La prima critica d’arte italiana

Margherita Sarfatti fu socialista, intellettuale, scrittrice e amante di Mussolini, e morì sessant'anni fa

di Mario Macchioni

(LaPresse/Matteo Corner)
(LaPresse/Matteo Corner)

Nell’inverno del 1960, Margherita Sarfatti passò un intero pomeriggio a parlare con uno dei più importanti storici del fascismo, Renzo De Felice. All’epoca Sarfatti aveva ottantuno anni, passava il tempo tra Roma e il Soldo, la sua villa di campagna nel comasco, e la celebrità che aveva ottenuto come critica d’arte e scrittrice cominciava a scemare. Nel suo libro Intervista sul fascismo, De Felice ricorda così l’incontro con Sarfatti:

«Da questa conversazione, attualmente, documentariamente, non ho cavato nulla. Mi è servita moltissimo, invece, per capire questa donna, per capire […] il tipo di influenza che deve aver avuto per alcuni anni. Dopo quella conversazione mi sono chiesto, per esempio, quanto del mito della romanità fosse farina del sacco di Mussolini, e non invece piuttosto frutto dell’influenza della Sarfatti. Perché non ho mai conosciuto in vita mia una persona malata come lei di romanità».

Il colloquio con De Felice avvenne all’Hotel Ambasciatori di via Veneto, a Roma. Passato l’inverno, Sarfatti tornò al Soldo, provata dalla vecchiaia e depressa per la morte del suo nipote preferito, che si era ucciso nel maggio del 1960. La notte tra il 29 e il 30 ottobre 1961, sessant’anni fa, morì anche lei, nel sonno.

Durante la sua lunga vita, Sarfatti fu assai influente in molti ambiti. Non ebbe soltanto un ruolo primario nel formulare l’immaginario fascista, come notava De Felice, ma fu di fatto la prima critica d’arte italiana in senso moderno e anche una delle prime in Europa. Attorno a lei si formò un importantissimo gruppo di artisti del Novecento italiano, un movimento di avanguardia di cui facevano parte, tra gli altri, Mario Sironi, Achille Funi, Anselmo Bucci ed Emilio Malerba. E in realtà l’influenza di Sarfatti andò anche oltre al movimento del Novecento, poiché il suo lavoro intellettuale e culturale era cominciato ancora prima.

Il cognome da nubile di Sarfatti era Grassini, una famiglia veneziana ed ebrea molto ricca, imparentata a sua volta con altre famiglie ebraiche di un certo prestigio. Suo cugino era lo scienziato Giuseppe Levi, mentore di Rita Levi-Montalcini e padre di Natalia Ginzburg. Sarfatti passò l’infanzia, negli anni ottanta dell’Ottocento, a Palazzo Bembo, affacciato sul Canal Grande (la sua famiglia disponeva di una gondola privata). A diciassette anni si sposò con l’avvocato Cesare Sarfatti, anche lui di una ricca e antica famiglia ebrea.

Margherita Sarfatti (Wikimedia Commons)

Grazie al marito, Sarfatti si avvicinò al socialismo, di cui però in seguito sarebbe stata un’esponente non ortodossa, con forti tendenze individualiste e nazionaliste che le fecero apprezzare il futurismo prima e il fascismo poi. Pochi anni dopo il matrimonio, l’ambizione e la voglia di approfondire le proprie conoscenze spinsero i due a trasferirsi a Milano, dove già all’inizio del Novecento c’era un ambiente più dinamico e attraente rispetto a Venezia.

Come ha raccontato la storica dell’arte Rachele Ferrario, autrice di una lunga biografia su Sarfatti, Milano in quegli anni era una città per certi aspetti simile a oggi. Si trovava nel pieno di un impetuoso sviluppo industriale, molte parti della città – come per esempio piazza Cordusio e la Galleria Vittorio Emanuele II – erano state costruite da pochi anni e c’erano cantieri ovunque.

«Quella in cui arriva Margherita è la Milano che tra poco sarà narrata dai futuristi con parole e colori», scrive Ferrario. «La sola che possa ricordare Parigi […]. È la Milano dell’Isotta Fraschini, l’automobile che nel Manifesto di Marinetti impersona la nuova “poesia”; della Breda con i suoi 14.000 operai, dei tram elettrici della Edison, dell’editoria e della stampa, delle banche, dell’architettura liberty, dell’università Bocconi, appena fondata, delle scuole per i figli delle famiglie arrivate dalle campagne».

In questo contesto, Sarfatti si trasferì al numero 93 di Corso Venezia e iniziò a organizzare, ogni mercoledì sera, un circolo culturale che nel giro di pochi anni diventò uno dei più esclusivi e importanti della città: oltre ai futuri componenti del Novecento italiano, erano ospiti frequenti anche gente come Umberto Boccioni, Filippo Tommaso Marinetti, Ada Negri, Adolfo Wildt, Arturo Martini, Carlo Carrà ed Enrico Prampolini. Ma anche importanti collezionisti e proprietari di gallerie.

