Come fu recensito “Il padrino”

Fu mostrato in anteprima 50 anni fa: piacque subito, ma non del tutto e non a tutti, e in pochi intuirono che era un capolavoro

(Il padrino)
(Il padrino)

Il 14 marzo 1972, cinquant’anni fa, al Loew’s State Theatre di New York fu mostrato in anteprima mondiale Il padrino, che da lì a dieci giorni sarebbe arrivato nei cinema statunitensi. Costato circa sette milioni di dollari, tratto da un libro che secondo il New York Times «aveva quasi tante copie quanto la Bibbia», e anticipato da grandi curiosità sull’interpretazione di Marlon Brando, Il padrino di Francis Ford Coppola andò subito molto bene e divenne il film coi maggiori incassi dell’anno. Piacque molto anche all’estero (in Italia arrivò a settembre) e a gran parte della critica cinematografica.

Il suo essere percepito – così come è oggi, mezzo secolo dopo quell’anteprima – come uno dei migliori e più influenti film di sempre, uno di quelli da prima-e-dopo, capaci di cambiare un genere e un po’ anche il cinema in generale, è però arrivato col tempo, per la successiva sedimentazione di prospettive e opinioni. Così come successo ad altri film, anche le prime recensioni del Padrino, scritte da alcuni dei più famosi critici cinematografici di sempre, lo presentarono come un film lodevole, per qualcuno ottimo, ma non ne parlarono quasi mai come di un capolavoro destinato a fare la storia del cinema.

Nel recensire il film – ambientato nella New York del secondo dopoguerra, negli anni in cui l’inizialmente riluttante figlio Michael prende il posto da capo mafioso occupato dal padre (e padrino) Vito Corleone – il critico A.D. Murphy scrisse su Variety: «per farla breve, il film ha molte grandi atmosfere, una grande interpretazione di Al Pacino, un eccellente studio del personaggio fatto da Brando e un forte cast di supporto. Sarà abbastanza per alcuni, solo un lavoro lasciato a metà per altri». Secondo Murphy, Il padrino era «troppo lungo e alle volte confusionario». «Sebbene non sia mai così placido da diventare noioso, non diventa nemmeno mai tanto coinvolgente da diventare un dramma di livello superiore».

Meno negativo fu, sul Chicago Sun-Times, Roger Ebert, che diede al film il più alto voto possibile (secondo la sua scala, quattro stelle su quattro). Ebert apprezzò il modo in cui il film «supera le luci e gli sfarzi dei tradizionali film di gangster e ci lascia con quel che resta: fiere lealtà tribali, piccole e mortali diatribe di quartiere a Brooklyn e una specifica forma di vendetta per ogni tipo di affronto». Così come molte recensioni di allora, anche Ebert dedicò molte righe al libro: allora il film era ancora fortemente concepito come un adattamento cinematografico di un romanzo di successo. Ebert ricordò quanto il libro sembrasse essere stato scritto dall’interno della mafia, notando che anche il film riusciva a «dare la stessa sensazione». Aggiunse: «Coppola ha trovato uno stile e un aspetto visivo che rende Il padrino una raritàun film davvero buono».

Secondo Ebert, «tendiamo verso l’identificazione con Don Corleone non perché vogliamo una guerra tra famiglie, ma perché siamo stati con la sua, di famiglia, fin dall’inizio, vedendoli mentre attendono la battaglia standosene seduti in cucina a mangiare spaghetti». Ebert notò anche – come moltissimi altri critici e spettatori dopo di lui – che contrariamente al libro «il padrino in persona non è nemmeno il personaggio centrale della storia». A proposito di quel personaggio, Ebert scrisse che Brando riusciva a dare l’idea di «un uomo così abituato al potere che non deve più curarsi di ricordarlo agli altri», ma che sembrava «aver messo troppo cotone nelle guance, fino a rendere immobile la parte inferiore della sua faccia».

