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  • Mercoledì 23 marzo 2022

Le novità sul delitto di Via Poma

A 32 anni dall'omicidio di Simonetta Cesaroni sono state riaperte le indagini, e secondo la pm c'è un sospettato che ha sempre mentito

La palazzina di Via Poma 2 a Roma dove avvenne il delitto
(ANSA/CLAUDIO PERI)
La palazzina di Via Poma 2 a Roma dove avvenne il delitto (ANSA/CLAUDIO PERI)

Ci sono novità sull’omicidio di Simonetta Cesaroni, avvenuto a Roma il 7 agosto 1990 e rimasto per 32 anni senza soluzione. Si tratta di un caso irrisolto tra i più celebri della cronaca italiana, e negli anni ci sono stati molti sospettati e sono state seguite piste diverse. Ora, secondo quello che ha scritto il Foglio, si è di fatto tornati al punto di partenza: la pm Ilaria Calò, che già indagò anni fa e sostenne l’accusa contro il fidanzato della ragazza, Raniero Busco, ha riaperto le indagini interrogando vari testimoni, tra cui funzionari di polizia che indagarono all’epoca. Altre persone saranno sentite nei prossimi giorni.

Secondo il Foglio gli investigatori si stanno concentrando su una persona che era già comparsa nell’indagine nei giorni successivi alla scoperta dell’omicidio e che fu sottoposta a diversi interrogatori. Secondo i recenti accertamenti della pm, il sospettato avrebbe sempre mentito sia sui suoi spostamenti sia sul fatto di aver conosciuto la vittima. Sarebbe stato aiutato, all’epoca, dalle bugie del portiere dello stabile di via Poma, Pietrino Vanacore, che fu arrestato dopo il delitto e poi rilasciato e che si suicidò l’8 marzo del 2010 pochi giorni prima di deporre in Corte d’assise. A maggio inizieranno anche i lavori di una commissione parlamentare che si occuperà proprio di quel delitto.

Quando morì, Simonetta Cesaroni aveva 20 anni e viveva a Roma, nel quartiere Don Bosco, nella periferia sud est. Dal gennaio del 1990 lavorava nello studio commerciale Reli, che aveva come clienti anche la Aiag (Associazione italiana alberghi della gioventù). Il pomeriggio del 7 agosto, un martedì, era andata proprio negli uffici della Aiag per sbrigare alcune pratiche. Era l’ultimo giorno di lavoro prima delle vacanze, per le quali doveva partire senza il suo fidanzato, Raniero Busco. La Aiag era in via Poma al numero 2, nel quartiere Prati, al terzo piano della scala B, appartamento 7. È un complesso degli anni Trenta disegnato dall’architetto Cesare Valle, che abitava allora in una delle sei palazzine dello stabile. C’erano tre portieri che si alternavano in vari turni. Le palazzine sono disposte intorno a un vasto cortile, con fiori, piante esotiche e una grande vasca con i pesci.

Simonetta Cesaroni (©Emilio Orlando/Lapresse)

Quel pomeriggio, alle 18.30, Cesaroni avrebbe dovuto telefonare al titolare della Reli, Salvatore Volponi, per comunicargli a che punto era il lavoro. Quella telefonata non arrivò. Sicuramente però alle 17.35 la ragazza era ancora viva perché aveva ricevuto la chiamata di una collega, Luigia Berrettini. Alle 21.30 Paola Cesaroni, preoccupata come il resto della famiglia perché la sorella non era ancora tornata a casa, provò a telefonare al datore di lavoro di Simonetta, senza avere risposta. Dopo aver cercato nelle stazioni della metropolitana e nei dintorni Paola, accompagnata dal fidanzato, andò a casa di Volponi, che chiamò il suo socio e chiese l’indirizzo della Aiag.

Paola Cesaroni, il fidanzato della sorella e Volponi, con il figlio, andarono in via Poma, si fecero dare le chiavi dalla moglie del portinaio e salirono al terzo piano della palazzina, dove si trovava l’Aiag. La porta era chiusa a chiave e c’era la luce accesa. In una delle stanze c’era il corpo di Simonetta Cesaroni, pugnalata 29 volte. L’assassino aveva portato via i suoi pantaloni fuseaux, gli slip, la giacca, gli orecchini d’oro, un anello, un bracciale e un girocollo sempre d’oro mentre le aveva lasciato al polso l’orologio. Anche la borsetta era stata lasciata, ma qualcuno aveva rovistato all’interno per prelevare le chiavi dell’ufficio. Il reggiseno era abbassato, sul ventre era appoggiato il corsetto, Simonetta indossava ancora i calzini bianchi, le scarpe erano riposte da un lato, ordinatamente. Nell’ufficio tutto sembrava in ordine, il computer era acceso.

