• Moda
  • Mercoledì 9 marzo 2022

La moda e la guerra

L'invasione in Ucraina è avvenuta durante le sfilate di Milano e Parigi, costringendo le aziende a scelte e riposizionamenti complicati

di Arianna Cavallo

Manifestanti fuori dalla sfilata di Armani, Milano, 7 marzo 2022 
(Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)
Manifestanti fuori dalla sfilata di Armani, Milano, 7 marzo 2022 (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, giovedì 24 febbraio, a Milano era iniziata da due giorni la Settimana della moda: 190 eventi, tra cui 60 sfilate fisiche, dedicati alle collezioni donna per l’autunno inverno 2022/2023. Improvvisamente le storie su Instagram e i video su TikTok pieni di abiti, modelle e celebrità si sono mescolati a immagini di carri armati, bombardamenti e appelli alla pace, e il mondo della moda – alle prese con la prima stagione di sfilate interamente dal vivo dopo quelle virtuali o cancellate a causa del coronavirus – si è ritrovato di nuovo nel mezzo di un’emergenza.

Per prima cosa bisognava gestire la comunicazione sui social network perché la frivolezza delle passerelle poteva facilmente apparire oltraggiosa in un contesto di guerra, ma bisognava anche affrontare lo straniamento di stilisti, modelle, giornalisti e celebrità presenti alle sfilate, che improvvisamente sembravano perdere senso: sia perché le Settimane della moda sono un evento festoso e mondano sia perché la moda ha l’ambizione di interpretare e prevenire i tempi, che in questo caso si immaginavano di rinascita e speranza con l’affievolirsi della pandemia.

Per finire, c’era la necessità di dare una risposta concreta: dalle donazioni economiche in sostegno di vittime alla scelta di chiudere i negozi e sospendere le attività commerciali in Russia, giustificata sia dalle difficoltà logistiche sia con prese di posizioni più decise contro l’invasione.

Le aziende che hanno sfilato alla settimana della moda di Milano sono state piuttosto spiazzate dalla situazione e non hanno avuto modo di reagire – «ho quasi apprezzato il fatto che i marchi di Milano non si siano lanciati in patetici messaggi di supporto e che i più abbiano scelto un silenzio, si spera consapevole», ha scritto Silvia Schirinzi su Rivista Studio. Soltanto Giorgio Armani ha fatto sfilare in silenzio, senza il consueto accompagnamento musicale: «si sentivano perfino gli abiti frusciare e, quando i fotografi hanno preso a scattare a raffica e ognuno ha pensato all’assedio di Kyiv, tutti hanno sentito tuonare la mitraglia», ha commentato Paola Tavella sul Foglio.

 

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A Milano la guerra ha fatto la sua comparsa soprattutto fuori dalle sfilate: giovedì alcuni manifestanti pro-Ucraina si erano raggruppati fuori dalla Fondazione Prada, poi dei gruppi più numerosi e attrezzati di cartelloni contro Putin si erano assiepati per le sfilate di Versace e di Armani. Sui social network i commenti di apprezzamento ai lavori di Gucci, Prada e Fendi erano inframmezzati da altri che chiedevano di schierarsi in modo deciso dalla parte dell’Ucraina.

Nel frattempo il mondo della moda iniziava a interrogarsi sul proprio ruolo e a dare dei contribuiti. Alcuni marchi e stilisti hanno pubblicato sui social network post contro la guerra e a favore della pace: Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, ha pubblicato una poesia pacifista di Gianni Rodari e ha poi raccontato a Che tempo che fa il disagio di fare una sfilata in un momento di guerra, mentre altri si sono chiesti come l’intero settore potesse reagire in modo più efficace. Giancarlo Giammetti, co-fondatore di Valentino, ha scritto su Instagram che: «è necessario affrontare l’illogica mancanza di compatibilità tra una sfilata di moda e la situazione in Ucraina. Io non conosco la risposta e voi?», mentre la giornalista Fabiana Giacomotti ha sottolineato sul Foglio che «in questi ultimi dieci giorni nessun altro settore industriale ha sentito il bisogno, tanto meno il dovere, di dover giustificare il proprio lavoro davanti alla platea internazionale».

