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  • Mercoledì 30 marzo 2022

Le visite alle persone ospitate nelle RSA non sono mai tornate alla normalità

Dall'inizio della pandemia hanno continuato a essere limitate, soprattutto per la discrezionalità lasciata alle singole strutture

di Giulia Siviero

La "stanza degli abbracci" di una RSA di Castelfranco Veneto, 13 novembre 2020 (ANSA/MAX CAVALLARI)
La "stanza degli abbracci" di una RSA di Castelfranco Veneto, 13 novembre 2020 (ANSA/MAX CAVALLARI)
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Oggi a Roma davanti al ministero della Salute, ma anche davanti alle prefetture di Torino, Milano, Firenze e di altre città ci sarà una manifestazione di protesta per chiedere che dopo due anni di gestione straordinaria dovuta alla pandemia da coronavirus le modalità di visita alle persone ospitate nelle case di riposo tornino ad essere libere e non contingentate. «Ad oggi, la situazione è ancora questa: ogni RSA agisce come le pare e vedere i propri cari resta ancora molto difficile», riassume il figlio di una donna ospitata in una residenza sanitaria assistenziale (RSA) di Bologna.

Nonostante la più recente legge del governo preveda una maggiore libertà degli incontri tra anziani residenti e familiari, non è stata esplicitamente eliminata la discrezionalità delle direzioni sanitarie di stabilire regole più restrittive. Il risultato è che non sempre la norma nazionale viene applicata, che la situazione è molto disomogenea da regione a regione e da struttura a struttura, e che le interazioni con i familiari rimangono, di fatto, molto difficoltose.

Secondo i comitati e le associazioni che si sono mobilitate negli ultimi mesi, regole così restrittive non troverebbero più una ragione di sicurezza e tutela della salute, dato il miglioramento della situazione esterna, e avrebbero come conseguenze dirette l’isolamento e la privazione di una socialità che è invece fondamentale per il benessere psico-fisico di chi abita in questi luoghi e di chi affida a questi luoghi i propri cari.

Le RSA sono strutture che ospitano persone non autosufficienti, che non possono essere assistite in casa e che hanno bisogno di specifiche cure mediche e di un’articolata assistenza sanitaria. Secondo i dati più recenti del GNPL National Register, la banca dati realizzata dal Garante nazionale per la geolocalizzazione delle strutture sociosanitarie assistenziali sul territorio italiano, nel 2020 le RSA in Italia erano poco meno di 4.700.

Dal punto di vista della gestione, le RSA possono essere pubbliche, non profit o private for profit. Le strutture non profit o private for profit sono spesso convenzionate con il pubblico e sono la maggior parte.

«Prima del 2020» racconta Dario Francolino, che ha una madre malata di Alzheimer all’interno di una casa di riposo a Nova Milanese, «le RSA erano un luogo in cui potevamo entrare in qualunque momento della giornata, più o meno, e senza preavviso. Potevamo stare tutto il tempo che volevamo ed entrare nella stanza della persona residente occupandoci direttamente della gestione delle “piccole” cose». All’inizio della pandemia, le RSA di tutta Italia sono state però sostanzialmente blindate tranne che per il personale, e questa misura drastica giustificata dall’alto livello di contagi e mortalità ha stravolto non solo il loro funzionamento, ma anche la vita delle persone residenti e dei loro familiari. «Da marzo 2020 ho potuto vedere mia mamma malata di Alzheimer dopo quindici mesi», racconta R.N., di Varese.

Nella seconda fase della pandemia, in un numero limitato di casi e in modo disomogeneo sono state create modalità di contatto e di relazione alternative, prevalentemente visive e filtrate da strutture che prevenissero la diffusione del contagio. Alcune RSA hanno messo a disposizione dei residenti dei tablet per le videochiamate o hanno creato le cosiddette “camere degli abbracci”, dei pannelli di plexiglass, di vetro o altro materiale attraversati da due aperture dove poter inserire le braccia e avere un contatto fisico.

La stanza degli abbracci in una casa di riposo di Campobasso (ANSA)

«Ma questo era un lusso. Alcune RSA hanno creato queste strutture, molte altre invece no». Dario Francolino, nell’aprile del 2021, ha fondato insieme ad altri familiari il comitato Orsan OPEN RSA NOW, proprio nel momento, ci spiega, in cui il tema delle RSA era uscito dal dibattito pubblico: «Nessuno di noi si è attivato in piena pandemia, comprendendo l’emergenza, ma solo più tardi quando la campagna vaccinale era già stata avviata e i contagi cominciavano a calare. E quando, nonostante questo, nessuno parlava di ripristinare una situazione di normalità all’interno delle case di riposo».

