Il piano per il rischio nucleare non c’entra con la guerra in Ucraina

Da due anni si attendeva un aggiornamento e il lavoro si è concluso a novembre, ovviamente senza riferimenti all'invasione russa

(Sean Gallup/Getty Images)
(Sean Gallup/Getty Images)

Negli ultimi giorni molti media hanno trattato con una certa enfasi l’aggiornamento del piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche e nucleari, che prevede una serie di interventi in caso di incidente nucleare. «Paura nucleare, l’Italia aggiorna il piano», ha titolato mercoledì 9 marzo Repubblica con un riferimento al comprensibile timore di molte persone per le conseguenze dell’invasione russa in Ucraina, un paese in cui sono attivi quattro impianti oltre a quello dismesso di Chernobyl.

In realtà non c’è nessun collegamento diretto tra l’aggiornamento del piano e in conflitto in Ucraina. Come ha spiegato il capo del Dipartimento della Protezione civile, Fabrizio Curcio, la revisione del piano era iniziata mesi fa, molto prima che il presidente russo Vladimir Putin ordinasse all’esercito di invadere l’Ucraina. Fonti della Protezione civile e dell’ISIN, l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione, confermano inoltre al Post che il lavoro di revisione del piano si è concluso mesi fa: la bozza definitiva era stata inviata alle istituzioni lo scorso novembre e non è stata cambiata rispetto alla versione consegnata martedì alle regioni. Sono stati rispettati i tempi previsti e negli ultimi giorni non ci sono state accelerazioni in seguito all’invasione dell’Ucraina.

Lo stesso articolo di Repubblica, del resto, chiarisce al suo interno che c’è stata una «una coincidenza solo casuale nella tempistica con la crisi in Ucraina», una situazione comunque non esente da rischi, anche se per il momento limitati, legati ai combattimenti in zone dove ci sono impianti attivi.

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L’inizio dei lavori di aggiornamento del piano era stato deciso dal governo guidato da Giuseppe Conte, che il 31 luglio 2020 aveva approvato un decreto legislativo per adeguarsi alle direttive europee sulle norme di sicurezza contro i pericoli derivanti dalle radiazioni, che rendevano la revisione necessaria perché erano passati dodici anni dalla versione precedente.

Il nuovo piano approvato giovedì dalla conferenza delle regioni è piuttosto corposo, di oltre 200 pagine, con una spiegazione dettagliata delle fasi di emergenza e degli interventi necessari a garantire la salute della popolazione. Gli scenari di riferimento sono tre e comprendono possibili incidenti in impianti a diverse distanze dai confini italiani: entro i 200 chilometri, oltre i 200 chilometri, ma sempre in Europa, e fuori dai confini europei.

Entro i 200 chilometri si trovano le centrali di Bugey, Cruas, Fessenheim, Phenix, Saint-Alban e Tricastin in Francia, Gundremmingen e Isar in Germania, Beznau, Goesgen, Leibstadt e Muehleberg in Svizzera, e Krško in Slovenia. Per studiare l’impatto sul territorio nazionale di un incidente a distanze maggiori di 200 chilometri dai confini sono state prese come riferimento le centrali nucleari di Trillo in Spagna, di Kozloduy in Bulgaria, di Brockdolf in Germania, e di Flamanville in Francia.

Una delle differenze più significative tra il piano del 2010 e quello appena approvato è la presenza degli ultimi due scenari: oltre i 200 chilometri, ma sempre in Europa, e fuori dai confini europei. La modifica è stata introdotta dopo l’incidente alla centrale di Fukushima avvenuto nel 2011 in Giappone: prima non erano previsti protocolli per gli eventuali incidenti più lontani.

Le fasi di emergenza sono due, a cui se ne aggiunge una chiamata “di transizione”. La prima fase considera i pericoli nei momenti immediatamente successivi all’incidente nucleare, con il passaggio sul territorio di una nube radioattiva. La seconda fase esamina le conseguenze del trasferimento delle sostanze radioattive nell’ambiente e nel cibo. La fase di transizione, l’ultima, inizia al termine della bonifica dei territori contaminati con l’avvio dei programmi di sorveglianza radiologica.

Nella prima fase, durante il passaggio della nube radioattiva, il piano prevede due misure per tutelare la salute pubblica: il riparo al chiuso e l’intervento di iodoprofilassi.

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La misura di riparo al chiuso consiste nell’obbligare la popolazione a restare nelle abitazioni, con porte e finestre chiuse, e limitando l’accensione dei sistemi di ventilazione o condizionamento. L’obiettivo della misura è evitare che le persone respirino le particelle della nube radioattiva e le polveri che si alzano dal suolo. Tra le altre cose, possono essere introdotti anche divieti come il blocco del consumo di alimenti prodotti localmente (verdure fresche, frutta, carne e latte) e il blocco della circolazione stradale.

La seconda misura è l’iodoprofilassi, cioè la somministrazione di iodio chiamato “stabile”, attraverso la somministrazione di compresse.

Tra le sostanze radioattive che possono essere emesse in caso di grave incidente nucleare, spiega il piano, c’è lo Iodio 131: è radioattivo e può essere inalato o assunto con acqua e alimenti. A dosi elevate, la popolazione può essere esposta ad un aumento della probabilità di contrarre tumori della tiroide.

Il rischio di tumori da iodio radioattivo è fortemente dipendente dall’età al momento dell’esposizione: i rischi maggiori sono per le persone fino a 17 anni, mentre tendono ad annullarsi oltre i 40 anni. Nelle aree particolarmente esposte in caso di incidente nucleare, la iodoprofilassi è una efficace misura di intervento per la protezione della tiroide. Il periodo considerato ottimale per la somministrazione di iodio stabile va da meno di 24 ore prima e fino a due ore dopo l’inizio previsto dell’esposizione alle radiazioni. Il piano dice anche che somministrare lo iodio stabile dopo le 24 ore successive all’esposizione può causare più danni che benefici.

Anche nel caso della iodoprofilassi negli ultimi giorni c’è stato un certo allarmismo. Secondo molti giornali, in Italia e in altri paesi europei c’è stata una “corsa all’acquisto di pillole allo iodio”. È in realtà piuttosto complicato capire se ci sia stata davvero una crescita delle richieste di questo farmaco.

L’Istituto superiore di sanità ha pubblicato una nota per chiarire che in Italia è raccomandato l’utilizzo del sale iodato per la preparazione e la conservazione degli alimenti, mentre è sconsigliato il «ricorso fai-da-te» a preparati contenenti elevate quantità di iodio che potrebbero determinare conseguenze negative per l’organismo, incluso il blocco funzionale della tiroide. ​​L’ISS spiega che «solo in caso di una reale emergenza nucleare, al momento inesistente nel nostro Paese, sarà la Protezione Civile a dare precise indicazioni su modalità e tempi di attuazione di un eventuale intervento di profilassi iodica su base farmacologica per l’intera popolazione».