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  • Lunedì 28 febbraio 2022

Chi veste i personaggi famosi

"L'arte dello styling" racconta chi sono, cosa fanno e da dove vengono gli stylist, che assemblano meglio di tutti vestiti e accessori

Dietro al successo di una celebrità, di un’azienda di moda, di un capo d’abbigliamento o di una tendenza c’è sempre più spesso il gusto di uno stylist, la figura professionale che sceglie vestiti e accessori e li assembla insieme per creare lo stile di un personaggio famoso, l’atmosfera di un video musicale o l’universo estetico di una rivista. Lo stylist deve conoscere non solo i capi, i tessuti, la storia e le novità della moda ma anche il loro significato per poter comunicare un messaggio e tradurre in vestiti le idee.

È un mestiere che sta acquisendo sempre più rilevanza grazie ai social network, ma è ancora poco conosciuto a chi non è del settore. Per farsene un’idea può essere utile leggere L’arte dello styling, un libro appena pubblicato da Vallardi e scritto da Susanna Ausoni, una delle più importanti stylist italiane che cura l’immagine di personaggi come Mahmood, Elisa, Carmen Consoli e Noemi, e da Antonio Mancinelli, giornalista, scrittore e critico di moda.

– Leggi anche: Cosa fa lo stylist (prima cosa: non lo stilista)

Il libro tiene insieme capitoli più divulgativi, ricordi e racconti personali di Ausoni, consigli a chi questo lavoro lo vorrebbe fare e ritratti di quelli che l’hanno fatto con successo: da Carine Roitfeld, responsabile delle campagne pubblicitarie provocatorie ed erotiche di Gucci di Tom Ford, all’eccentrica ed eccessiva Anna Dello Russo, da Grace Coddington, braccio destro della direttrice di Vogue America Anna Wintour, al raffinato Edward Enninful, primo direttore uomo e nero dell’edizione britannica di Vogue.

– Leggi anche: Storia della canotta, anticonformista

Di seguito due estratti del libro.

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Sia lo stilista – ma chiamiamolo, a scanso di equivoci, «fashion designer» – sia lo stylist hanno una conoscenza approfondita dei tessuti, della costruzione dei capi, dei profili di differenti anatomie, e soprattutto del gusto che c’è e di quello che verrà: ma mentre la prima figura professionale crea – o dovrebbe farlo – qualcosa che ancora non c’è (o non c’è in una determinata forma), la seconda può essere descritta come una persona che crea qualcosa di assolutamente nuovo dalle cose già esistenti, e sceglie e seleziona abiti e accessori per comporre outfit per le campagne pubblicitarie, per gli editoriali delle riviste di moda e per le celebrity. È un procedimento che somiglia a quello dei grandi Dj autori della cultura del mash-up musicale: un lavoro creativo ideato fondendo due o più brani preregistrati, normalmente sovrapponendo la traccia vocale di una canzone senza soluzione di continuità alla traccia musicale di un’altra, e dando vita a un risultato totalmente diverso dai due o tre originali di partenza, che, mixati insieme, vibrano di nuovi significati, visto che tempo e tonalità possono essere stati cambiati dal Dj per armonizzarli.
Lavorano a stretto contatto con il fotografo per ottenere l’immagine in grado di catturare l’essenza di quella frazione di moda e di tempo. Gli stilisti sono narratori, con la capacità di comprendere il linguaggio degli oggetti, decodificare i segni ed essere l’occhio laterale del fotografo.

Polly Allen Mellen, la stylist di moda suprema – l’unica che ha chiamato due mitici fotografi con i loro nomi: «Dick» per Richard Avedon e «Helmut» per Helmut Newton – è la prova vivente di un’eccezionale carriera di image maker.
Ha iniziato negli anni Cinquanta, ma è proprio negli anni Sessanta che i codici visivi delle riviste di moda di tutto il mondo si sono evoluti così da poter catturare la realtà e i luoghi alla moda in cui la sua carriera è decollata.
È nota per essere forse stata la prima stilista a vedere il suo nome tra i crediti accanto al fotografo e per aver realizzato servizi fotografici all’aria aperta e in luoghi come il Giappone con Veruschka e lo stesso Avedon, con i quali ha stabilito le collaborazioni fotografiche più prolifiche della sua carriera.

Lo styling – di cui nessuno ha mai raccontato la storia, in quanto gli stylist sono figure professionali recenti e tutto sommato mai troppo «esposte» nell’esercizio del loro lavoro – va giudicato non in base ai marchi utilizzati, al nome della modella o del modello, del fotografo o della celebrity. Non esiste un buon gusto universale, né tanto meno un’oggettività. Il gusto è soggettivo e le persone che svolgono questo lavoro attraverso la cultura e la continua reinterpretazione di influenze passate, presenti e future, sono quelle che riescono al meglio.

