti e siti online. Con dimensioni e costi più contenuti cercano di rendersi più indipendenti dalle pubblicità dei marchi. Sciascia Gambaccini conclude: «Io vedo giornalisti delle nuove generazioni che hanno persino più libertà di quella che era concessa a noi: possono giudicare con onestà perché sono meno legati agli interessi di una testata. E non si fanno nessun problema a pubblicizzare un prodotto quando la cosa avviene alla luce del sole».