 

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Il popolare account Instagram di moda Diet Prada ha provato a risolvere la questione riprendendo un post di Danielle Bernstein, fondatrice dell’azienda We wore what, che annunciava la donazione dei ricavi della sua nuova linea di costumi da bagno ad associazioni ucraine: «Puoi scrivere di moda e scrivere dei problemi del mondo. Puoi attirare l’attenzione per la tua nuova collezione e allo stesso tempo raccogliere soldi da donare. Puoi vivere la tua giornata e insieme mostrare compassione e preoccuparti per gli altri».

Nel frattempo le edizioni ucraine di Vogue e di L’Officiel, due importanti riviste di moda, avevano chiesto alle grandi aziende di sospendere tutti i rapporti commerciali con la Russia. Imran Amed, fondatore di Business of Fashion, uno dei più importanti siti di moda, ha risposto all’appello scrivendo che «non possiamo continuare come se niente fosse. Dobbiamo mostrare solidarietà all’Ucraina e isolare la Russia per fare pressione a Putin perché metta fine alla guerra» e il British Fashion Council, l’associazione della moda britannica, ha invitato «tutti i marchi del nostro network a mostrare il proprio sostegno, in qualsiasi modo, al movimento internazionale che condanna l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia».

Nel giro di una settimana la risposta del settore è diventata più concreta. Venerdì scorso Hermès è stata la prima azienda del lusso ad annunciare la chiusura temporanea di tutti i suoi negozi in Russia e la sospensione delle attività commerciali nel paese, a causa della «situazione in Europa». Nello stesso giorno LVMH – il più grande conglomerato del lusso, che controlla tra gli altri Louis Vuitton, Christian Dior, Fendi e Givenchy – si è schierato «con tutte le persone colpite dalla guerra» e ha annunciato la donazione di 5 milioni di euro alla Croce Rossa Internazionale e la chiusura, da domenica, di tutti i suoi 120 negozi in Russia, pur continuando a pagare lo stipendio ai 3.500 dipendenti nel paese; si è infine detto preoccupato dei suoi 150 dipendenti in Ucraina, che stava cercando di aiutare. Anche Chanel, Kering – l’altro grande gruppo del lusso francese che controlla Gucci, Balenciaga e Saint Laurent – e il gruppo svizzero Richemont – che possiede Cartier e Montblanc – hanno fatto lo stesso, con posizioni più sfumate: Kering ha chiuso i negozi «per i crescenti timori della situazione in Europa», Chanel per «la crescente insicurezza e la difficoltà logistica».

Sono seguiti a ruota quasi tutti i grandi marchi: Prada, Moncler, Burberry, Nike, Adidas, fino alle catene di fast fashion (la moda più economica) come H&M, Inditex (il gruppo di Zara), che ha chiuso i suoi 502 negozi in Russia e 79 in Ucraina, e Mango che ha 120 punti vendita in Russia. Tra i pochi a non aver sospeso i rapporti commerciali con la Russia c’è la giapponese Uniqlo: il suo direttore esecutivo Tadashi Yanai ha spiegato che «vestirsi è una necessità vitale e i russi hanno lo stesso diritto di vivere che abbiamo noi» e che quindi i 50 punti vendita nel paese resteranno aperti. [Due giorni dopo la pubblicazione dell’articolo Uniqlo ha deciso di sospendere tutte le operazioni commerciali e logistiche in Russia a causa di «un certo numero di difficoltà» e di donare 10 milioni di dollari all’UNHCR; Uniqlo era stata molto criticata per la sua posizione precedente]. Intanto molti grossi rivenditori di abbigliamento online, come Farfetch, Mytheresa e Yoox Net-a-Porter, hanno smesso di vendere in Russia.

Contemporaneamente sono iniziate anche le donazioni. Carlo Capasa, presidente della Camera della moda italiana, ha invitato da subito le aziende a sostenere l’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Hanno risposto quasi tutti: Armani e Valentino, entrambi con 500mila euro, Gucci con 500mila dollari, e poi Prada, Max Mara, Furla. Chanel ha donato due milioni di euro a UNHCR e CARE, che combatte la povertà nel mondo, Louis Vuitton ha versato un milione di euro all’Unicef mentre Versace e Balenciaga hanno scelto il World Food Programme. Qui trovate un elenco con le donazioni fatte dalle aziende principali.