L’assassino aveva colpito la ragazza al viso, in entrambi gli occhi, poi sul seno, sul ventre, sul pube. Sul seno c’era anche il segno di un morso.

Il corpo di Simonetta Cesaroni portato via da Via Poma (©Emilio Orlando/Lapresse)

Le indagini stabilirono che il delitto era stato compiuto tra le 17.35, ora in cui la ragazza aveva ricevuto la telefonata, e le 18.30, quando invece non telefonò a Volponi come concordato. Secondo la ricostruzione dei tecnici scientifici, Cesaroni era fuggita dalla stanza dove lavorava quel giorno a una adiacente. Qui era stata colpita e gettata a terra, e poi l’assassino le era salito sopra immobilizzandola con le ginocchia (vennero trovati ematomi sui fianchi). Quindi le aveva provocato un trauma cranico sbattendole la testa sul pavimento, prima di pugnalarla. Si ipotizzò che l’arma fosse un tagliacarte, ma non fu mai ritrovata. Sulla scena del delitto non c’erano vistose tracce a parte due strisce di sangue, entrambe appartenenti al gruppo A, una accanto alla porta e una sulla maniglia.

Gli investigatori sospettarono subito del portiere della scala B del palazzo, Pietrino Vanacore. Aveva detto di essere stato con i colleghi a chiacchierare in cortile tra le 17.30 e le 18.30 ma per la polizia fu facile appurare che aveva mentito. L’architetto Cesare Valle, a cui Vanacore prestava assistenza per la notte, disse poi che quella sera il portiere era arrivato a casa sua in ritardo di un’ora, alle 23. Inoltre, quel giorno non era stato visto nessun estraneo entrare nella palazzina. A casa c’erano solo l’architetto Valle e Vanacore, che con la moglie abitava nello stabile.

L’ipotesi degli investigatori era che Vanacore avesse tentato di violentare Cesaroni e l’avesse poi uccisa. Il portiere venne arrestato tre giorni dopo il delitto, il 10 agosto. Trascorse in carcere 26 giorni, quindi fu rilasciato. Una macchia di sangue sospetta trovata sui suoi pantaloni risultò essere in realtà sua, e il suo DNA non combaciava con le tracce di sangue trovate vicino alla porta e sulla maniglia.

Pietrino Vanacore (©Emilio Orlando/Lapresse)

Nel 1991 le accuse contro di lui vennero archiviate. Il suo nome rientrò tuttavia nelle indagini nel corso dell’inchiesta su un altro indagato, il fidanzato di Cesaroni Raniero Busco, questa volta per favoreggiamento. Vanacore si suicidò il 9 marzo 2010 gettandosi in mare vicino a Torricella, in provincia di Taranto, dove viveva. Il giorno dopo avrebbe dovuto deporre al processo contro Busco. Lasciò un biglietto in cui era scritto: «20 anni di sofferenze e sospetti ti portano al suicidio». Qualcuno addirittura giudicò sospetto il suicidio, visto che il corpo di Vanacore era stato trovato in un punto in cui l’acqua era molto bassa e con una corda legata al piede. Le indagini confermarono però la tesi del suicidio.

Un anno dopo l’omicidio a essere indagato fu Federico Valle, nipote dell’architetto che aveva disegnato il condominio di via Poma 2. Un uomo, Roland Voller, andò alla polizia per raccontare di aver ricevuto alcune confidenze dalla madre del ragazzo, Giuliana Ferrara, che avrebbe visto rientrare il figlio la sera del 7 agosto con i vestiti sporchi di sangue. Sempre secondo Voller, Federico Valle aveva scoperto che il padre tradiva la madre con una giovane dipendente degli alberghi della gioventù.

