L’ivermectina non protegge dalla COVID-19

I risultati di uno dei più grandi studi finora condotti sul farmaco, tra i favoriti nelle "cure alternative", non ha rilevato una riduzione nei rischi di ricovero

(AP Photo/Ted S. Warren, File)
(AP Photo/Ted S. Warren, File)

I risultati di uno studio su larga scala svolto l’estate scorsa hanno confermato che l’ivermectina non funziona come terapia alternativa contro la COVID-19. Il farmaco, solitamente impiegato per eliminare parassiti negli esseri umani e nei cavalli, aveva ricevuto grandi attenzioni negli ultimi due anni di pandemia specialmente negli Stati Uniti, dove migliaia di persone si erano messe a utilizzarlo e a consigliarlo, nonostante non ci fossero sufficienti prove scientifiche sulla sua utilità. Molti avevano inoltre scelto di utilizzare le versioni di ivermectina destinate all’ambito veterinario, più facili da reperire e di solito più economiche, ma con dosaggi e composti diversi da quelli per gli esseri umani.

La ricerca era stata terminata alla fine della scorsa estate e ne erano stati anticipati alcuni risultati, ma solo negli ultimi giorni lo studio è stato pubblicato nella sua versione integrale sulla rivista medica The New England Journal of Medicine (NEJM).

L’analisi, svolta in Brasile, aveva interessato 1.300 persone con un’infezione da coronavirus nell’ambito dell’iniziativa TOGETHER, per studiare gli effetti di un’ampia varietà di farmaci già esistenti e valutarne l’eventuale efficacia nel trattare la COVID-19. Nei vari test, i volontari erano stati divisi in gruppi, sottoposti all’assunzione dei farmaci veri e propri o di una sostanza che non fa nulla (placebo). La sperimentazione era stata svolta in “doppio cieco”, quindi né i pazienti né i medici sapevano chi fosse sottoposto a un trattamento o all’altro.

Tra marzo e agosto 2021, un gruppo di ricerca aveva somministrato l’ivermectina a 679 persone positive al coronavirus, con una terapia della durata di tre giorni. Confrontando i risultati con il gruppo del placebo era diventato evidente che l’ivermectina non riduceva i sintomi della COVID-19, e che di conseguenza non riduceva i rischi di ricovero a causa della malattia (cosa che invece fanno con alta efficacia i vaccini contro il coronavirus più diffusi, come quelli impiegati in Italia).

Il gruppo di ricerca aveva inoltre suddiviso i volontari in diversi sottogruppi, per valutare se ci fossero alcune circostanze in cui l’ivermectina risultasse utile, per esempio nel caso di una sua assunzione nelle primissime fasi dell’infezione virale. Lo studio non ha però rilevato differenze rilevanti, notando semmai un peggioramento in alcuni volontari rispetto a quelli che avevano ricevuto il placebo.

I risultati completi pubblicati su NEJM confermano quanto era stato segnalato da altre ricerche e analisi, senza contare varie istituzioni sanitarie in giro per il mondo che avevano invitato a grandi cautele sull’uso dell’ivermectina.

All’inizio della pandemia il farmaco era stato preso in considerazione insieme a migliaia di altri già sviluppati e autorizzati per trattare diverse malattie. All’epoca c’era l’urgenza di trovare terapie che potessero ridurre i sintomi della COVID-19, in un momento in cui la malattia era ancora poco conosciuta e non esistevano farmaci specifici per le terapie.

Alcuni test di laboratorio avevano indicato l’ivermectina come una potenziale soluzione, perché sembrava riuscisse a bloccare la replicazione del coronavirus. Quei test erano però stati svolti su campioni di cellule, impiegando dosaggi molto alti di ivermectina, ben oltre i livelli di sicurezza per l’impiego del medicinale negli esseri umani. Alcuni medici, specialmente negli Stati Uniti, ma non solo, iniziarono comunque a prescrivere l’ivermectina ai loro pazienti positivi al coronavirus, nonostante ci fossero indicazioni da parte delle autorità sanitarie sulla necessità di maggiori approfondimenti e ricerche.

Alla fine del 2020, un’analisi di una ventina di test clinici condotti in giro per il mondo sull’ivermectina segnalò una potenziale capacità del farmaco di ridurre i rischi di sviluppare forme gravi di COVID-19. Gli autori dello studio avevano comunque invitato ad attendere risultati su ricerche con un maggior numero di partecipanti, prima di trarre qualche conclusione.

L’annuncio dell’esito di quella prima analisi favorì comunque un maggior impiego dell’ivermectina, al punto che negli Stati Uniti i rimborsi da parte delle assicurazioni per l’impiego del farmaco arrivarono a 2,4 milioni di dollari in una sola settimana di agosto.

In seguito si scoprì che diverse ricerche comprese nell’analisi non erano state svolte con la necessaria accuratezza, mettendo quindi in dubbio le considerazioni finali dello studio, che fu poi ritirato dagli autori per avviarne uno nuovo sulla base di dati più solidi.

Nel frattempo l’ivermectina era ormai diventato uno dei farmaci più impiegati per le terapie alternative contro la COVID-19, nonostante non ci fossero elementi per ritenerlo sicuro ed efficace nel tenere sotto controllo i sintomi della malattia.

A un certo punto, il livello di esasperazione della Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci, era diventato tale da spingere i suoi responsabili a pubblicare un tweet piuttosto diretto: «Non sei un cavallo. Non sei una mucca. Davvero, piantatela». Nonostante i ripetuti avvisi e inviti, la domanda e l’interesse per il farmaco continuarono a essere alti, soprattutto tra i sostenitori dei conservatori e la destra complottista statunitense, segmenti demografici in cui è più diffuso lo scetticismo verso la pandemia, i vaccini e in generale la scienza.

Nonostante la mancanza di evidenze scientifiche solide, il nome del farmaco aveva iniziato a circolare non solo in alcuni gruppi sui social network, ma anche tra organizzazioni di medici che si erano già distinte all’inizio della pandemia per avere sostenuto l’impiego di terapie che si erano poi rilevate inutili, se non pericolose, come quelle a base di un anti malarico, l’idrossiclorochina. Tra questi il più prominente era America’s Frontline Doctors, che nel 2020 si era fatto notare in seguito a una criticata conferenza stampa organizzata a Washington, poi ripresa dagli account social dell’allora presidente Donald J. Trump, nella quale l’idrossiclorochina era stata definita una “cura”.

Gli autori dell’analisi poi ritirata hanno di recente pubblicato i risultati del loro nuovo studio, che comprende i dati provenienti da TOGETHER. I volontari presi in considerazione tra le varie ricerche sono circa 5mila e in questo caso i risultati sono piuttosto evidenti: l’ivermectina non si è mostrata utile nel contrastare gli effetti della COVID-19.

Nonostante la quantità di ricerche ormai pubblicate sul tema, negli Stati Uniti e in altri paesi sono ancora in corso test sull’ivermectina. Alla luce delle nuove evidenze scientifiche la loro utilità è stata messa fortemente in dubbio, anche in considerazione della crescente disponibilità di nuovi farmaci specifici che si sono rivelati utili nel contrastare i rischi di sintomi gravi da COVID-19 nelle persone più a rischio, e senza contare i vaccini che si sono rivelati efficaci e sicuri nel prevenire le forme gravi della malattia salvando milioni di vite.