La pesca di frodo è un grosso problema per i fondali pugliesi

Ricci, datteri e cetrioli di mare sono facili da depredare e smerciare illegalmente ai ristoranti o all'estero, con grossi margini

Una oloturia, o cetriolo di mare (Foto Marevivo)
Una oloturia, o cetriolo di mare (Foto Marevivo)
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I fondali marini pugliesi, sia nel mare Adriatico che nel mar Ionio, sono stati deturpati in alcune zone dai pescatori di frodo di frutti di mare pregiati: molluschi ed echinodermi molto richiesti nella ristorazione come ricci, datteri e oloturie, più conosciute queste ultime come cetrioli di mare. Il problema riguarda anche altre regioni come Sicilia, Campania, Calabria e Sardegna, ma in Puglia negli ultimi anni l’attività dei pescatori di frodo si è intensificata particolarmente.

Il 15 marzo, nell’ultimo sequestro, la Guardia costiera di Taranto ha recuperato ingenti quantitativi di datteri di mare nascosti, immersi in acqua e già insacchettati, pronti per essere consegnati ai compratori. Altri sequestri sono stati fatti di recente nella zona di Bari, dove ad alcuni pescatori di frodo è stata contestato il possesso di 7mila ricci di mare pescati illegalmente. Nel corso della stessa operazione in alcuni ristoranti della città sono stati sequestrati i datteri di mare.

I controlli delle capitanerie di porto ci sono e sono piuttosto costanti ma non riescono a fermare il fenomeno: spesso i pescatori illegali hanno una barca d’appoggio poco distante che avverte se si stanno avvicinando le forze dell’ordine. I pescatori a quel punto abbandonano sul fondo ciò che hanno pescato e l’attrezzatura, scappando. Inoltre, i chilometri di costa da controllare sono moltissimi. È difficile quindi cogliere in flagranza di reato i pescatori di frodo in mare, ed è invece più facile fare i controlli quando arrivano a terra o quando il pescato è già distribuito nei ristoranti. Ma è probabile che ciò che viene sequestrato sia solo una minima parte di quanto viene depredato sui fondali marini.

In Puglia, per quanto riguarda i ricci di mare, la pesca è proibita a maggio e a giugno mentre a partire da luglio è consentita la pesca al massimo di 50 esemplari per i pescatori non professionisti (sempre in apnea e senza strumenti) e di mille per la pesca professionale destinata alla vendita. Ma soprattutto nei periodi estivi, quando la richiesta nelle località turistiche è più alta, queste quote spesso non vengono rispettate.

«In Puglia», spiega Cataldo Pierri, professore associato di zoologia al dipartimento di biologia dell’università di Bari e membro del comitato scientifico della onlus Marevivo, «convivono due specie di ricci: il Paracentrotus lividus e l’Arbacia lixula. Il primo è comunemente chiamato anche riccio femmina, è quello che si mangia e quindi attira le attenzioni dei pescatori di frodo; l’altra specie, più scura, non si può mangiare. Quello a cui abbiamo assistito negli ultimi anni è stata una forte diminuzione della prima specie. Ora la popolazione dei ricci in Puglia è sbilanciata verso l’Arbacia lixula. Inoltre, non si trovano più ricci di grandi dimensioni».

La pesca dei datteri di mare, bivalvi della stessa famiglia delle cozze, rende molto di più di quella dei ricci: nei periodi delle festività anche 200 euro al chilo. La cattura intensiva di questi molluschi (si chiamano Lithophaga lithophaga) causa danni permanenti. Per estrarli dalle cavità delle rocce vengono utilizzati martelli pneumatici, picconi, anche esplosivo. «I datteri di mare si inseriscono nelle fessure delle rocce quando sono ancora in forma di larva, poi crescono, ma impiegano moltissimo tempo», dice ancora Pierri, «Per raggiungere i dieci centimetri ci vogliono anche 80 anni. Quindi i pescatori di frodo per estrarli rompono le rocce devastando e uccidendo tutto ciò che vive intorno».

Il risultato è che ci sono zone del fondale «completamente desertificate», dice Pierri, e la ripresa della fauna marina è rallentata peraltro dai ricci stessi, «che sfruttano gli spazi desertificati come aree di foraggiamento intercettando tutte le nuove forme di vita che si insediano. I ricci svolgono una azione simile a quella delle capre sulla terraferma. Dove pascolano le capre i giovani germogli non hanno possibilità di crescere e riformare una vegetazione».

