Perché il giornalismo fa fatica a raccontare la scienza

La tendenza a ridurre l'incertezza e la complessità, a fare previsioni e a individuare un inizio e una fine è incompatibile con la descrizione di processi che seguono logiche diverse

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Un fotogramma del film del 1979 “Sindrome cinese”
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A dicembre la diffusione della variante omicron in molti paesi del mondo e un significativo aumento dei contagi hanno ampliato i margini di incertezza riguardo all’evoluzione della pandemia e alla previsione di quando diventerà un argomento meno centrale nelle cronache del tempo che stiamo vivendo. Come accaduto in altre circostanze negli ultimi due anni, l’incertezza è diventata motivo di un’estesa e per molti versi comprensibile frustrazione, a sua volta legata a un condiviso scoramento per i condizionamenti esercitati dalla pandemia, in gradi e forme differenti, sulle vite di tutte le persone.

Ad accrescere il senso di frustrazione collettiva ha in parte contribuito la sostanziale impossibilità di accelerare i tempi di riduzione di quei margini di incertezza, percepita dalla gran parte dei media e dell’informazione generale come un ostacolo da superare il più velocemente possibile. La tendenza è di cercare di escluderla – più o meno gradualmente – dalle descrizioni accurate degli eventi, nel tentativo di renderle più chiare e comprensibili. È una tendenza che in una certa misura ha a che fare con gli obiettivi stessi dell’informazione e con l’ambizione di spiegare le cose, ma che per altri versi trova una sua espressione in alcune forme di giornalismo che prediligono alle descrizioni la dimensione del racconto, e che fanno delle narrazioni uno dei principali strumenti di riduzione e addomesticamento della complessità.

In un passaggio di un articolo di fine anno in cui cerca di trarre insegnamento dalla rilettura dei suoi editoriali sul Washington Post, la giornalista conservatrice Kathleen Parker, peraltro premio Pulitzer nel 2010 come migliore editorialista, riferendosi a un suo pezzo sulla pandemia ha scritto:

A maggio parlai troppo presto, in un editoriale che celebrava un abbraccio a lungo rimandato con amici e amiche, e in cui dichiarai la fine dell’uso della mascherina. Difficilmente potrei essere biasimata, ma come apprendemmo in seguito, il virus – lungi dall’essere sotto controllo – è una creatura selvaggia con una scoraggiante facilità di travestimento. Nessuno rimase ferito dalla mia gioia, ma ripensandoci a posteriori lo scetticismo dovrebbe essere un ospite fisso a qualsiasi festa del giornalismo.

Il tentativo di ridurre l’incertezza attraverso schemi e modelli narrativi, raccontando storie che abbiano un inizio, uno sviluppo e una fine, e magari dei personaggi e dei colpevoli, può generare problemi più evidenti quando un certo grado di incertezza e l’assenza di processi con un finale già noto sono elementi costitutivi della parte di mondo che il giornalismo cerca di spiegare. Eventualità abbastanza frequente nel caso del giornalismo scientifico.

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Il 30 dicembre scorso il giornalista americano Jeff Jarvis, rispettato e seguito studioso dei cambiamenti dell’informazione e della comunicazione digitale, ha espresso una critica – molto ripresa e commentata – verso i modi in cui il giornalismo tende a trattare le questioni scientifiche.

Il giornalismo non ha idea di come trattare la scienza come processo. I giornalisti vogliono risposte definitive, mentre la scienza controlla e ricontrolla costantemente le proprie domande, arrivando a più domande. Quindi i giornalisti distorcono la percezione pubblica della scienza, rendendo un pessimo servizio.

Jarvis, che già da molto tempo prima della pandemia si era occupato della deriva dello storytelling nel giornalismo, sostiene che la tentazione di raccontare storie con un inizio e una fine sia un approccio poco adatto alla descrizione delle questioni di cui si occupa la scienza, che è «un processo privo delle conclusioni ordinate che il giornalismo desidera». Un approccio preferibile, prosegue, potrebbe piuttosto essere quello più interessato a fornire strumenti e istruzioni utili a comprendere i nuovi risultati che di volta in volta emergono nel processo della scienza, un approccio consapevole che «il mondo sia meno spiegabile di quanto vorremmo ammettere».

All’inizio della pandemia, anche il gruppo del sito Slate che cura la sezione “Future Tense” – dedicata a politiche pubbliche, società e tecnologie emergenti, in collaborazione con l’Università statale dell’Arizona – si interrogò riguardo al migliore approccio al problema della comunicazione della scienza durante una crisi mondiale, chiedendosi se concentrare l’attenzione del pubblico sull’accuratezza delle informazioni, qualità estesamente invocata nel dibattito e condizione di ogni buona comunicazione scientifica, fosse effettivamente una mossa opportuna o piuttosto controproducente.