Ebert non era comunque tra quelli che ritenevano il film troppo lungo: «c’è qualcosa», scrisse, «nel misurato passaggio del tempo con cui Don Corleone passa le redini del potere, che avrebbe reso inappropriata una minore durata». Eppure, aggiunse, «nonostante questa lunghezza, ci sono personaggi e relazioni che non si capiscono se non si è letto il libro; o che forse si capiscono solo dal modo in cui i personaggi si guardano l’uno con l’altro».

All’interpretazione di Brando fu dedicata una rilevante parte della recensione di Andrew Sarris per il Village Voice: «Brando», scrisse Sarris dopo qualche paragrafo di preamboli sull’attesa per quell’interpretazione «fornisce un’eccellente performance nei panni di Don Vito Corleone, un ruolo che Lee J. Cobb [un noto caratterista morto nel 1976] avrebbe potuto interpretare dormendo e senza trucchi speciali». Per Sarris, «Brando non si fa scivolare nella parte, ma lascia che la parte occupi la sua sublime personalità da star». La recensione parlava poi del fatto che «sebbene Brando domini ogni scena in cui compare, la parte è relativamente piccola, e ci sono altri attori che riescono a essere ugualmente bravi con uno sforzo considerevolmente minore».

Sull’Hollywood Reporter, il critico Arthur King scrisse di aver preferito altre interpretazioni rispetto a quella di Al Pacino («una sorta di doppione di Dustin Hoffman») ed elogiò il modo in cui Coppola era riuscito a «ricreare un determinato tempo e un determinato luogo» in cui gli interni avevano «l’aspetto ricco e da terra bruciata delle vecchie fotografie di quegli anni» e gli esterni erano «immersi nel sole e nei colori». Secondo King, Il padrino era «un film curioso» per come riusciva a «far capire, quasi giustificare, le attività del padrino e del suo clan».

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Sul New Yorker, la critica Pauline Kael parlò del Padrino come di un «esempio di come i migliori film popolari possano uscire dalla fusione tra arte e mercato». Di Brando scrisse: «è magnifico? sì, lo è, ma d’altronde lo è spesso». Aggiunse che nessuno era «invecchiato meglio di lui in uno schermo» e apprezzò il modo in cui l’attore riuscì a «avvicinare Don Vito alla morte», talvolta avvicinandolo perfino «all’innocenza». Di Don Vito Corleone, Kael scrisse che era «tutto echi e sfumature, non rumore» e che è grazie alla «leggendaria presenza» del personaggio di Brando che il film «s’innalza dal raccontare una guerra tra bande a raccontare l’archetipo tribale della guerra».

Kael riempì di elogi anche Pacino: «non lo sorprendi mai intento a recitare, eppure riesce a cambiare, da piccolo e sbarbato universitario, cupamente carino, a signore del crimine, facendosi più intenso, piccolo e isolato a ogni passo che fa». Di come Coppola seppe unire quelle due interpretazioni, Kael scrisse che la regia «non evidenzia mai i collegamenti tra padre e figlio, sono semplicemente lì perché li si possa notare quando si vuole».

A Kael, autrice di una delle recensioni che più elogiarono il film («è melodramma popolare, ma espresso con un nuovo realismo tragico») non era invece per nulla piaciuto il libro: lo definì «romanzo spazzatura» e scrisse di averlo trovato «illeggibile» poiché «ti dice chi e cosa sono i personaggi in poche pungenti frasi, e nulla più, ti informa sul loro passato e le loro vite sessuali con un paio di aneddoti, e poi va avanti».

Scrivendo per il New York Times, il critico Vincent Canby definì Il padrino «una delle più brutali ed emozionanti cronache della vita americana mai pensate per l’intrattenimento popolare». Nell’apprezzare sia Al Pacino che Marlon Brando scrisse inoltre che il primo era «un attore degno di poter aver il secondo come padre».

Il film piacque parecchio anche a Gene Siskel, un altro dei grandi critici che erano attivi in quel periodo. Con riferimento al finale, Siskel scrisse: «Il padrino, ora e forse per sempre al Chicago Theater, finisce con una porta che si chiude in faccia agli spettatori, ed è perché siamo stati dietro quella porta per quasi tre ore che il film ha una così grande presa».