La modella russa Irina Shayk non ha partecipato come di consueto alla Settimana della moda di Parigi e ha detto che avrebbe fatto delle donazioni alla Croce rossa ucraina e all’Unicef

 

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Nonostante la mobilitazione, molti marchi non hanno criticato apertamente Putin e hanno evitato parole come “guerra” e “invasione”. La neutralità del mondo della moda, scrive Business of Fashion (BoF), è da sempre un problema del settore, che deve riuscire a vendere lo stesso prodotto a paesi che possono anche essere ostili tra loro. Negli ultimi anni la crescente polarizzazione politica e l’attivismo dei clienti hanno spinto molti marchi a prendere posizione, perlomeno sulle questioni meno controverse: ne sono stati esempi il femminismo di Dior con la famosa maglietta con scritto We Should All Be Feminists, l’opposizione di Gucci alle armi dopo una sparatoria in una scuola superiore, il generale sostegno all’ambiente e alla diversity (cioè l’idea che non ci siano corpi sbagliati, indipendentemente dall’età, dalla magrezza e dal colore della pelle).

In questo caso però sono state poche le aziende che hanno tirato in ballo la Russia, contrariamente a quelle di altri settori come Apple, Disney, Ikea, Exxon, che nel sospendere il commercio con il paese hanno parlato subito di ragioni morali. Eppure il contributo della Russia al settore è relativamente limitato: BoF scrive che il mercato russo è responsabile tra il 3 e il 5 per cento delle vendite globali del lusso. Carlo Capasa ha spiegato che l’anno scorso l’Italia aveva esportato in Russia beni per circa 1,4 miliardi di euro – di cui la metà in abbigliamento e il resto in accessori e cosmetica – meno quindi del 2 per cento delle esportazioni complessive del settore, a cui si aggiungono circa 250-300 milioni di euro di acquisti fatti dai turisti russi in Italia. Moncler ha fatto sapere che meno del 2 per cento delle sue vendite dipende da clienti russi in Italia o all’estero mentre per Valentino, che vende in Russia in franchising con un partner locale, il paese rappresenta il 3 per cento delle vendite totali.

La guerra in Ucraina potrebbe anche essere un’occasione per i marchi più piccoli – che si limitano alle esportazioni e non hanno negozi o dipendenti di cui preoccuparsi in Russia – di schierarsi nettamente e «compiacere i clienti occidentali», ha spiegato sempre a BoF l’analista Jelena Sokolova dell’agenzia Morningstar. Per esempio l’azienda del lusso ungherese Nanushka, che ha un fatturato di circa 50 milioni di euro annui, ha offerto sostegno ai rifugiati, interrotto le vendite in Russia, rifiutato di prendere nuovi ordini e troncato i legami con i partner all’ingrosso. Peter Baldaszti, il direttore esecutivo del gruppo Vanguards che controlla Nanushka, ha spiegato che «non è stata una scelta facile perché abbiamo il massimo rispetto per la gente russa» e «non abbiamo preso in nessun modo delle decisioni per danneggiarli o umiliarli, non è proprio questo il punto».

In molti casi, comunque, a pesare sulla sospensione delle attività in Russia è stato soprattutto il fattore logistico: le sanzioni hanno reso complicato non solo inviare la merce e soddisfare gli ordini, ma anche effettuare i pagamenti. Capasa ha spiegato a Repubblica che la decisione ormai non è più in mano alle singole aziende, alcune infatti «non possono chiudere nemmeno volendo», perché vendono attraverso i negozi gestiti in franchising o nei negozi multimarca e «in questo caso la merce spedita e già in Russia difficilmente può essere bloccata». Altre sono costrette a sospendere le attività pur non volendolo fare: «la collezione primavera-estate era stata già spedita e pagata, ma da giugno si parte con i modelli invernali» che con il blocco dei pagamenti e i problemi delle spedizioni difficilmente arriveranno in Russia.

