• Italia
  • Giovedì 17 febbraio 2022

L’arresto da cui cominciò Mani Pulite

Il 17 febbraio 1992 i carabinieri si presentarono nell'ufficio di Mario Chiesa a Milano: nel giro di qualche settimana sarebbe cambiata la politica italiana

Mario Chiesa (Ansa)
Mario Chiesa (Ansa)

Mario Chiesa venne arrestato nel suo ufficio di via Marostica 8, zona ovest di Milano, il 17 febbraio 1992 alle 17.30. Furono il giorno e l’ora esatta in cui fu resa nota l’inchiesta che divenne poi conosciuta come “Mani Pulite”, la più grande indagine giudiziaria sulla corruzione mai svolta in Italia, che arrivò a coinvolgere quasi tutti i partiti che furono accusati di aver messo in piedi un esteso sistema di finanziamenti illeciti e tangenti, coinvolgendo un gran pezzo dell’imprenditoria nazionale. Secondo l’economista Mario Deaglio, la corruzione era arrivata a costare ai cittadini italiani 10mila miliardi di lire all’anno, fino a quadruplicare il costo delle opere pubbliche rispetto agli altri paesi europei.

Mani Pulite fu anche un enorme movimento d’opinione. Il sistema politico cambiò radicalmente, partiti che fino ad allora erano stati dominanti si ritrovarono nel giro di qualche settimana in posizioni marginali, caddero leader potentissimi e alcuni magistrati divennero star osannate e celebrate dalla cosiddetta “società civile” e da parte della politica. Fu uno scontro di poteri, da una parte quello politico e dall’altra la magistratura. Stampa e televisione si schierarono apertamente con i secondi, tranne alcune eccezioni. Se da una parte ci fu chi parlò di una rivoluzione, dall’altra addirittura si accusarono i pubblici ministeri di voler fare un colpo di stato.

A Milano per l’inchiesta Mani Pulite, ci furono 620 patteggiamenti davanti al giudice per le indagini preliminari mentre 635 persone vennero prosciolte. Tra i rinviati a giudizio ci furono 661 condanne e 476 assoluzioni. Ci furono diversi suicidi, ma non è noto con precisione quanti: alcune fonti parlano di 31 persone, altre ancora di 41, ma sono stime discusse.

Tutto iniziò appunto in via Marostica. Lì c’erano, e ci sono ancora oggi, gli uffici di presidenza del Pio Albergo Trivulzio, una casa di cura e di riposo nata nel 1776 dalle disposizioni testamentarie del principe Antonio Tolomeo Gallio Trivulzio. Dal 1900 la sede è in quella che si chiama via Trivulzio, ma che all’epoca era via Baggina, perché portava al quartiere milanese di Baggio. È il motivo per cui da sempre i milanesi chiamano il Pio Albergo Trivulzio «la Baggina». Nei secoli, grazie alle donazioni, il Pio Albergo Trivulzio aveva acquisito un enorme patrimonio immobiliare tra case, locali commerciali e box in città e fuori.

L’ingresso del Pio Albergo Trivulzio (Foto Claudio Furlan – LaPresse)

Era un ente pubblico con un consiglio d’indirizzo di nomina comunale e regionale, e a presiederlo in quel periodo era Mario Chiesa, un ingegnere che dal 1969 faceva politica nel Partito socialista, prima nella sezione di Quarto Oggiaro poi a livello milanese. Era stato funzionario all’ospedale Sacco e dal 1989 era presidente del Trivulzio. Consigliere prima e poi assessore provinciale, era stato legato ai sindaci Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri e poi alla famiglia Craxi. Nel partito aveva conquistato posizioni di rilievo e non nascondeva la sua ambizione a diventare sindaco di Milano, dove in quegli anni il partito socialista prendeva quasi il 20% ed esprimeva i sindaci fin dal dopoguerra.

A livello nazionale a governare era il cosiddetto “CAF”, acronimo di Craxi, Andreotti, Forlani, cioè un patto tra il leader socialista e i due uomini più forti della Democrazia cristiana. Presidente del Consiglio era Giulio Andreotti che guidava un governo costituito da Partito socialista, Democrazia cristiana, Partito socialdemocratico, e Partito liberale. Quello che, prima che uscisse il Partito repubblicano, era noto come “pentapartito”.