In questi ultimi due anni, il governo è intervenuto più volte per cercare di garantire una riapertura parziale delle strutture alle visite.

Nell’ordinanza del maggio 2021, ad esempio, si parlava dei bisogni «psicologici, affettivi, educativi e formativi» delle persone che vivono delle RSA affinché «il protrarsi del confinamento non debba mai configurare una privazione de facto della libertà delle persone». In quell’ordinanza si prevedevano visite quotidiane di 45 minuti, ma si lasciava alla direzione sanitaria di ciascuna residenza la facoltà di adottare regole differenti, che spesso erano più restrittive rispetto a quanto concesso a livello nazionale. Con un emendamento inserito in un decreto legge successivo, sono stati eliminati i limiti di tempo delle visite ed è stata introdotta un’ulteriore importante modifica: invece che di «possibilità di visita», si è iniziato a parlare di «continuità di visita».

«Sembra banale, ma cambia tutto perché questa singola parola comporta che in qualunque contesto nessuno possa più negare un incontro con il proprio familiare», dice Francolino. Almeno sulla carta.

La promotrice dell’emendamento, Lisa Noja, deputata di Italia Viva, ha spiegato che il concetto di “continuità” stabilisce con chiarezza che il diritto di visita deve essere garantito e che, di conseguenza, «risulta interdetta la persistente chiusura da parte delle direzioni sanitarie». Ma il margine di discrezionalità delle direzioni sanitarie di stabilire modalità di visita più rigide non è completamente decaduto: «Ancora oggi, nonostante il quadro normativo ci sia, emerge come, non di rado, le visite siano negate. Oppure, laddove concesse, siano consentite soltanto una volta a settimana e per breve tempo, a discrezione della direzione», spiega Noja.

Il 24 marzo, Noja ha presentato un’interrogazione parlamentare chiedendo di «predisporre delle misure per assicurare che i direttori sanitari di RSA e strutture analoghe ottemperino agli obblighi di legge e che le regioni, cioè gli enti che accreditano tali strutture, facciano i controlli che dovrebbero».

Francolino conferma che le leggi approvate fino ad ora, poi recepite con specifiche direttive operative o decreti dalle regioni, sono state «applicate a macchia di leopardo dalle aziende sanitarie locali, e poi a “macchia di coccinella” dalle singole RSA con discrepanze micidiali anche tra strutture distanti un chilometro l’una dall’altra e ubicate nello stesso comune. Man mano che si scendeva verso l’applicazione sul territorio, cioè, le leggi approvate dal parlamento sono diventate sempre più lasche, e le valutazioni sulla loro applicabilità totalmente soggettive. Questo anche perché non prevedevano sanzioni per il mancato rispetto e perché nessuno ne controllava l’applicazione reale».

«È ancora una giungla», ci spiega M.L. che ha la madre in una struttura di Torino. Ci sono RSA in cui sono permesse visite di soli venti minuti, altre che continuano a prevedere un rigido distanziamento e a non consentire alcun tipo di contatto fisico tra ospite e visitatore, e altre ancora dove gli incontri funzionano solo su prenotazione, poche volte la settimana e in fasce orarie molto difficoltose per chi lavora.

«Nella RSA dove si trova mia madre» racconta M.L. «ci fanno entrare all’interno della struttura salvo la presenza di qualche persona contagiata, anche se asintomatica o con sintomi molto lievi. In quel caso chiudono tutto e le persone ricoverate restano confinate in camera. In condizioni di normalità, invece, ci fanno entrare due volte alla settimana per mezz’ora o al massimo tre quarti d’ora con la possibilità di restare in un ambiente comune. Non è possibile portare fuori queste persone dalle strutture e non è nemmeno possibile entrare nelle loro camere, per gestire i piccoli problemi quotidiani che per le persone residenti non sono piccoli affatto, che vanno dal riordino dell’armadio all’impostazione della tv».

M.L. dice anche che nella RSA vicina a quella della madre dove è invece ospitata la suocera le modalità sono molto diverse: «Ma non può esserci una discriminazione dei residenti in base a quello che decide il direttore sanitario».

M.C. è di Bologna. Spiega la non omogeneità delle norme dicendo che sul mercato ci sono case di cura di diverso tipo e che tra quelle convenzionate alcune sono molto grandi e possono ospitare anche 200 persone, mentre altre sono più piccole: «È dunque comprensibile che ognuna abbia le proprie caratteristiche e le proprie esigenze. Le norme nazionali e poi le regioni devono tenere conto di questa realtà differenziata, quindi lasciano un margine di discrezionalità». Secondo M.C., questa discrezionalità diventa spesso un alibi e favorisce un’ottica imprenditoriale che considera gli anziani come «merce, più che come fruitori di un servizio. Tra le prime conseguenze di questa gestione, ci sono l’esclusione e l’emarginazione dei familiari».

