La Commissione Europea ha ritirato il suo documento sul linguaggio inclusivo

Secondo i giornali di destra conteneva divieti del Natale e negazioni delle radici cristiane dell'Europa: in realtà era assai innocuo

La Commissione Europea ha ritirato un documento interno sul linguaggio inclusivo che negli ultimi giorni era stato al centro di una polemica innescata da alcuni giornali italiani. Martedì mattina la commissaria all’Uguaglianza, Helena Dalli, ha fatto sapere che il documento «non è maturo e non raggiunge gli standard qualitativi della Commissione europea», e perciò ha bisogno di «maggiore lavoro».

Negli articoli in cui si raccontava il documento si parlava in modo piuttosto scandalizzato e caricaturale di «cancellazione del Natale» o di vari altri e presunti «divieti»: si evocavano bavagli, censure, cancel culture ed eccessi del cosiddetto politicamente corretto. Alcuni commentatori hanno rilevato un possibile eccesso di zelo nel documento interno, che non equivaleva a una direttiva e non era vincolante per gli stati nazionali, ma molti altri lo avevano interpretato pretestuosamente per attaccarne presupposti e presunti obiettivi.

Il documento non era segreto: era uscito a fine ottobre con una licenza Creative Commons, e benché non fosse disponibile sul sito della Commissione poteva essere distribuito online e riprodotto da chiunque lo avesse ottenuto. Il testo elencava una serie di linee guida in cui si consigliava ai funzionari della Commissione l’uso di un linguaggio inclusivo, cioè non discriminatorio, nei documenti ufficiali della stessa Commissione. Era una guida ad uso interno, insomma, come negli ultimi anni ne sono state compilate altre da amministrazioni comunali, ministeri, università, associazioni di giornalisti o ordini dei giornalisti e nel 2018 dal Consiglio dell’Unione Europea.

Il documento della Commissione si intitolava «Linee guida della Commissione europea per la comunicazione inclusiva – #UnionOfEquality» ed era stato diffuso dall’ufficio di Dalli. Era composto da 32 pagine e suddiviso in vari capitoli.

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Nell’introduzione diceva che tutte le persone hanno diritto a essere «trattate allo stesso modo», e quindi a essere «incluse e rappresentate» nel discorso pubblico indipendentemente da genere, origine etnica, religione o credo, disabilità, età o orientamento sessuale. Si diceva che le parole e le immagini che si usano quotidianamente nella comunicazione trasmettono «messaggi su chi siamo e su chi non siamo», rivelano i nostri pregiudizi e «possono perpetuare pregiudizi negativi e stereotipi». Si spiegava, poi, che l’uso di un linguaggio non inclusivo «può legittimare o persino incoraggiare l’emarginazione e la discriminazione». Stereotipi e pregiudizi «influenzano» infatti «i comportamenti individuali e collettivi» che possono a loro volta causare «danni permanenti».

A partire da queste premesse, nel documento si affermava che è importante «non lasciare indietro nessuno» e utilizzare una comunicazione inclusiva che rifletta a sua volta i «valori fondamentali» dell’Unione Europea «di uguaglianza e non discriminazione». In quanto ente pubblico «dobbiamo dare l’esempio», si diceva, e si spiegava che l’obiettivo della guida era «condividere degli standard per la comunicazione inclusiva, fornendo esempi pratici e consigli a tutti i Colleghi della Commissione».

Si precisava anche che queste raccomandazioni «possono essere utili per produrre qualsiasi tipo di materiale» interno come comunicati stampa, schede informative e infografiche, post e immagini sui social network, e così via.

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Dopo aver spiegato che la lingua cambia, che si modifica nel tempo attraverso le culture e le generazioni e che le lingue riflettono sempre i cambiamenti sociali e i rapporti di forza della loro epoca, venivano date alcune indicazioni principali. Tra queste: «non organizzare convegni con un solo genere rappresentato»; quando «si chiede il genere» di una persona «non offrire solo le opzioni maschile-femminile» ma aggiungere anche «altro» o «preferisce non dirlo»; preferire a “signore e signori” espressioni più neutre come «dear colleagues», “cari colleghi”, che in inglese non ha genere; non utilizzare “Miss o Mrs” a meno che non sia la preferenza esplicita della persona a cui si scrive, ma usare il neutro “Ms”; «non dare per scontato l’orientamento sessuale di nessuno»; «quando ci si rivolge a persone trans, rispettare sempre l’autoidentificazione» e cioè il genere scelto e deciso dalla persona stessa; non parlare di «anziani», ma di «persone anziane», e quando si parla di persone con disabilità è preferibile dire «John Doe ha una disabilità» e non «John Doe è disabile»; non usare termini con una connotazione negativa come «soffre di HIV» o «soffre di autismo», ma usare espressioni come «persona con HIV o con autismo».

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Si tratta in gran parte di regole piuttosto semplici, niente affatto innovative e per ciascuna delle quali ci sono ragioni ben precise. Dire «John Doe è disabile», ad esempio, identifica completamente John Doe con la propria disabilità. Usare formule neutre permette l’inclusione di chi non si riconosce nel binarismo di genere, così come usare il pronome scelto evita che la persona a cui ci si riferisce non si senta riconosciuta e si senta anzi confinata in un’identità che non le appartiene. E nei capitoli che seguono l’introduzione ci sono spiegazioni e approfondimenti su alcuni temi specifici che riguardano, appunto, il genere, le persone LGBT+, la disabilità o l’età.

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Il caso più eclatante che in questi giorni aveva fornito lo spunto per molti titoli di giornale in cui si diceva che sarà vietato parlare di Natale si trova nel capitolo «Culture, stili di vita o credenze». Qui il consiglio è di non «dare per scontato che tutti siano cristiani perché tutti celebrano le feste cristiane, e non tutti i cristiani le celebrano nelle stesse date» (il Natale e quasi sempre anche la Pasqua cadono in date diverse per la religione ortodossa e per quella cattolica).

L’invito era quindi quello di mostrarsi «sensibili al fatto che le persone hanno diverse tradizioni religiose e calendari». E si faceva un esempio: invece di parlare di «periodo natalizio» meglio usare l’espressione «periodo di festività». E quando si scelgono dei nomi propri per fare degli esempi, si suggeriva di non usare solo nomi di origine cristiana, come «Maria e Giovanni».

Nel documento, dunque, non si vietava di parlare del Natale o di usare i nomi Maria e Giovanni: si diceva semplicemente che non c’è una sola religione e che quando si scrive o si parla sarebbe meglio non darlo per scontato.

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Dopo le numerose critiche rivolte da giornali e politici di destra al documento, martedì mattina un portavoce della Commissione aveva precisato al Financial Times che l’obiettivo generale delle linee guida era quello di «aumentare la consapevolezza sull’essere inclusivi nella comunicazione», ma che in alcuni casi avrebbero potuto scegliere degli esempi migliori. Nel corso della mattinata poi è arrivata la decisione di Dalli.