Cosa significa avere l’afasia

Un disturbo del linguaggio invalidante e molto studiato è da tempo oggetto di approfondimenti e racconti a partire dai casi clinici

afasie
(Dan Kitwood/Getty Images)
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Il recente annuncio del celebre attore statunitense Bruce Willis, che ha fatto sapere che non reciterà più in quanto malato di afasia, ha concentrato molte attenzioni su questo comune disturbo del linguaggio. L’afasia è una condizione patologica invalidante e con un’insorgenza generalmente improvvisa, che limita le possibilità di comunicare verbalmente. A seconda dei casi può condizionare la capacità di produrre o quella di comprendere le parole, o entrambe, sia nella forma scritta che in quella orale. E può essere reversibile, parzialmente reversibile o irreversibile.

Alcune persone che soffrono di afasia possono avere difficoltà a esprimersi ma mantengono la loro capacità di comprendere il linguaggio. Altre riescono a parlare fluentemente ma in modo insensato e, per esempio, non sono in grado di comprendere le parole degli altri né di rispondere a una semplice domanda pur avendo chiara la risposta («Quante dita ha una mano?»). Altre ancora non sono in grado di parlare ma riescono a scrivere o a utilizzare altri canali comunicativi. Tutti i casi di afasia, che possono anche essere molto differenti l’uno dall’altro, tendono comunque ad avere un impatto significativo sulla vita quotidiana, sull’autonomia e sulle relazioni delle persone che ne soffrono.

Le stime epidemiologiche dell’afasia in Italia, mancando dati diretti, sono in genere ricavate a partire dai dati sulle malattie che ne rappresentano la principale causa: quelle vascolari, e l’ictus cerebrale in particolare. Sulla base di quei dati, si calcola che in Italia ci siano circa 200 mila persone che soffrono di afasia, con un’incidenza di circa 20 mila nuovi casi all’anno di afasia successiva a ictus secondo le stime più prudenti. Altre cause possono essere traumi cranici oppure, con manifestazioni più graduali, tumori al cervello, demenze o altre malattie.

Pur trattandosi di un disturbo relativamente diffuso, l’afasia ha spesso sulla vita del paziente implicazioni non sempre note a familiari e persone che si ritrovano a occuparsene, come riferiscono diversi istituti di cura, associazioni e cliniche di logopedia che si occupano della riabilitazione. Capita per esempio che quelle persone ipotizzino erroneamente che a essere intaccata nell’afasico sia la capacità di pensare. Proprio i familiari e le persone più vicine al paziente sono invece ritenute fondamentali per l’obiettivo di tornare – se non a parlare come prima, cosa comunque possibile in alcuni casi – a stabilire relazioni comunicative efficaci.

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L’afasia è una patologia neuropsicologica, quindi non riguarda l’apparato fonatorio né l’organo uditivo: la possibilità di articolare le parole con la voce, in termini strettamente fisici, è una funzione generalmente mantenuta. A venire meno è la capacità di associare le parole ai rispettivi messaggi verbali. Le persone che soffrono di afasia hanno difficoltà a “trovare” una certa parola quando ci pensano, o viceversa non sono in grado di riportare alla mente ciò che una parola significa quando la leggono o ascoltano. La loro condizione, come spiegano logopedisti e altri specialisti, somiglia in un certo senso a quella di un soggetto che si ritrovi improvvisamente in un contesto popolato da persone che parlano una lingua a lui sconosciuta.

Si ritiene che le afasie siano causate da lesioni in particolari aree del cervello, quelle della corteccia cerebrale dell’emisfero sinistro, il più importante per le funzioni del linguaggio. Eseguendo autopsie su molti pazienti affetti da afasie, il medico e anatomista francese Paul Broca scoprì nella seconda metà dell’Ottocento che tutti avevano una qualche lesione ai lobi frontali sul lato sinistro del cervello. «Parliamo con l’emisfero sinistro», disse Broca nel 1865 introducendo l’idea di una specializzazione emisferica all’epoca molto poco popolare.