Mario Chiesa con il segretario del Partito socialista Bettino Craxi (ANSA ARCHIVIO)

A condurre l’indagine sul Pio Albergo Trivulzio era il pubblico ministero Antonio Di Pietro. Si era già imbattuto nel nome di Mario Chiesa nel giugno del 1990, quando Mario Sciannameo, proprietario di alcune aziende di pompe funebri e amico di Chiesa, aveva querelato il giornalista Nino Leoni del quotidiano Il Giorno, che aveva parlato in vari articoli del «racket del caro estinto» al Pio Albergo Trivulzio. In pratica, secondo gli articoli di Leoni, Sciannameo aveva l’esclusiva dei funerali degli anziani morti al Trivulzio.

Il 13 febbraio 1992 un imprenditore di Monza, Luca Magni, telefonò alla caserma dei carabinieri di via Moscova. Chiese di parlare con qualcuno per denunciare un reato. Andò poi in caserma dove fu accolto dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani, oggi sindaco di Mortegliano, in provincia di Udine. Magni disse di avere un’azienda che si occupava di servizi ospedalieri e che da alcuni anni lavorava per il Pio Albergo Trivulzio, a cui offriva i servizi di pulizia. A ogni lavoro ottenuto doveva però versare una tangente del 10% al presidente Mario Chiesa.

Magni raccontò che le richieste di denaro erano arrivate subito e senza tanti giri di parole: «Mi deve dare il 10%», gli aveva detto Chiesa al loro primo incontro. In meno di due anni, secondo il suo racconto, Magni aveva portato al Trivulzio più di 40 milioni di lire in contanti contenuti in buste bianche. Decise di rivolgersi ai carabinieri perché, disse, il 10% era diventato insostenibile dato che la tangente doveva essere versata subito, mentre a lui i pagamenti giungevano mesi dopo.

Zuliani raccolse la denuncia di Magni e lo accompagnò in procura da Di Pietro, magistrato con cui aveva già lavorato. Di Pietro e Zuliani convinsero Magni a partecipare all’organizzazione di una trappola nei confronti di Chiesa, preparata per il 17 febbraio. Quel giorno Magni entrò nell’ufficio di Chiesa con una penna microfonata infilata nel taschino della giacca e una valigetta la cui maniglia conteneva una microcamera. Nella busta da dare a Chiesa c’erano banconote per 7 milioni di lire, la metà di quanto convenuto per la tangente. Il resto sarebbe stato consegnato in una fase successiva: una ogni dieci di quelle banconote era stata siglata da un lato da Zuliani e dall’altro da Di Pietro. Quando Magni uscì dall’ufficio di Chiesa, entrarono i carabinieri. Il presidente del Pio Albergo Trivulzio chiese di andare in bagno e cercò di buttare nel water 37 milioni di lire in banconote ricevuti poche ore prima come pagamento per un’altra tangente.

Chiesa venne portato a San Vittore. Il giorno dopo i giornali riportarono la notizia senza enfasi. Di Pietro dichiarò: «L’abbiamo beccato con le mani nella marmellata». La federazione milanese del Partito socialista emise un comunicato in cui dichiarò «l’assoluta estraneità sotto ogni profilo ai fatti e agli addebiti mossi dai magistrati nei confronti dell’ingegner Chiesa», che fu subito sospeso dal partito. Pochi giorni dopo Bettino Craxi parlando al Tg3 disse:

«Io mi preoccupo di creare le condizioni perché il paese abbia un governo che affronti momenti difficili che abbiamo davanti e mi ritrovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano in 50 anni, non in cinque, non ha avuto un amministratore condannato per gravi reati commessi contro la pubblica amministrazione».

 

Sembrava che l’inchiesta dovesse finire lì. Ne era convinto lo stesso procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Il Psi, così come gli altri partiti, si preparava alle elezioni politiche del 5 aprile e nei discorsi del lunedì sera al ristorante Matarel, dietro corso Garibaldi, dove Craxi regolarmente riuniva gli amici e i maggiori dirigenti cittadini, il nome di Chiesa sparì presto.