In un’intervista al magazine Sunday Times Style, Nicola Formichetti, stylist editoriale di successo, che ha ottenuto il riconoscimento popolare per avere vestito la performer pop Lady Gaga (suo il famoso vestito di bistecche vere indossato da Gaga nel 2010), ha affermato di essere stato inizialmente incerto sull’esatto ruolo dello stylist. Nel tentativo di individuare esattamente cosa facesse, il giornalista che lo ha intervistato ha descritto il processo creativo assistendo Formichetti mentre lavorava per la sfilata maschile di Thierry Mugler per l’autunno-inverno 2011-12. Ecco la scena: un ragazzo indossa un blazer aperto e pantaloni larghi, ma Formichetti non vede l’ora di dargli un tocco in più. Si butta sulle spalle una sciarpa diafana. Cammina, istruisce. Meglio, ma non è ancora soddisfatto. Riallaccia la sciarpa in modo che uno strascico voli nell’aria. Inclina un po’ la testa, poi avvolge il capo del modello con il foulard, così i suoi lineamenti somigliano a quelli di un etereo rapinatore di banche. Formichetti sorride. Più tardi, gli scatti del ragazzo faranno il giro del mondo sui più importanti quotidiani e siti di magazine del mondo, e tutto per una sciarpa messa nel modo «giusto». […]

Gli stylist non sono sempre esistiti, sono stati una conseguenza del successo delle riviste di moda e piano piano hanno preso piede e importanza nel campo dell’editoria e non solo. C’è chi sostiene che la prima vera stylist mai esistita fu Rose Bertin, sarta di fiducia e consigliera di Maria Antonietta, ultima regina di Francia, quella della famosa citazione «che mangino brioches!», rivolta ai rivoluzionari del 1789. (Frase che, poverina, in realtà non disse mai.) E del film di Sofia Coppola, Marie Antoinette, un vero capolavoro di styling – chi si ricorda della fugace apparizione di un paio di Converse All Star color lavanda per destoricizzare il personaggio, un’adolescente che ama divertirsi e finisce in un evento più grande di lei? Un tocco, realizzato dalla costumista Milena Canonero.
Rose iniziò a lavorare per la regina nel 1772 e disegnava – letteralmente – le possibili combinazioni di enormi abiti, giganteschi gioielli e mastodontiche parrucche in modo da far apparire Maria Antonietta sempre un po’ più avanti delle altre dame, con soluzioni vestimentarie originali (come quella di eliminare i gioielli dai consueti «luoghi» dell’anatomia femminile, quali collo, orecchie, polsi, e sistemarli tra i capelli) e suggerimenti preziosi.

Secondo altre fonti, la parola stylist iniziò a essere usata nella Hollywood degli anni Trenta e Quaranta, nel momento di passaggio dal cinema in bianco e nero al colore, quando si cominciarono a studiare i toni di un attore o di un’attrice per valorizzarli a favore della cinepresa. È un’epoca in cui il divismo diventa un sistema e una nuova figura di «assistente» si insinua tra la costumista e il fotografo, per creare dei look destinati a caratterizzare le dive di allora, dando loro consigli su nuove acconciature, formule di abbigliamento e accessori che rendessero indimenticabile quell’attore o attrice che comunicava con il resto del mondo attraverso i suoi film e un apparato pubblicitario fatto di ritratti su cartoline, poster e fotografie concordate sui giornali di pettegolezzi. Altri sostengono che il termine come lo intendiamo oggi venne usato per la prima volta nel 1937 dalla rivista americana Delineator per un ritratto della bellissima Tobé Coller Davis, detta anche Miss Tobé: «Tobé non è un oracolo, non è una fashion designer: semplicemente sa meglio di tutte, grazie alla sua esperienza, che genere di stili a venire ti piaceranno e quali potranno riflettere meglio la tua personalità. Dai grandi salon parigini agli atelier di sartoria inglesi, lei seleziona il nuovo e il meglio delle creazioni di stagione».

I primi stylist editoriali erano redattori che lavoravano esclusivamente per riviste di moda, «editando» le pagine di abbigliamento e accessori. Sotto la direzione dell’editore, c’erano il fotografo e la modella. Non era raro, negli anni Sessanta, che le modelle si facessero i capelli e il trucco, oltre a fornire i propri accessori per i servizi fotografici. Solo a metà degli anni Ottanta è stato introdotto il termine stylist come sinonimo di una professione a sé stante – quasi sempre, infatti, almeno agli inizi è stata svolta da freelance, ovvero liberi professionisti – che ha assunto una dignità quando c’è stato bisogno di amplificare, rinforzare o addirittura cambiare di segno il messaggio promanato dalle passerelle, unito a quello che arrivava dalla strada, in un insieme intonato ai tempi e alla loro evoluzione.
Fino al marzo 1989 compariva solo il fotografo per le immagini nella rivista British Vogue, insieme a parrucchieri e truccatori. Non c’era alcun riconoscimento per chiunque altro fosse coinvolto nella produzione delle riprese. Da quella data la rivista ha cominciato ad accreditare lo stilista come «fashion editor». Il fatto che il nome dell’hair stylist sia comparso su Vogue decenni prima rispetto al fashion editor o allo stesso stilista dà un’idea di come si sia evoluta l’economia della moda.

(©Vallardi 2022)