A partire dagli studi di Broca, che immaginò di aver localizzato un «centro motorio per le parole», quell’area del lobo frontale sinistro è chiamata ancora oggi area di Broca. Le lesioni in quest’area, secondo un’interpretazione patogenica classica, sarebbero responsabili delle cosiddette afasie motorie, quelle in cui manca la capacità di esprimersi a parole ma è presente la capacità di comprenderle. Le afasie che invece intaccano la capacità di comprensione del linguaggio altrui e non necessariamente quella di parlare in modo fluente – anche se per lo più senza un senso logico – sono anche dette afasie sensoriali. E sono maggiormente associate a lesioni nell’area di Wernicke, dal nome dello psichiatra e neurologo tedesco, Carl Wernicke, che nel 1874 scoprì quell’area del cervello.

Sebbene ritenuta fondamentale per gli studi sulla dottrina delle localizzazioni cerebrali, questa interpretazione classica della patogenesi delle afasie è stata ampliata nel corso degli anni assumendo nuove prospettive neuropsicologiche. Grazie anche alla disponibilità di tecniche diagnostiche e di visualizzazione sempre più evolute ed efficienti, prevalgono da tempo approcci che si concentrano sull’organizzazione modulare di funzioni e sistemi del linguaggio – fonologia, lessico, semantica, grammatica – e sulla presenza di molti “nodi” a livello neurale.

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Negli ultimi decenni l’afasia è stata oggetto non soltanto di studi approfonditi, che hanno permesso di comprendere meglio le caratteristiche neurofisiologiche di questa patologia, ma anche di descrizioni dettagliate in testi divulgativi e letterari di successo, scritti a partire dall’osservazione clinica di logopedisti e altri specialisti. Il celebre neurologo e divulgatore inglese Oliver Sacks, che dedicò molti suoi testi allo studio dei disturbi della produzione e comprensione del linguaggio parlato e scritto, si occupò di afasia nel libro del 1985 L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, tra gli altri.

In uno dei capitoli del libro, Sacks raccontò di alcuni pazienti afasici in grado di interpretare il linguaggio verbale in modi distorti ma sorprendenti. Non potendo comprendere le parole dei discorsi degli altri diventavano progressivamente abilissimi a cogliere altri aspetti relativi alla comunicazione non verbale, tra cui i gesti, l’intonazione e le espressioni facciali. Al punto paradossale da riuscire in alcuni casi a cogliere il senso dei discorsi e riconoscere le menzogne più facilmente di quanto non riuscisse a molte persone non afasiche.

L’intonazione è anche uno degli aspetti fondamentali su cui si concentra un approccio terapeutico generalmente rivolto agli afasici che mantengono un buon lessico e una buona comprensione uditiva. È chiamato «terapia di intonazione melodica» e, come raccontato in un lungo articolo sulla rivista di approfondimento culturale Il Tascabile, prevede di «cantare per aggirare l’afasia».

L’emisfero dominante per il linguaggio è in genere quello sinistro, nei soggetti destrimani, ed è lì che si verificano generalmente le lesioni alla base di alcune afasie motorie. L’emisfero opposto è invece responsabile, tra le altre cose, degli aspetti prosodici della parola: tutto ciò che riguarda quindi le caratteristiche foniche, dinamiche e melodiche di una determinata lingua parlata, indipendentemente dall’articolazione delle parole. Proprio quella modulazione di una tonalità, nel caso della terapia del canto, permette di dare un senso diverso alle parole e riuscire a utilizzarle in diversi contesti.

Parlando di un suo paziente che amava molto cantare, la logopedista della Fondazione Santa Lucia di Roma Camilla Buitoni ha raccontato al Tascabile che, sebbene la comprensione uditiva in quel paziente fosse molto compromessa, lei si rese conto che «il canto facilitava la fono-articolazione e gli faceva tirare fuori qualcosa che lo emozionava». In un certo senso, è come se la terapia di intonazione melodica permettesse al paziente di costruire un percorso neurale alternativo passando per l’emisfero destro.

Per descrivere l’importanza di intendere correttamente l’afasia come un deficit linguistico e non comunicativo, Buitoni ha anche raccontato il caso di un suo paziente «aprassico verbale» che aveva comunque trovato il modo di chiedere il cappuccino al bar portandosi le mani in testa, e il cornetto facendo con la mano il gesto delle corna.