• Libri
  • Mercoledì 23 febbraio 2022

Possiamo farci venire idee ancora migliori, sui vaccini

Ilaria Capua racconta nel suo nuovo libro cosa abbiamo fatto bene, cosa facciamo male e cosa possiamo fare meglio con quello che abbiamo imparato sulla pandemia

(Lauren DeCicca/Getty Images)
(Lauren DeCicca/Getty Images)

Ilaria Capua è una virologa italiana di fama internazionale per i suoi studi e il suo impegno di divulgazione sulle pandemie dei decenni passati, e che ha ottenuto ulteriori attenzioni e visibilità negli ultimi due anni per il suo lavoro di informazione e commento agli sviluppi della pandemia da coronavirus. In questi giorni Mondadori ha pubblicato un suo nuovo libro, La meraviglia e la trasformazione: queste sono le pagine di riflessione sul potenziale inventivo che la ricerca potrebbe destinare a una più efficace diffusione e applicazione dei vaccini.

***

Immaginiamo per un attimo che tutte le mamme del mondo non possano allattare. Come riusciremmo a nutrire i milioni di neonati che esigono la loro razione di latte? Una soluzione potrebbe essere riempire milioni di biberon di latte pastorizzato, metterli in giganteschi frigoriferi e spedirli alle varie latitudini. Possibile, ma molto complicato: dove non c’è la corrente, infatti, il latte andrebbe a male. Non sarebbe forse più pratico usare il latte in polvere? Si conserva a temperatura ambiente, pesa poco, può essere spedito in un pacco qualsiasi (non in una borsa del ghiaccio) e non ha bisogno di corrente elettrica.

Con i vaccini dobbiamo riuscire a fare la stessa cosa. Non è facilissimo, naturalmente, si tratta di dare una risposta efficace a un problema che prima del 2020 non ci eravamo mai posti – vaccinare tutta l’umanità in un tempo breve –, ma riuscirci è essenziale, se vogliamo vincere la partita contro il Covid-19 e mettere le basi per investire seriamente nella salute globale.

Finora le campagne di vaccinazione hanno riguardato alcune fasce della popolazione: il vaccino del morbillo, per esempio, si somministra solo ai ragazzini. Conoscendone il numero, la programmazione è abbastanza agevole: gli Stati comprano le dosi dei vaccini nel numero necessario per unità di tempo, e questo permette ai sistemi sanitari di vaccinare chi deve esserlo e alle aziende farmaceutiche di organizzarsi, sapendo che, per esempio, l’Italia ogni anno compra più o meno sempre la stessa quantità di dosi di vaccino per il morbillo.

Per battere un’infezione che colpisce indiscriminatamente tutta la popolazione umana, invece, bisogna fare in modo che tutte le persone della Terra siano immunizzate. Perché, come abbiamo visto, se il virus circola in zone dove l’immunità non c’è, allora emergono le varianti, che sono dannatamente pericolose.

La ricerca ci ha fornito uno strumento potentissimo per limitare la circolazione del virus, ovvero il vaccino. Questo vaccino, però, deve arrivare il più velocemente possibile nel braccio delle persone. Di tutte: che vivano in Italia, dove la popolazione è la più anziana d’Europa, o in Uganda, dove la popolazione è fra le più giovani del mondo. I giovani sono tendenzialmente asintomatici e superano l’infezione senza troppe difficoltà?

– Leggi anche: Che fine ha fatto il vaccino di Johnson & Johnson

Vero, e significa che – probabilmente, per quanto possiamo ipotizzare oggi in base alle informazioni disponibili – la popolazione ugandese non soffrirà tanto quanto ha sofferto quella italiana. Ma questo non vuol dire che la popolazione ugandese non contribuisca alla circolazione virale, anzi. In Uganda, mentre scrivo, è vaccinato meno dell’1 per cento della popolazione, in Italia oltre il 60 per cento: in quale dei due paesi potrebbe potenzialmente emergere la prossima variante, quella rambizzata, intendo?

Per vaccinare gli abitanti del Nepal, dei più remoti villaggi del Perú, della città di Parigi o di Londra, ma anche chi vive in Alaska o nel Sahel, è necessario che i vaccini siano equamente accessibili a tutti.

Pare scontato ma non lo è, infatti oggi non funziona così. Ben conosciamo i complessi problemi logistici che la necessità di conservare le dosi di vaccino a temperature polari ha creato anche in Occidente, ma mentre europei o nordamericani vengono invitati tramite e-mail o sms a presentarsi il tal giorno alla tal ora nel tal posto, con l’unica preoccupazione di incastrare la dibattuta puntura in agenda, esistono vastissime aree di mondo in cui i vaccini proprio non ci sono, oppure arrivano in scarsissime quantità in siti che per tanti sono difficilmente raggiungibili.