I datteri di mare costituiscono poi il nutrimento per molte specie ittiche che in loro assenza devono quindi andare a cercare cibo altrove. Dal 1998 una legge proibisce «la cattura, la detenzione a bordo, il trasbordo, lo sbarco, il magazzinaggio, la vendita e l’esposizione o la messa in vendita del dattero di mare». Per chi infrange la legge è prevista la reclusione da due mesi a due anni e una multa dai 2mila ai 12mila euro. Il 10 marzo scorso, una sentenza della Corte di Cassazione ha riconosciuto e sanzionato la pesca del dattero di mare come pratica che attenta e distrugge violentemente l’ecosistema marino, determinando di fatto il depauperamento delle scogliere. Una sentenza di condanna per disastro ambientale è stata emessa nei confronti di un’organizzazione criminale che si occupava della pesca e del commercio illegale.

Le sanzioni però non fermano l’attività clandestina. I datteri vengono chiamati la “cocaina del mare”, non certo per il giro d’affari ma per il ricarico applicato. Oltretutto i rischi, per i pescatori di frodo, sono piuttosto bassi e la richiesta nel mercato nero è sempre alta. Certi ristoranti li propongono ai clienti abituali, e in passato alcuni ristoratori sono stati denunciati per detenzione e somministrazione di specie ittiche protette perché dei clienti avevano postato, sui social network, fotografie di datteri di mare nel piatto. Dice Rosalba Giugni, presidente della onlus Marevivo: «I ladri di mare non sono solo i delinquenti che pescano, ma anche tutta la filiera che favorisce in ogni forma l’alimentarsi di un mercato che ha conseguenze drammatiche per l’ambiente. Il consumo di datteri di mare è diventato uno status symbol pericoloso, perché pur di mangiare il frutto proibito si sta perpetrando una gravissima strage quotidiana».

A parte i datteri, prede ambite dei pescatori di frodo sono soprattutto le oloturie, o cetrioli di mare. Sono echinodermi (come i ricci e le stelle marine), considerati “spazzini” del mare per la loro funzione filtrante. In Sicilia vengono chiamate “minchie di mare” per il loro aspetto fallico, che molti trovano respingente: motivo per cui in Italia vengono mangiati poco. Eppure il mercato nero è fiorentissimo: le oloturie, la cui pesca è proibita, vengono vendute anche a 300 euro al chilo. Vengono pescate nel mare pugliese, ma anche negli altri mari italiani e di tutto il mondo, e poi sono spedite in Asia dove molte persone le considerano prelibatezze gastronomiche. Sono utilizzate anche per cosmetici e in campo medico per le qualità antiossidanti utili al sistema circolatorio. In molti attribuiscono loro anche proprietà afrodisiache.

Hanno una forma cilindrica e la lunghezza varia da pochi centimetri al metro e mezzo, e sorprendenti capacità autorigeneranti, essendo in grado in caso di pericolo di espellere  l’intestino, che poi si riforma, creando confusione nell’aggressore. I cetrioli di mare hanno poi un’altra caratteristica fondamentale: «Vivono nei sedimenti dove la sostanza organica è abbondante e la digeriscono eliminandola, restituendo sabbia ripulita. Hanno la funzione che i lombrichi hanno nel terreno», spiega Pierri.

Anche in alcuni paesi dell’Asia la pesca dei cetrioli di mare è stata proibita. Nel Golfo di Mannar, tra India e Sri Lanka, la popolazione è stata più che dimezzata dalla pesca intensiva. Per questo la pesca si è spostata nei paesi mediterranei, prima in Grecia, poi in Italia. A metà marzo la capitaneria di porto di Brindisi ha fermato un furgone con targa greca al cui interno, mischiati tra frutta e verdura, c’erano 140 secchi di oloturie, quasi 3mila esemplari pescati sui fondali pugliesi. «La pesca di frodo delle oloturie così come la distruzione delle rocce per la cattura dei datteri di mare», dice ancora Pierri, «non può essere sottovalutata perché unita a tanti altri fattori, primi tra tutti i cambiamenti climatici, concorre ai disastri ambientali».

Il problema è che i pescatori di frodo agiscono nelle zone grigie della legislazione. Ora per esempio, dice ancora Pierri, «le nuove prede sono i cavallucci marini. Non esiste una legislazione specifica». La pesca di frodo sta decimando la colonia di cavallucci che si trova nel golfo di Taranto, stimata in addirittura 500mila esemplari cresciuti in uno specchio d’acqua inquinatissimo. A ridurre la popolazione non è stato però l’inquinamento ma la pesca illegale. I pescatori di frodo anche in questo caso riforniscono attraverso la filiera criminale il mercato orientale, dove c’è una forte richiesta per farne medicinali, liquori e cibo.