Le dichiarazioni di Voller vennero smentite nel corso delle indagini. Le tracce di sangue rivenute nell’appartamento del delitto erano incompatibili con il DNA di Federico Valle, che si scoprì in seguito il 7 agosto non era andato a trovare il nonno. Infine, Raniero Valle, il padre di Federico, aveva sì una relazione con un’altra donna ma il rapporto era nato ben dopo la separazione dalla moglie, e comunque la donna non aveva nulla a che fare con gli alberghi della gioventù. La posizione di Federico Valle venne archiviata.

Quattordici anni dopo l’omicidio furono sottoposti ad analisi scientifica alcuni effetti personali di Simonetta Cesaroni, tra cui il reggiseno e il corsetto che indossava quando fu uccisa. Non erano mai stati analizzati prima, ed erano rimasti in un armadio dell’Istituto di medicina legale. Il DNA trovato su corpetto e reggiseno era di sesso maschile, si trattava probabilmente di saliva. Fu prelevato quindi il DNA a 30 persone coinvolte a vario titolo nell’indagine. Dopo la comparazione dei profili genetici, 29 individui vennero scartati, ne rimase solo uno: Raniero Busco, allora fidanzato di Cesaroni. Nel settembre del 2007 l’uomo fu indagato.

Busco, meccanico all’Alitalia, aveva conosciuto Cesaroni nel 1988. Secondo le amiche della ragazza, il rapporto tra i due non era facile, e spesso litigavano. Vennero acquisiti anche delle lettere e un diario in cui Simonetta parlava del difficile rapporto con il fidanzato.

Raniero Busco (Foto LaPresse)

Paola Cesaroni testimoniò che la sorella, quel giorno, aveva indossato vestiti puliti, cosa che suggeriva che le tracce di DNA fossero state lasciate il giorno del delitto. Ma a convincere della colpevolezza di Busco la pm Ilaria Calò, che chiese e ottenne il rinvio a giudizio, fu l’analisi del morso trovato sul seno della ragazza, che secondo il medico legale che aveva effettuato l’autopsia era «stato inferto contestualmente all’omicidio», e secondo i periti nominati dalla procura le sue caratteristiche «sono così particolari da renderlo pressoché unico e riconducibile alla dentatura di Busco».

Il 26 gennaio 2011 Raniero Busco venne condannato a 26 anni di carcere in primo grado, ritenuto colpevole di omicidio aggravato «da sevizie e crudeltà verso la vittima». Nel 2012 la sentenza di primo grado venne ribaltata: Busco fu assolto dalla Corte d’appello per non avere commesso il fatto, e nel 2014 la Corte di cassazione confermò l’assoluzione. Nelle motivazioni i giudici scrissero, a proposito del morso sul seno attribuito a Busco: «si dimostra la insostenibilità della sua attribuzione a Busco e dell’origine salivare del DNA presente sui capi di vestiario repertati».

Gli esami del Ris, infatti, non avevano confermato la corrispondenza della ferita sul seno di Cesaroni con la dentatura dell’imputato. Inoltre, secondo la Corte di Cassazione, «l’incertezza non può essere colmata in modo diverso: la corte territoriale dimostra, infatti, che la ricostruzione adottata nella sentenza di primo grado è suggestiva, ma ampiamente congetturale in ordine a vari aspetti, come l’effettuazione della telefonata da Simonetta Cesaroni a Busco all’ora di pranzo di quel giorno, il contenuto di tale telefonata, la conoscenza da parte di Busco del luogo dove la Cesaroni lavorava, la spontaneità della svestizione da parte della vittima, l’autore dell’opera di ripulitura della stanza, le modalità e i tempi di tale condotta, movente dell’omicidio, la falsità dell’alibi da parte dell’imputato».

Ci sono state, negli anni, anche altre piste. Alcune fonti giornalistiche, mai confermate, sostennero che in realtà l’Aiag era una società di copertura dei servizi segreti e che lo stesso Roland Voller, che aveva accusato Federico Valle, era un collaboratore dei servizi. Secondo alcune teorie, senza nessun riscontro, Cesaroni sarebbe stata uccisa dai servizi segreti su indicazione della Banda della Magliana perché aveva scoperto alcuni segreti nei computer della Aiag. Secondo il Foglio, «la verità, ora, comincia a delinearsi. Una verità, come avviene quasi sempre, molto più semplice, quasi a portata di mano fin dall’inizio».