Di Pietro fu fortunato. Il presidente del Trivulzio era nel mezzo di una causa di divorzio piuttosto turbolenta con la moglie, Laura Sala. Motivo del contendere era la cifra degli alimenti: la donna, sapendo quali erano le vere entrate del marito, non si accontentava della percentuale calcolata sullo stipendio da dirigente pubblico. Di Pietro convocò Sala che parlò di vari conti in Svizzera del marito, che furono individuati. Di Pietro scoprì anche due conti in Svizzera che avevano il nome di acque minerali: Fiuggi e Levissima. Intanto, in procura venivano convocati altri imprenditori che avevano avuto appalti dal Trivulzio. Alcuni di loro ammisero di aver pagato tangenti.

Il 23 marzo, dopo aver trascorso 40 giorni in carcere, Chiesa fu convocato per l’ennesimo interrogatorio. Davanti a Di Pietro e al giudice per le indagini preliminari Italo Ghitti iniziò a raccontare il sistema di tangenti del Pio Albergo Trivulzio. Disse che i soldi andavano a lui e ad altri esponenti di spicco del Partito socialista di Milano. Ma parlò anche del coinvolgimento dell’architetto Epifanio Li Calzi, del Pci-Pds, e di Roberto Mongini, della Democrazia Cristiana. Parlò degli ex sindaci Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, di Sergio Moroni, allora assessore socialista alla sanità in Regione Lombardia. Ma soprattutto spiegò che il sistema delle tangenti funzionava anche negli altri ospedali milanesi.

Chiesa fece nomi e cifre, e iniziarono gli arresti. Mentre l’ex presidente del Trivulzio otteneva gli arresti domiciliari, otto imprenditori che avevano vinto appalti proprio grazie alle tangenti date a Chiesa vennero arrestati. Erano coinvolti non solo nelle tangenti al Trivulzio, ma anche nel pagamento illecito per ottenere altri appalti in ospedali e varie opere pubbliche. Tra loro c’era anche Clemente Rovati, titolare della Edilmediolanum che aveva partecipato, con altri imprenditori, alla realizzazione del terzo anello dello stadio di San Siro: il costo preventivato era di 64 miliardi di lire, alla fine ne costò 180.

Il 5 e 6 aprile si svolsero le elezioni politiche e gli effetti dell’inchiesta iniziarono a farsi vedere. La Democrazia cristiana scese al suo minimo storico, 29,6%, perdendo il 4,7% rispetto alle elezioni precedenti; il Psi perse mezzo punto e si fermò al 13,6% ma soprattutto si fermò quella «onda lunga» di cui parlava Bettino Craxi e che aveva fatto crescere il partito fin dal giorno della sua elezione alla segreteria. Il Partito comunista non esisteva più, sciolto nel congresso del gennaio 1991: il Pds, la nuova formazione della sinistra, si fermò al 16,1%, Rifondazione comunista al 5,6%. La Lega Nord di Umberto Bossi, che basava le sue campagne politiche sullo slogan «Roma ladrona», ottenne l’8,6% dei voti sottraendoli soprattutto alla Democrazia cristiana che in Lombardia (-9%), Veneto (-12%) e Piemonte (-7%) fu assai ridimensionata.

 

Nella procura di Milano intanto le cose procedevano velocemente. Alla notizia che sia Chiesa sia alcuni imprenditori stavano parlando con i magistrati, altri chiesero appuntamento per raccontare di aver pagato a loro volta tangenti. L’indagine iniziò ad allargarsi: vennero arrestati Li Calzi e Sergio Soave, vicepresidente della Lega delle cooperative, entrambi del Pds. Il 1° maggio vennero inviati avvisi di garanzia a Tognoli e Pillitteri. L’inchiesta partita dalla tangente pagata da Magni si estese a tutto il sistema degli appalti pubblici. Democrazia cristiana e Partito socialista, ma anche il Partito democratico della sinistra, vennero interessati dagli arresti.

Il Psi milanese viene commissariato, il gruppo dirigente azzerato: l’incarico di commissario fu affidato a Giuliano Amato. Tutti gli arrestati si giustificarono dicendo che le tangenti non le avevano inventate loro, che il sistema era così da sempre. L’inchiesta sulla Metropolitana Milanese svelò il cosiddetto Sistema Milano: per ogni appalto assegnato, come stabilì la sentenza, il 37% della tangente andava al Psi, il 18,75 rispettivamente a Dc e Pci-Pds, il resto ai partiti minori.