All’inizio della sua permanenza a Milano, Sarfatti cercò anche di stabilire contatti con Anna Kuliscioff, la rivoluzionaria di origine russa che in quel periodo era a sua volta un importante riferimento culturale in città. Formalmente, Sarfatti e Kuliscioff avevano un’idea di politica e di società comune, tuttavia i rapporti tra loro rimasero sempre piuttosto distanti e superficiali, quando non ostili, per via di divergenze caratteriali e perché, nella sostanza, interpretavano le istanze socialiste e femministe in modo radicalmente diverso.

Sarfatti dedicava maggiori attenzioni ai notabili del partito socialista piuttosto che ai lavoratori e alle lavoratrici, e non pensava che fosse inopportuno ostentare la propria ricchezza anche durante gli incontri di partito. Inoltre, era giudicato negativamente il legame che la famiglia di Sarfatti aveva con papa Pio X (ex patriarca di Venezia ed esponente di un’ala del cattolicesimo fortemente reazionaria). In una lettera indirizzata al fondatore del partito Filippo Turati, Kuliscioff una volta scrisse:

«In una discussione, in seguito a una seduta del gruppo, mi risentii, è vero, per il suo contegno indecente di rentière [persona che vive di rendita, ndr] di 40.000 lire all’anno, incapace di fare un minimo sacrificio, non dico di soldi, che sarebbe più forte di lei data l’avarizia, ma almeno dei suoi perditempi».

L’insofferenza nei confronti dell’ambiente socialista vicino a Turati spinse Sarfatti a cercare contatti con Benito Mussolini quando lui diventò direttore dell’Avanti!, il giornale socialista, nel 1912. Sarfatti si presentò un giorno da Mussolini per iniziare una collaborazione, chiedendo di essere pagata trenta lire ad articolo (lui avrebbe voluto farla scrivere gratis). Dopodiché, non è chiaro esattamente quando, tra i due iniziò una relazione piuttosto turbolenta, che andò avanti a lungo, ben oltre il superamento del socialismo e la fondazione dei fasci di combattimento da parte di Mussolini, a Milano, nel 1919.

Sarfatti viene spesso ricordata per il suo legame con Mussolini e per essere stata l’autrice di un libro propagandistico su di lui di enorme successo, Dux, uscito nel 1925 e tradotto in diverse lingue. Ma il suo contributo nel costruire l’estetica fascista, attraverso il riconoscimento del potenziale politico insito nell’arte, fu in realtà più profondo e rilevante.

“Dux“ di Adolfo Wildt, 1923 (Wikimedia Commons)

Lo ha spiegato Anna Maria Montaldo, la direttrice del Museo del Novecento di Milano, che nel 2018 dedicò a Sarfatti una mostra molto incentrata sul legame tra arte, politica e propaganda. Montaldo, parlando degli artisti scoperti da Sarfatti e delle mostre che curò, cita la sua «straordinaria capacità di costruire l’apparato culturale di una piattaforma politica, con la consapevolezza che la cultura e l’arte sono, come la politica, il prodotto di un processo storico».

Con il passare degli anni e con il consolidamento del regime, la rilevanza dell’arte nella costruzione di questa «piattaforma politica» diminuì. Sarfatti e Mussolini cominciarono a frequentarsi sempre di meno fino ad arrivare all’allontanamento definitivo negli anni Trenta, con l’approvazione delle leggi razziali, a seguito delle quali Sarfatti fu costretta a emigrare in Sud America, prima in Uruguay, dove viveva il figlio Amedeo, e poi in Argentina, a Buenos Aires.

Tornò in Italia solo nel 1947. Negli anni in cui rimase in Sud America, comunque, continuò a interessarsi all’arte e a scrivere per giornali e riviste locali. A un certo punto attirò anche l’attenzione della stampa, quando si diffuse la notizie che una delle amanti di Mussolini si trovava a Montevideo. In quell’occasione diede un’intervista a un settimanale locale in cui disse: «Non sono né esiliata, né rifugiata, sono qui per trovare mio figlio. Sono curiosa di paesi nuovi e voglio studiare l’arte precolombiana. Qui vogliamo essere felici, vivere, vivere. La povera Europa non sa più trovare la felicità».

Negli ultimi anni, invece, evitò le attenzioni dei giornalisti, che ancora negli anni Cinquanta la cercavano con frequenza. In quel periodo parlava raramente anche del suo passato. De Felice, in un’intervista al Corriere della Sera del 1993, raccontò che «di Mussolini non parlava quasi mai negli ultimi anni della sua vita» e che una volta gli disse: «“Anche Augusto, dopo la morte di Livia, si avviò a diventare un Tiberio”. Il significato autobiografico era trasparente. Lei si identificava in Livia. Come dire: finché lui è rimasto con me, io sapevo tenerlo sulla retta via».