Ripescare la plastica dagli oceani è davvero una buona idea?

Forse no, dice chi critica l'ambizioso progetto dell'organizzazione Ocean Cleanup, per diverse ragioni

(The Ocean Cleanup)
(The Ocean Cleanup)
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Sulla superficie degli oceani ci sono grandi ammassi di rifiuti di plastica di varie dimensioni. Finiscono in mare attraverso i fiumi e si raccolgono in aree molto estese – centinaia di migliaia di chilometri quadrati, secondo le stime più caute – ma circoscritte a causa delle correnti. Finora l’unico ente a essersi preoccupato di trovare un modo per rimuoverli è Ocean Cleanup, un’organizzazione che ha progettato una grande barriera trainata da due navi per setacciare l’acqua degli oceani.

Quello di Ocean Cleanup è un piano ambizioso, che ha sempre ricevuto molte attenzioni e grandi finanziamenti, ma allo stesso tempo è stato anche assai criticato da persone esperte di inquinamento e biologia marina: per l’effettivo livello di efficacia che raggiungerà, per l’inquinamento atmosferico che necessariamente causerà e per l’impatto che avrà su molti animali marini che vivono in superficie, in alcuni casi sfruttando la presenza della plastica.

Ocean Cleanup esiste dal 2013. L’anno prima il suo fondatore, l’olandese Boyan Slat, che all’epoca aveva 18 anni, aveva spiegato in una conferenza TEDx la sua idea per ripulire gli oceani dalla plastica usando una grande barriera.

Il progetto iniziale prevedeva che la barriera, composta da una serie di galleggianti e da una rete, fosse ancorata. Il primo prototipo fu distrutto dalle correnti nel 2016 ma Slat ottenne comunque decine di milioni di dollari di finanziamenti da miliardari della Silicon Valley, come il cofondatore di PayPal Peter Thiel, e da tante persone che parteciparono a un crowdfunding, per riprovarci. Il secondo prototipo, a forma di U, doveva essere trasportato dai venti e dalle correnti. Costò 20 milioni di dollari, fu testato nel 2018 e fu un fallimento.

Il primo successo di Ocean Cleanup arrivò nel 2019. Da allora la barriera setaccia-plastica è stata ulteriormente modificata e negli ultimi quattro mesi il modello attuale (il cosiddetto System 002) ha permesso di recuperare quasi 29 tonnellate di rifiuti che galleggiavano nel Pacifico.

Il System 002 è sempre fatto di una grande barriera di galleggianti e reti, ma a differenza delle versioni precedenti la barriera viene costantemente trainata da due navi nelle aree dove si raccolgono i detriti di plastica; le navi sono fornite dalla grande azienda di trasporti marittimi A.P. Moller-Maersk, una dei più importanti finanziatori del progetto.

Usando le navi, la raccolta è accelerata rispetto a quella resa possibile dal modello del 2019. Secondo Slat una decina di barriere simili a quella attuale, ma più grandi, potrebbero rimuovere la metà della plastica che galleggia tra la California e le Hawaii in cinque anni e il 90 per cento di tutta la plastica negli oceani entro il 2040.

I carburanti per navi però sono tra i più inquinanti al mondo e producono una gran quantità di emissioni di gas serra (la causa del cambiamento climatico): è per questo che l’attuale progetto di Ocean Cleanup è così criticato, soprattutto perché nelle prime versioni la barriera non avrebbe dovuto produrre un tale inquinamento. «Penso che il progetto nasca dalla buona intenzione di salvaguardare l’oceano, ma il modo migliore per farlo è evitare che la plastica ci finisca», ha detto di recente a Reuters Miriam Goldstein, oceanografa e responsabile dei programmi per l’oceano del think tank Center for American Progress: «Una volta che la plastica è arrivata in mare aperto andare a riprenderla diventa molto costoso e causa molte emissioni».

Ocean Cleanup ha detto che Moller-Maersk sta cercando di trovare nuovi carburanti con un minore impatto ambientale e ha aggiunto che compenserà le emissioni delle navi finanziando iniziative che favoriscano l’assorbimento di gas serra, ma non si sa ancora come. Peraltro è possibile che dovranno essere compensate anche le emissioni causate dall’incenerimento dei rifiuti ripescati: Ocean Cleanup conta di usarli per produrre oggetti in plastica riciclata (con quella raccolta finora ha realizzato occhiali da sole da 200 euro), ma il portavoce Joost Dubois ha ammesso con Reuters che una parte non potrà essere usata in questo modo.