– Leggi anche: Le sanzioni faranno male alla Russia

Nel frattempo, mentre il settore si mobilitava, rifletteva sul proprio ruolo e prendeva decisioni sul campo, la settimana della moda si è spostata a Parigi. Qui Ralph Toledano, presidente della Fédération de la Haute Couture et de la Mode – l’equivalente della Camera della moda italiana – ha invitato «a vivere le sfilate con sobrietà e a riflettere sull’oscurità del momento presente», mentre gli stilisti hanno avuto un po’ di tempo per riflettere sulla situazione.

Alcuni hanno deciso delle modifiche in corso, come lo statunitense Rick Owens, che ha presentato una delle migliori collezioni della sua carriera. L’aveva disegnata mesi fa perché fosse sostanzialmente “pretty” (bella, graziosa), immaginando un mondo che si risvegliava dalla pandemia, e l’ha ritenuta adeguata anche dopo le notizie sulla guerra: «quando il cuore si spezza, la bellezza è tra le poche cose che possono portare speranza», ha spiegato a BoF. All’ultimo minuto però ha cambiato colonna sonora: doveva essere del musicista Eprom ma a un certo punto «ho sentito questo fuoco di artiglieria nelle percussioni e ho pensato “cazzo non posso usarla”. Così mi sono deciso per la sinfonia numero 5 di Mahler, la più sdolcinata, melensa, kitsch, manipolatoria ed emotiva, ma azzecca proprio la nota giusta. C’è un desiderio di speranza in quella musica che la rende adatta al momento».

Pierpaolo Piccioli, il direttore creativo di Valentino (che pur essendo un’azienda italiana sfila a Parigi), ha letto un messaggio prima di presentare la collezione: «è stata una settimana difficile, è un momento difficile e abbiamo reagito nel modo che conosciamo: lavorando. Abbiamo reagito non lasciandoci paralizzare dalla paura della guerra, cercando di ricordare che il privilegio della nostra libertà ora è più grande di sempre», e ha concluso ribadendo che «l’amore è la soluzione, sempre».

Senza dubbio chi ha saputo rispondere al momento meglio di tutti è stato Demna Gvasalia, il direttore creativo di Balenciaga. Gvasalia è nato da madre russa e padre georgiano in Abcasia, una regione della Georgia annessa dalla Russia durante la guerra civile del 1991-93. Nel 1993, quando aveva 12 anni, scappò dal paese e si rifugiò prima a Tbilisi, poi per due anni in Ucraina, a Odessa, e infine a Düsseldorf in Germania.

– Leggi anche: In Europa ci sono già varie repubbliche filorusse

Anche lui ha fatto precedere la sfilata con un messaggio in cui raccontava che l’invasione in Ucraina gli aveva ricordato quello che aveva vissuto da bambino, che lo aveva reso «un rifugiato per sempre. Per sempre, perché è qualcosa che resta dentro di te». Nell’ultima settimana occuparsi della sfilata era stato duro – «in un momento simile la moda perde la sua rilevanza e il suo diritto a esistere» – e aveva pensato di cancellarla; «ma poi ho capito che sarebbe stato come arrendersi alla malvagità che mi aveva già ferito 30 anni fa. Ho deciso di non sacrificare ancora parti di me a quella guerra dell’ego senza senso e senza cuore. […] Questa sfilata non ha bisogno di spiegazioni. È una dedica a chi è senza paura, alla resistenza e alla vittoria dell’amore e della pace». Si è presentato alla sfilata vestito con un maglione blu e giallo, i colori della bandiera ucraina, e ha fatto distribuire sulle sedie per il pubblico delle coperte sempre gialle e blu.

La collezione era stata immaginata come un avvertimento sui rischi del riscaldamento climatico: le modelle e i modelli arrancavano in una bolla dove infuriava una finta tempesta di neve, ipotizzando che in futuro possa essere solo un ricordo. Ma il nuovo contesto di guerra ha suggerito una interpretazione diversa di quei corpi affilati che avanzavano in un clima ostile, avvolti in una coperta, impacchettati con nastro adesivo mentre reggevano borse simili a sacchi della spazzatura (le Trash Pouch, fatte in realtà in pelle) e che si facevano strada in un cielo di lampi quasi nucleari.

 

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