Limitarsi a rispettare l’obbligo di essere precisi, secondo Slate, «oscura la realtà che l’accuratezza è una nozione inconsistente durante una crisi come questa, in cui regna l’incertezza». In casi del genere, proseguiva, è molto alto il rischio che una scienza considerata inizialmente corretta si riveli successivamente errata o incompleta, deludendo le aspettative di quella parte di pubblico non sufficientemente attrezzata a tracciare una chiara linea di separazione tra la disinformazione e i normali processi della scienza. E attenersi all’accuratezza diventa quindi un’indicazione insufficiente, dal momento che i problemi di comunicazione che complicano la proliferazione di informazioni generata dall’esigenza di avere più notizie sul coronavirus – la cosiddetta “infodemia” – «sono molto più ampi della semplice esistenza di falsità».

Del giornalismo scientifico e di alcune tendenze che rischiano di ridurne la credibilità ha scritto recentemente Cameron English, scrittore e giornalista scientifico americano che lavora per l’American Council on Science and Health, un’organizzazione che si occupa di diffondere le conoscenze scientifiche nelle politiche pubbliche relative a questioni come la salute e l’ambiente. Secondo English, uno dei limiti del giornalismo – comune anche alle piattaforme di Internet – è di trattare questioni scientifiche nel quadro di un’agenda più ampia, condizionata da valutazioni di altro tipo.

Gli esempi sono numerosi, sostiene English, che per farsi capire cita la pubblicazione sul Washington Post di un articolo contro gli erbicidi a base di glifosato scritto ad aprile scorso da una criticata ricercatrice del Massachusetts Institute of Technology (MIT), i cui interventi controversi sono spesso stati rilanciati dal Children’s Health Defense, gruppo americano di attivisti presieduto da Robert F. Kennedy Jr. e noto principalmente per le attività di disinformazione sui vaccini.

Appena due mesi prima, ricorda English, il Washington Post aveva pubblicato un’articolata confutazione di una serie di affermazioni false di Robert F. Kennedy Jr. sui vaccini. E questo può generare qualche contraddizione: «i media non possono attaccare in modo credibile lo scetticismo sui vaccini mentre fanno da piattaforma agli attivisti contro i vaccini», scrive English.

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Un’altra tendenza emersa negli ultimi due anni in un certo giornalismo su questioni scientifiche è stata quella di riportare conclusioni e descriverle come incontrovertibili in un contesto in cui non erano invece ancora disponibili tutti i dati. Uno degli esempi più noti, secondo English, è quello dell’ipotesi dell’origine del coronavirus in laboratorio, e non in seguito a un passaggio diretto da qualche specie animale agli esseri umani. Inizialmente scartata e ritenuta una teoria del complotto basata su pregiudizi razziali, l’ipotesi era riemersa a maggio 2021 e se ne era tornato a discutere apertamente sui media e sui social a seguito dell’ordine rivolto da Joe Biden alle agenzie di intelligence di indagare più a fondo e con maggiore impegno sulle origini del coronavirus.

Non è ancora chiaro quale sia stata l’origine del coronavirus, ed è improbabile che nel breve termine possano emergere nuovi elementi utili a fornire risposte a questa domanda. Ma resta il fatto che l’ipotesi del laboratorio fu rilanciata in assenza di prove da una parte del giornalismo, e invece rivalutata a mesi di distanza da un’altra parte dei media che inizialmente l’avevano sminuita. «Peggio ancora: i giornalisti hanno permesso chiaramente alla politica del governo di dettare i confini di accettabilità delle opinioni», aggiunge English.

C’è poi nel giornalismo scientifico un problema che riguarda in generale la costruzione di false dicotomie nei dibattiti e la mancanza di sfumature nella descrizione delle cose, dei fenomeni e dei processi, un difetto in parte connesso ai limiti metodologici dell’approccio “narrativo” indicati da Jarvis. «In linea con la nostra cultura politicizzata, ai media piace riconoscere gli individui e le organizzazioni come eroi o come cattivi, le sostanze chimiche come pericolose o sicure, determinati punti di vista come buoni o cattivi», afferma English. Ed è, secondo lui, un approccio che non riconosce l’incertezza che dovrebbe invece essere alla base della comunicazione scientifica.

Nel caso dell’uso della mascherina per ridurre i contagi, scrive English per fare un altro esempio, una parte consistente del giornalismo si concentrò sulle numerose prove a sostegno dell’efficacia delle mascherine come strumento di prevenzione, soprattutto in alcuni contesti (per esempio, nelle strutture sanitarie). Ma per sostenere con più vigore la sensatezza e la necessità di renderne l’uso obbligatorio in qualsiasi contesto pubblico, molte semplificazioni giornalistiche diedero scarso conto dei limiti delle mascherine in particolari condizioni, trascurando gli esperti che avevano opinioni meno nette e più sfumate al riguardo, e lasciando che gli spazi di incertezza riguardo alle mascherine venissero esclusivamente occupati da politici giudicati «contrari alla scienza».