Con l’allargamento dell’inchiesta il procuratore Borrelli decise di affiancare a Di Pietro un altro magistrato, Gherardo Colombo. Poi si aggiunse Piercamillo Davigo, nacque così il “pool di Mani Pulite”.

Antonio Di Pietro nel 1992 (Ansa Archivio)

Crebbero anche l’attenzione e il consenso. Iniziarono a comparire le scritte inneggianti a Di Pietro, i giornali e la televisione davano agli avvenimenti una copertura costante – gli arresti si susseguivano ogni giorno – e perlopiù esaltarono l’inchiesta. Il settimanale Europeo regalò adesivi con la scritta “Forza Di Pietro”, TV Sorrisi e Canzoni mise in copertina il titolo “Di Pietro facci sognare”. Filippo Facci raccontò che tra i cronisti che seguivano l’inchiesta al Palazzo di Giustizia, Di Pietro veniva chiamato l’Onnipotente, Padre Pio, Diozanza.

Tutti i direttori dei maggiori quotidiani si schierarono apertamente con i magistrati, e sui quotidiani iniziò a comparire il termine Tangentopoli. L’aveva coniato un cronista di Repubblica, Piero Colaprico, per un’inchiesta di qualche mese prima. L’inchiesta in procura prese invece il nome di Mani Pulite. Il nome nacque nell’ufficio di Di Pietro: sul tavolo c’era una cartellina con la sigla MP, stava per Mike e Papa, i nomi in codice che durante i loro colloqui via radio nel corso dell’arresto di Mario Chiesa si erano dati il capitano Zuliani e Di Pietro. Qualcuno la vide e disse: «MP sta per Mani pulite?».

L’inchiesta uscì da Milano, si allargò in tutta Italia anche se la Lombardia continuava a essere il centro delle indagini. Iniziarono gli avvisi di garanzia ai segretari amministrativi dei partiti: Severino Citaristi, della Democrazia cristiana, ne ricevette più di 70. Prese piede il cosiddetto metodo Di Pietro, che spingeva gli indagati a confessare subito per non finire in carcere. Il 2 luglio 1992 Craxi pronunciò uno storico discorso alla Camera in cui disse, tra l’altro:

«Non so cosa si propongano oggi tutti coloro che mirano al peggio, che alimentano ogni forma di qualunquismo, che utilizzano la politica, l’informazione, lo spettacolo, come mezzi puramente distruttivi. Penso che in un momento così teso e così difficile siano più che mai necessarie una grande consapevolezza ed una grande responsabilità democratica».

 

Il 2 settembre Sergio Moroni, ex assessore socialista alla sanità della Lombardia si sparò nella cantina della casa dove viveva con la moglie e la figlia. Lasciò alcune lettere tra cui una all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano:

«Egregio Signor Presidente, ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi considerazioni prima di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita. È indubbio che stiamo vivendo mesi che segneranno un cambiamento radicale sul modo di essere nel nostro paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono l’espressione. Al centro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure, non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle “decimazioni” in uso presso alcuni eserciti, e per alcuni versi mi pare di ritrovarvi dei collegamenti. Né mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la “pulizia”. Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C’è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste regole».

L’inchiesta andò avanti. Il 15 dicembre venne consegnato l’avviso di garanzia più atteso, quello all’uomo che in gergo nel Palazzo di Giustizia a Milano era chiamato «il cinghialone»: Bettino Craxi.

Chiesa fu condannato a cinque anni e quattro mesi di carcere. In prigione trascorse 45 giorni, poi passò sette mesi agli arresti domiciliari e infine ebbe l’affidamento ai servizi sociali. Si avvicinò, scontata la pena, alla Compagnia delle Opere, associazione imprenditoriale legata a Comunione e liberazione. Il 31 marzo 2009 fu nuovamente arrestato con l’accusa di essere stato il collettore delle tangenti nella gestione di un traffico di rifiuti in Lombardia.

Il 15 giugno 2007, la valigetta che conteneva i 7 milioni consegnati da Magni a Chiesa il 17 febbraio 1992 fu venduta nel corso di un’asta benefica chiamata Asta della legalità sulla spiaggia di Senigallia per 5mila euro. I soldi andarono all’associazione Libera di don Luigi Ciotti.