Come funziona la giustizia minorile in Italia

Cosa sono gli Istituti penali per minorenni e le comunità, quanti ragazzi e ragazze ospitano, e che problemi hanno

di Laura Carrer

Un murale al Carcere minorile di Nisida a Napoli. (ANSA/FILIPPO ATTILI/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI)
Un murale al Carcere minorile di Nisida a Napoli. (ANSA/FILIPPO ATTILI/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI)

Fin dal 1988 il sistema penale italiano prevede gli Istituti penali per minorenni, strutture carcerarie non troppo diverse da quelle per adulti, che comprendono stanze per due o tre persone e spazi comuni dedicati alle attività di formazione o di svago. In Italia sono 17, di cui uno esclusivamente femminile, e sono riservati a chi ha commesso un reato prima del compimento del 18esimo anno di età.

A giudicare i minori, solitamente per accuse relative a reati contro il patrimonio (furto, rapina), contro la persona (lesioni volontarie) o all’uso di sostanze stupefacenti, sono i Tribunali per i minorenni. Agiscono in modo simile a quelli ordinari per adulti, con la sostanziale differenza che sono organi collegiali: tra i giudici che si occupano del procedimento penale a carico di minorenni non ci sono solo magistrati, ma anche professionisti con una formazione sociopedagogica.

Secondo i dati del dipartimento della Giustizia minorile del ministero della Giustizia relativi all’inizio del 2022, i minori presenti negli Istituti penali per minorenni sono 316: dai tre di Pontremoli in provincia di Massa-Carrara, fino ai 38 di Torino, passando per Milano (31), Bologna (34), Napoli (37) e Catania (24).

L’Istituto penale minorile di Milano “Beccaria” si trova nella periferia ovest di Milano, a Bisceglie, ed è da sempre riconosciuto come uno degli istituti modello italiani. Negli ultimi anni sembra però aver perso questo primato a causa di una lunga ristrutturazione che ha impedito di usare un’intera sezione della struttura. Come riferisce nell’ultimo rapporto “Ragazzi Dentro” l’Associazione Antigone, che si occupa da anni di documentare i problemi della giustizia minorile italiana, le carceri per minori sono strutture in condizioni generalmente migliori rispetto a quelle per adulti. Il Beccaria di Milano, ad esempio, è composto da diverse sezioni nelle quali sono distribuite celle che ospitano da una a tre persone, e che comprendono i servizi igienici. Gli spazi comuni (una mensa, la scuola) sono abbastanza spogli ma funzionali e nel giardino esterno sono presenti un campo da calcio e uno da rugby.

Nel gennaio di quest’anno la popolazione carceraria minorile era senza grosse distinzioni italiana e straniera e rappresentata per la maggior parte da maschi. Nel 2021 le ragazze o giovani donne entrate all’interno degli istituti penali minorili sono state in tutto 64, di cui più della metà straniere. La popolazione carceraria femminile è una minoranza anche tra gli adulti: poco più del 4% di quella totale nel 2021.

I minorenni nella fascia di età tra i 14 e i 17 anni sono solo una parte di chi è detenuto (131 persone al gennaio 2022). Nella recente legge n. 117 del 2014 si è infatti innalzato dai 21 ai 25 anni l’età di permanenza all’interno del circuito penale minorile per quei soggetti che hanno commesso un reato prima dei 18 anni. I ragazzi tra i 18 e i 24 anni ospitati negli Istituti penali per minorenni sono 185.

A differenza di quanto accade agli adulti, i minori incensurati o che non commettono reati gravi (la maggior parte) non vengono condannati e incarcerati. Spesso finiscono negli Istituti penali minorili in custodia cautelare per alcuni mesi, in attesa di un processo. Al dicembre 2021, secondo il rapporto di Associazione Antigone, il 75,8% dei minori che sono entrati nelle strutture carcerarie erano proprio in carcerazione preventiva. Ma il sistema prevede che il carcere sia generalmente solo un momento iniziale del percorso di riabilitazione del minore, per via del ruolo attribuito alle comunità, dove nel corso del 2021 sono entrati 1.544 ragazzi provenienti dagli Istituti minorili, di cui la metà in custodia cautelare.

Spesso invece i minori detenuti finiscono in comunità perché il giudice decide di sospendere il procedimento a loro carico, cercando insieme ai servizi sociali e agli operatori delle comunità di realizzare un progetto educativo di “messa alla prova”. Sempre secondo i dati al 2021, sono stati 325 i ragazzi che sono entrati in comunità nell’ambito di questo provvedimento.