Nei paesi a basso e medio reddito le dosi giungono con il contagocce, principalmente per due motivi: perché c’è un evidente collo di bottiglia in fase di produzione e perché la maggioranza di esse vengono distribuite nei paesi occidentali, che li possono pagare. Entro la fine del 2021, per fornire un solo dato, le nazioni più ricche avranno un surplus di 1,2 miliardi di dosi, mentre l’intero continente africano avrà potuto vaccinare solo il 2 per cento della popolazione. Ma c’è dell’altro, anche se ci ostiniamo a non vederlo. Esiste una limitazione infrastrutturale: in Occidente la corrente elettrica continua c’è; in vaste aree del mondo, invece, non c’è o, se c’è, è solo part time. È un problema enorme perché i vaccini – per svolgere bene il lavoro di immunizzazione e, quindi, per proteggere – devono essere conservati a temperature di refrigerazione (a volte bastano i +4 °C del nostro frigorifero, altre si tratta di –20 °C, –70 °C o addirittura di una conservazione a –196 °C, nell’azoto liquido, come accade per il vaccino contro la malattia di Marek). Tutti, pertanto, devono essere distribuiti e conservati dentro voluminosi congelatori che necessitano di corrente elettrica continua, pena la perdita (parziale o totale) della qualità del prodotto e quindi della capacità immunogena. Nelle zone in cui la corrente elettrica continua non c’è, le persone, soprattutto le donne, sono costrette a spostarsi anche di molti chilometri per ricevere le dosi per sé e per i propri figli, magari a piedi o con mezzi di fortuna.

– Leggi anche: BioNTech vuole produrre vaccini nei container

Mettendo in luce un aspetto critico della campagna vaccinale contro il SARS-Cov-2 – quale è il mantenimento della catena del freddo per la distribuzione, la consegna e lo stoccaggio dei vaccini disponibili e la garanzia che il loro pieno titolo sia conservato per la somministrazione –, non intendo in alcun modo sminuire l’eccezionalità del lavoro svolto dagli scienziati che ai vaccini hanno lavorato. Nell’arco di un solo anno sono stati infatti immessi sul mercato prodotti sicuri ed efficaci: un risultato straordinario, possibile grazie a decenni di ricerca in campo vaccinale e, proprio per questo, basato su tecnologie che affondano le loro radici nel passato.

La pandemia, però, nel mostrarci i limiti delle nostre mappe mentali, delle nostre scelte, delle nostre consuetudini, e anche dei nostri strumenti, ci sta al contempo indicando una serie di opportunità. Guardando alla salute come una risorsa fluida e circolare per tutti gli abitanti del pianeta si potrebbe immaginare di trovare soluzioni che spingano in avanti la salute delle persone, degli animali, delle piante e dell’ambiente. Occorrerà certamente individuare strategie di riduzione del rischio di salto di specie all’origine (il primum movens dei fenomeni pandemici), ma bisognerà anche capire come poter disporre rapidamente e su larghissima scala di vaccini per tutta la popolazione.

Per fare questo dobbiamo indirizzare la ricerca verso lo sviluppo di vaccini termostabili, ovvero stabili a temperatura ambiente (che può arrivare intorno ai 50 °C, come è accaduto nell’estate del 2021 in Sicilia). Un vaccino di questo tipo potrebbe raggiungere le persone casa per casa, via posta oppure consegnato nei villaggi con i droni: niente viaggi verso gli hub vaccinali, niente file, niente chiamate. Ma anche meno consumo di elettricità, minori costi di trasporto e spedizione, e quindi minore impronta di carbonio. Tutto torna? Direi di sì.

Come mai non disponiamo già di questa incredibile risorsa? Perché finora abbiamo ritenuto che i vaccini dovessero avere soltanto due caratteristiche essenziali: essere efficaci ed essere innocui. La termostabilità non rientrava nelle nostre priorità perché non siamo stati sufficientemente lungimiranti da identificare nelle pandemie una circostanza prevedibile in cui i paesi ad alto reddito avrebbero dovuto vaccinare la popolazione a tappeto, e trovarsi quindi a gestire il rischio di non disporre di sufficiente capacità di refrigerazione.

La domanda di vaccini termostabili, sia in medicina veterinaria sia in medicina umana, proveniva principalmente dai paesi a basso e medio reddito. Benché sostenuta dalle organizzazioni internazionali, i paesi ad alto reddito (quelli che finanziano la ricerca scientifica e ove essa si concentra) non l’hanno mai ritenuta una priorità, visto che in Occidente la corrente elettrica continua c’è praticamente ovunque, e fino al 2020 il problema non si era mai posto.