Francolino aggiunge a sua volta che le RSA rappresentano una sorta di «zona franca»: «In Italia hanno un fatturato annuo pari a circa 12 miliardi di euro: 8 o 9 di questi miliardi provengono dalle rette delle famiglie e degli ospiti: è come se fossimo e fossero degli azionisti di maggioranza che, in questo specifico caso, non vengono però ascoltati».

Claudia Sorrentino, la cui madre è residente in una RSA del centro Italia, dice che il prolungato isolamento ha già portato «alla morte dei nostri parenti per depressione e sindrome dell’abbandono, oltre che a gravi traumi psicologici per tutti noi. Impedire ad un anziano o a una persona disabile di abbracciare i propri cari è mostruoso». Sorrentino aggiunge anche un’altra cosa, spesso sottovalutata: «Da due anni non possiamo vedere le camere dove i nostri parenti dormono e vivono, e questo è molto pericoloso perché eravamo di fatto gli unici e le uniche a poter controllare lo stato dei reparti. Ora nessuno sa più se dentro a queste strutture venga rispettata la dignità delle persone accolte».

Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha detto che i direttori sanitari «preferiscono tutelarsi con norme di massima cautela, che rendono più facile gestire le residenze». Il principio di cautela viene citato anche da Fabrizio Lazzarini, direttore della più grande casa di riposo di Bergamo: «Tutti coloro che dirigono strutture per anziani sono convinti e sanno che, prima di tutto, vanno garantite e ripristinate le relazioni tra ospiti e famiglie. Nessuno di noi pensa che sia giusto tenere gli anziani chiusi e lontani dai familiari: sarebbe contrario ai principi stessi dell’assistenza agli anziani. E tutti sappiamo che i mezzi alternativi di relazione che ci hanno incitato a utilizzare negli ultimi mesi, come le videochiamate, sono un surrogato di relazione».

Lazzarini sottolinea più volte questo passaggio, spiegando però come sia necessario trovare un equilibrio tra il principio del diritto alla socialità e all’affettività e il rispetto delle norme igienico-sanitarie «che sono spesso così pregnanti che rischiano di annullare il principio stesso».

Le disposizioni di legge, dice, «hanno affermato il principio, ma l’hanno poi negato con gli strumenti che hanno messo a disposizione. Se infatti devo limitare la diffusione del virus devo necessariamente mettere in piedi un sistema di filtri e di controlli piuttosto rigido che va però automaticamente contro il fatto di poter riaprire le strutture alle libere visite. Se invece voglio affermare e difendere il principio, tale rigidità deve venire meno con il rischio però di essere accusato, in quanto gestore, di essere il responsabile dei nuovi contagi proprio perché le regole che difendono il principio non le ho fatte rispettare. Riassumendo: non potete non aprire, ma se succede qualcosa sono affari vostri».

Qualcuno si è assunto tale rischio, ma molti altri non lo hanno fatto: «È la disposizione normativa nazionale a dover trovare una giusta misura. E la legge dovrebbe ridurre tutte le disposizioni parificandole, più o meno, alle regole valide per il resto della società civile, nella consapevolezza che un rischio zero non esiste. Ma lo deve dire chiaramente, lo deve scrivere», conclude.

Da qualche mese, Claudia Sorrentino ha dato vita al CONPAL (Coordinamento Nazionale Parenti Associazioni Lavoratrici/ori) di cui fanno parte una trentina di comitati di familiari, una decina di associazioni per persone disabili, operatori della sanità e dell’assistenza e rappresentanze sindacali, con provenienza da tutto il territorio nazionale. Il CONPAL è il promotore della protesta di oggi e due giorni fa ha incontrato il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma.

Nell’incontro, dice Sorrentino, sono stati affrontati diverse questioni emerse nell’ultimo anno, ma anche problemi strutturali che verranno segnalati durante la protesta. La richiesta è di togliere la discrezionalità ai dirigenti delle strutture, di garantire le visite tutti i giorni senza prenotazione, con gli accessi alle stanze, e «di rivedere e rendere migliori i criteri di accreditamento di queste strutture che, purtroppo, giocano sempre al ribasso». Sulla questione delle RSA si sta muovendo anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che ha inserito l’Italia tra i paesi da monitorare nel 2022.

Post Scriptum: molti familiari hanno preferito non esporsi pubblicamente con nome e cognome per evitare il rischio di possibili conseguenze sulle persone ospitate nelle RSA.