La “messa alla prova” è una misura alternativa alla condizione di costrizione imposta dal carcere, che dovrebbe favorire la riflessione del minore su quanto commesso. Dal punto di vista giuridico prevede lo svolgimento di alcune attività che permettano di osservare il comportamento del minore, verificato periodicamente. Nel caso in cui il percorso di messa alla prova risulti positivo, il reato commesso è definito estinto e non viene riportato nel Casellario giudiziale del minore, quello che spesso è indicato come fedina penale.

Sara Bigatti, coordinatrice pedagogica della Comunità Arizona nel quartiere di Gratosoglio a Milano – che al momento ospita dieci ragazzi di cui tre in custodia cautelare e uno in messa alla prova – spiega che i progetti educativi che gli operatori sottopongono al Tribunale dei minori sono personalizzati. «È un percorso di ricostruzione dell’identità del ragazzo, un lavoro importante sulla disfunzionalità della devianza, che parte dalle motivazioni che hanno portato al comportamento deviante e che rimette al centro i desideri e le prospettive di vita futura del minore», dice.

I motivi per cui i ragazzi finiscono in carcere e poi in comunità, per la maggior parte dopo aver commesso furti o rapine, sono spesso riconducibili alla situazione familiare nella quale sono nati e cresciuti, «per un senso di ribellione che sviluppano a causa di aspettative troppo stringenti da parte dei loro genitori» dice Bigatti.

Se infatti nel primo decennio degli anni Duemila i ragazzi che arrivavano alla comunità Arizona erano perlopiù minori stranieri non accompagnati, «ora la situazione è molto diversa: abbiamo italiani e stranieri di seconda generazione, che fondamentalmente vivono le stesse problematiche. Chi è figlio di immigrati sente addosso la pressione di rigare dritto perché i suoi genitori hanno fatto tanta fatica per integrarsi, chi è italiano vive male le aspettative tipiche di molti genitori con figli adolescenti» spiega Bigatti. Secondo lei, però, le motivazioni che portano i minori a commettere un reato si possono collegare anche alla necessità di «corrispondere agli standard che la società impone e ai quali la famiglia non può far fronte per vari motivi».

Le famiglie, se lo desiderano, hanno un ruolo anche nel percorso dei ragazzi nelle comunità, che «comprende percorsi scolastici, di tirocinio lavorativo, un supporto psicologico nonché un lavoro ad hoc, se necessario, in merito alle sostanze stupefacenti». Le famiglie possono incontrare i ragazzi dopo un certo periodo dall’ingresso in comunità, prima nel giorno di Natale o Pasqua, oppure per festeggiare compleanni e fare passeggiate al parco. A volte però le famiglie non sono così collaborative e «può capitare che non vengano a prendere i loro figli. Possono esserci motivazioni economiche che non permettono loro di viaggiare fino alla comunità, come le spese per il casello autostradale o la benzina, mentre con altre famiglie è ancora necessario instaurare una relazione costruttiva, che non si basi sulla colpevolizzazione del ragazzo per ciò che ha commesso» dice Bigatti.

Quella delle visite e del contatto con il mondo esterno e la famiglia è una situazione che durante le prime ondate di pandemia è peggiorata sensibilmente. Come riportato da Associazione Antigone poche sono state le strutture che hanno garantito il diritto a visite in presenza sufficientemente prolungate, e la maggioranza ha attivato alcune misure per poi abbandonarle poco dopo per mancanza di spazi idonei.

Nella comunità educativa Arizona si svolgono molte attività che cercano di preparare il minore che dovrà di lì a poco tornare nella società, sia di formazione sia di svago, dalla coltivazione dell’orto alla ciclofficina, dal laboratorio di cucina a quello di hip hop.

I progetti di messa alla prova sono sin da subito condivisi dai tribunali e quindi la probabilità che non vadano a buon fine è molto bassa. Ma non è comunque semplice: «la maggior parte dei ragazzi rispetta le prescrizioni del Tribunale e prende una direzione diversa mentre altri, seppur capaci di assolvere alle richieste del giudice, fanno più fatica a modificare con la dovuta consapevolezza alcuni comportamenti che hanno portato alla devianza. Per questo il lavoro è molto, ma nella nostra esperienza è spesso positivo» dice Bigatti.

La possibilità di garantire ai minori una vera alternativa alla detenzione si scontra però con un’annosa questione relativa alla giustizia penale italiana, il cosiddetto codice Rocco, il corpus di norme stilato nel 1930 dal governo Mussolini e ancora tra le fonti principali del diritto penale in Italia. Mentre da una parte si cerca di affermare il ruolo pedagogico ed educativo del carcere nel cambio delle sorti di un minore, l’impostazione del codice Rocco è più repressiva e retrograda: Antigone auspica per questo una riflessione su un nuovo codice penale per i minori, che contenga reati più specifici e sia basato su sanzioni riparative. Secondo Antigone potrebbe essere un modo di promuovere una cultura differente sul tema della giustizia minorile, che prediliga l’educazione alla punizione.