Opinioni nette e prive di sfumature, fa notare English, sono comuni anche tra molte persone contrarie ai vaccini. Nel 2009, l’azienda farmaceutica Pfizer ricevette una multa da 2,3 miliardi di dollari per pratiche di marketing fraudolento, un fatto utilizzato da diversi no vax come argomento a sostegno delle loro attuali diffidenze.

In nessuno dei due esempi la certezza è giustificata. Sottolineare i limiti delle mascherine non ti rende “contrario alla scienza”, né il vaccino prodotto da Pfizer è pericoloso a causa delle macchie nel passato dell’azienda. Tutti i dispositivi medico-sanitari hanno dei limiti, incluse le mascherine. Le aziende farmaceutiche possono sviluppare farmaci salvavita e talvolta impegnarsi in pratiche commerciali torbide. Il pubblico sarebbe servito meglio da media in grado di tollerare quel tipo di sfumatura.

L’effetto più problematico di questo tipo di approccio non in grado di restituire la complessità delle cose, secondo English, è quello di distorcere non soltanto le questioni specifiche affrontate di volta in volta ma soprattutto i processi della scienza in generale. «Se vogliamo una popolazione scientificamente istruita, che ponga costantemente le proprie convinzioni al vaglio dei fatti, noi giornalisti scientifici dobbiamo mettere in pratica ciò che predichiamo», conclude English.

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Anche lo scienziato e blogger statunitense Scott Alexander, in una pubblicazione recente della sua popolare newsletter Astral Codex Ten, si è occupato dei rapporti tra il giornalismo e la scienza, e in particolare della problematicità di alcune espressioni linguistiche il cui senso in ambito accademico è noto e condiviso, ma che si prestano a letture equivoche nella pratica giornalistica. Da questo punto di vista, “non c’è alcuna prova” (in inglese: there is no evidence) è considerata da Alexander una delle espressioni più insidiose nella comunicazione della scienza.

Diversi titoli giornalistici che fanno uso di questa espressione sono spesso virgolettati, cioè parole attribuite a persone specifiche. Negli ultimi due anni è capitato con una certa frequenza che quelle persone fossero autorità sanitarie o persone titolate a parlare della pandemia, le quali in mancanza di dati sufficienti e studi consolidati si limitavano a descrivere lo stato delle conoscenze dicendo, in buona fede: «non ci sono prove».

Pur essendo formalmente corretti nella gran parte delle circostanze, sono titoli che ammettono interpretazioni anche molto differenti, a seconda dei casi. Che non ci siano prove di una certa cosa viene spesso inteso giornalisticamente come una prova di assenza, che però è un significato molto diverso da quello inteso prudentemente con l’espressione “non ci sono prove” quando, per esempio, le conoscenze non sono ancora supportate da studi ma soltanto da intuizioni o aneddotica (che non sono considerate prove scientifiche).

Nella pratica, spiega Alexander, la frase “non ci sono prove” finisce per essere ugualmente appropriata, e quindi poco utile, in casi diversissimi tra loro e anche opposti: sia quando una cosa è plausibile ma ancora non verificata, sia quando è plausibilmente falsa. All’inizio della pandemia non esistevano studi che dimostrassero la trasmissione del coronavirus per via aerea, per esempio, ed era quindi corretto sostenere che non ci fossero prove.

Allo stesso modo è corretto dire, per esempio, che non ci siano prove a sostegno dell’ipotesi che i vaccini provochino aborti spontanei. Ma in questo seconda occorrenza, a differenza del caso della trasmissione del virus per via aerea, l’espressione è utilizzata per indicare un certo grado elevato di fiducia nel fatto che l’ipotesi sia falsa.

Immagina di essere un tizio qualsiasi. Leggi il titolo “nessuna prova di trasmissione del coronavirus tra esseri umani”, e poi un mese dopo si scopre che questa modalità di trasmissione è comune. Leggi “nessuna prova che colleghi la COVID ai ristoranti al coperto”, e un mese dopo i governi chiudono i ristoranti al coperto a causa dei contagi che provocano. Leggi “nessuna prova concreta che la nuova variante sia più trasmissibile”, e un mese dopo è tutto in modalità panico perché, alla fine, la variante era più trasmissibile. E a quel punto leggi “nessuna prova che 45 mila persone siano morte per complicazioni legate al vaccino”. Non suona tanto rassicurante, no?