Forse, se avessimo allargato lo sguardo un po’ prima, e un po’ prima ci fossimo resi conto che la salute è un’istanza globale – e che quindi i bisogni espressi da ciascuna popolazione hanno pari valore, indipendentemente dal Pil dei singoli Stati –, l’umanità avrebbe potuto affrontare la pandemia da SARS-CoV-2 più agevolmente. Non è andata così, ragione in più per guardare avanti e ridefinire le priorità strategiche urgenti nello sviluppo dei vaccini, in modo da arrivare, un domani, a poter sfruttare appieno l’efficacia delle campagne di immunizzazione in tutte le circostanze epidemiologiche, geografiche e logistiche.

Per giungere ad avere vaccini realmente universali, poiché slegati dalla catena del freddo, possiamo percorrere diverse strade.

La prima, la più semplice e intuitiva, consiste nel testare ciò che già abbiamo, ovvero i vaccini oggi disponibili: magari sono più resistenti di quanto crediamo, solo che non lo sappiamo. Si dovrebbe eseguire una prova di stabilità a diverse temperature ambiente per uno, tre e sei mesi, quindi effettuare una serie di analisi e test volti ad attestarne sicurezza ed efficacia. Tempo totale necessario: almeno un anno, e gli scienziati sono già al lavoro.

La seconda possibilità che abbiamo è migliorare i vaccini esistenti, arricchendoli con sostanze in grado di stabilizzare il naturale decadimento del potere immunogeno, e di farlo durare di più nel tempo in determinate condizioni. Un po’ come si fa con i prosciutti, che rimangono intatti per mesi e mesi grazie a processi di salatura o affumicatura, il vaccino non verrebbe modificato (non cambieremmo né il prodotto immunizzante né l’eccipiente), ma gli sarebbero semplicemente aggiunte sostanze conservanti naturali o artificiali (ininfluenti rispetto al potere immunogeno). I vaccini così «potenziati» dovrebbero poi affrontare di nuovo il percorso di analisi e test per dar prova di essere sicuri ed efficaci, oltre che protetti dall’esposizione al calore.

La terza possibilità a nostra disposizione è sviluppare una tecnologia completamente nuova. Produciamo vaccini sfruttando reazioni biologiche o biochimiche che necessitano di grandi volumi di liquidi da lavorare rispettando la catena del freddo, un po’ come facevano Pasteur e Jenner. Ma oggi abbiamo conoscenze e soprattutto tecnologie di cui Pasteur e Jenner, ovviamente, non potevano disporre: significa che potremmo pensare di produrre vaccini in modo nuovo, se solo scegliessimo di esplorare con nuovi occhi le scienze pure, la fisica, la scienza dei materiali, le nanotecnologie… Più ci allontaneremo dalla vecchia strada, più potremo trovare spunti originali.

Non è detto, per esempio, che il vaccino debba per forza essere somministrato attraverso una puntura. E se fosse una compressa? Un chip stampato in 3D? Una goccia da mettere negli occhi o uno spray, come si fa da tempo con i volatili? Non sarebbe ancora meglio? Minore invasività, minore rischio di contaminazione, e anche minore paura. Perché no?

Ancora. Nel corso delle mie ricerche sui vaccini per l’influenza pandemica mi è capitato di lavorare alla stesura di un progetto per lo sviluppo di un cerotto vaccinale con dei microaghi, da applicare direttamente sulla pelle. Uno strumento che ha mostrato di funzionare, che era possibile produrre in grandi quantitativi e senza la necessità di mantenere la catena del freddo. Purtroppo, il progetto non è stato finanziato, perché a quel tempo nessuno pensava che l’umanità sarebbe mai rimasta senza sufficiente capacità refrigerante. Non c’è stata lungimiranza, insomma, ma deve essercene adesso.

Il potere che acquisiremmo con una simile tecnologia è molto più vasto di quanto si possa immaginare a un primo sguardo, perché va ben oltre la gestione efficace della pandemia da SARS-CoV-2. Con i microaghi o un collirio, infatti, potremmo facilmente vaccinare tutti gli animali che oggi, nei paesi a basso e medio reddito, non possono essere vaccinati, perché i congelatori in alcuni posti non arrivano e, se anche potessero arrivarci, non avremmo la presa di corrente cui attaccarli. I vaccini termostabili, invece, ci permetterebbero di controllare tante malattie devastanti, di contenere i danni che causano a economie fragili e di evitare periodiche recrudescenze di fame e povertà. E, nel contempo, ci permetterebbero di liberare, nei pochi congelatori disponibili, lo spazio per quei vaccini che, magari, termostabili non potranno diventare. Sarebbe un vantaggio enorme, per tutto il sistema: per gli uomini e gli animali, che sarebbero più in salute; per le piante e per l’ambiente, perché l’impronta di carbonio sarebbe drasticamente ridotta.

Possiamo riuscirci? Sì, certo. Ma dobbiamo cominciare a essere veramente coraggiosi e a pensare out of the box, allontanarci dai sentieri noti, gettare il cuore oltre l’ostacolo e credere che il cambiamento sia possibile.

(© Mondadori 2022)