L’ambiguità dell’espressione “non ci sono prove” rimanda, in una certa misura, a un’incompatibilità di fondo tra il piano scientifico e quello della cronaca di tutti i giorni. Nella scienza tradizionale, scrive Alexander, in genere si comincia da un’“ipotesi nulla” (o ipotesi zero, null hypothesis), definita come un’ipotesi di relazione tra due fenomeni o due gruppi, ipotesi probabilmente falsa ma la cui probabilità di essere vera può essere calcolata mediante esperimenti statistici. Rispetto alla domanda “le dimensioni di un paese influiscono sulla densità della sua popolazione?“, per esempio, l’ipotesi nulla è “tutti i paesi hanno la stessa densità di popolazione”.

Nello studio del fenomeno si procede quindi verificando l’ipotesi nulla: in caso di risultati sorprendenti, l’ipotesi nulla viene accantonata, concludendo che c’è in effetti un’ipotesi alternativa degna di interesse. Diversamente, non ci sono prove di niente, appunto, e l’ipotesi nulla rimane.

Il punto è che nella vita reale non esiste niente di simile a una condizione in cui sia presente “nessuna prova” (l’ipotesi nulla), afferma Alexander, ed è infatti impossibile attribuire a questa espressione un senso coerente. Per esempio: che senso avrebbe dire che non c’è «“alcuna prova” che l’uso del paracadute aiuti a prevenire lesioni se si salta giù da un aereo?», si chiede Alexander citando un articolo pubblicato nel 2003 sul British Medical Journal.

Se per “prove” intendiamo “articoli di riviste sottoposte a revisione paritaria”, effettivamente no, non c’erano precedenti studi che dimostrassero l’efficacia dei paracadute, a quanto ne sapevano gli autori dello studio del 2003. Ma è chiaro che una frase del tipo “non ci sono prove che l’uso del paracadute aiuti a prevenire lesioni” suonerebbe quantomeno bizzarra. Non se ne esce neppure se si estende il significato di prove a quello di prove informali, tralasciando l’assenza di articoli scientifici, scrive Alexander.

Centinaia di persone che affermano di essere state rapite dagli alieni, per esempio, non bastano a rendere inesatta l’espressione “non ci sono prove del rapimento di persone da parte degli alieni”. Ed è così perché le affermazioni di quelle persone non sono considerate una prova allo stesso modo di come lo sarebbero le affermazioni di 100 persone che affermassero di essere state pugnalate da un tale di nome Bob. In questo caso, anche a voler pensare che si tratti di 100 testimoni bugiardi, non diremmo di certo che l’accusa contro Bob non ha “alcuna prova”.

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Secondo Alexander, le complicazioni legate all’uso dell’espressione “nessuna prova” derivano dal fatto che la nozione popolare di questo concetto non riflette il modo in cui funziona normalmente la ricerca della verità nella vita di tutti i giorni, ricerca che procede per aggiornamento di modelli probabilistici del mondo sulla base di nuovi input.

Nella vita di tutti i giorni, in seguito alla raccolta di prove abbastanza convincenti, il modello viene aggiornato. E non è escluso che si possa anche finire in un punto molto distante da quello di partenza, sostiene Alexander: come quando qualcosa di molto poco plausibile si dimostra vero, o viceversa come quando un «dogma» per lungo tempo sostenuto incondizionatamente si dimostra falso. Ma una volta compreso questo processo, «non ha più senso usare “nessuna prova” come sinonimo di “falso”», nonostante sia una consuetudine così profondamente radicata nel giornalismo scientifico.

Nei casi in cui si presenti la necessità di utilizzare l’espressione “non ci sono prove” – tipicamente, in mancanza di convinzioni forti e di studi riguardo a una determinata ipotesi, che sia per qualche motivo diventata degna di attenzioni nella cronaca – il suggerimento di Alexander a chi si occupa di comunicazione della scienza è di esplicitare che l’assenza di prove riguarda non soltanto una determinata ipotesi ma anche altre ipotesi in generale sullo stesso fenomeno. E quindi di non limitarsi a dire, per usare il suo esempio, che «non ci sono prove che l’olio di serpente funzioni». Se poi si tratta di un caso in cui i migliori medici e scienziati del mondo concordano, allora è meglio evitare «false oggettività» e preferire un titolo chiaro del tipo “Gli scienziati: l’olio di serpente non funziona”.

Il modo più virtuoso di gestire l’incertezza, conclude Alexander, resta comunque quello di andare più a fondo nelle questioni che emergono di volta in volta nel dibattito. «Se vale la pena fare un pezzo sul perché non ci siano prove di qualcosa, probabilmente è perché alcune persone credono che le prove ci siano», e allora è il caso di chiedersi quali siano quelle prove ed eventualmente perché sia sbagliato crederci.

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