(The Ocean Cleanup)

Le critiche al progetto comunque non si limitano alla questione delle emissioni, anzi. Quelle principali erano state fatte anche al primo prototipo della barriera e riguardavano il cosiddetto “neuston”, cioè l’insieme degli esseri viventi che vivono sulla superficie degli oceani e poco sotto: meduse, molluschi, cavallucci marini e altri animali che spesso creano degli ecosistemi attorno ai rifiuti di plastica.

Il neuston nel suo insieme non è mai stato molto studiato ma le ricerche esistenti suggeriscono che abbia un ruolo molto importante nell’ecologia degli oceani: crea una connessione nella catena alimentare tra diversi habitat e diverse specie. Ad esempio, è una fonte di cibo per le tartarughe marine e crea un ambiente favorevole per gli esemplari giovani di pesci come i salmoni e i merluzzi, che prima di crescere sono piuttosto indifesi.

Rebecca Helm, una biologa esperta di meduse che critica Ocean Cleanup da anni, sostiene che servirebbero ricerche molto approfondite sugli ecosistemi che si trovano sulla superficie degli oceani e in mezzo alle grandi chiazze di plastica prima di impiegare grandi strutture come la barriera progettata dall’organizzazione di Boyan Slat. «Non sappiamo bene quale sia l’effetto della plastica su questi ecosistemi, ma sappiamo che non è univoco: alcune specie tollerano la plastica, alcune ne sono danneggiate, altre ne beneficiano», ha spiegato Helm a Gizmodo: «È importante capire un problema prima di provare a risolverlo e da un punto di vista ecologico il problema della plastica nell’oceano non lo abbiamo capito del tutto».

Il timore di Helm è che la barriera di Ocean Cleanup possa distruggere gli ecosistemi del neuston. In risposta alle sue critiche l’organizzazione ha finanziato uno studio sul rapporto tra gli animali del neuston e la grande chiazza di plastica del Pacifico, che però non ha del tutto chiarito la faccenda: servirebbero molte più ricerche, anche perché l’impatto del progetto di Ocean Cleanup “a regime” sarà molto maggiore di quello che hanno avuto finora i test.

Secondo le stime della stessa organizzazione, il System 002 pesca accidentalmente decine di migliaia di animali marini ogni giorno: molti piccoli crostacei e meduse, ma anche pesci più grandi, seppie e granchi. Gerhard Herndl, oceanografo dell’Università di Vienna e uno dei consulenti scientifici di Ocean Cleanup, ha detto che non si tratta di un grosso impatto perché «la maggior parte delle specie del plancton e del neuston sono adattate a subire grosse perdite, dato che le correnti possono trascinarle sulla terraferma».

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Non è facile fare una stima complessiva dei costi e benefici del progetto di Ocean Cleanup. Anche mettendo da parte le critiche relative al suo impatto ambientale, restano comunque quelle economiche: ha senso usare una quantità di denaro vicina a 40 milioni di dollari (con l’idea di spenderne centinaia in più in futuro) per ripescare la plastica che è già negli oceani?

Secondo uno studio del 2018 pubblicato da Nature e finanziato da Ocean Cleanup, il solo grande ammasso galleggiante tra la California e le Hawaii è fatto di 79mila tonnellate di plastica e si stima che ogni anno milioni di tonnellate di questo materiale finiscano in mare. A confronto le 29 tonnellate raccolte negli ultimi quattro mesi sono poca cosa, e anche le 20mila all’anno che Ocean Cleanup pensa di arrivare a ripescare nei prossimi anni. Inoltre secondo uno studio dell’organizzazione Pew Charitable Trusts, entro il 2040 il flusso di rifiuti diretto al mare potrebbe quasi triplicare.

Secondo chi critica Ocean Cleanup, i soldi raccolti dall’organizzazione potrebbero essere usati in modo migliore: organizzando iniziative per ripulire le spiagge (una cosa che si può fare senza produrre emissioni di gas serra), facendo pressioni sui governi per chiedere la riduzione dell’uso della plastica usa e getta o cercando di prevenire la dispersione dei rifiuti in mare.

Ocean Cleanup sta cercando di fare anche quest’ultima cosa con un progetto secondario basato sull’uso di barriere fluviali e imbarcazioni per la raccolta alimentate con energia solare chiamate Interceptor. Per ora i fiumi che sono stati dotati di questo sistema sono tre – uno in Indonesia, uno in Malesia, un altro nella Repubblica Dominicana – e l’organizzazione vorrebbe arrivare a mille in cinque anni.

Il progetto fluviale è finanziato da Coca-Cola, che molti gruppi ambientalisti considerano la principale responsabile dell’inquinamento da plastica. Marcus Eriksen, cofondatore del gruppo di ricerca sull’inquinamento da plastica 5 Gyres Institute, ha detto a Reuters che i fondi provenienti da un’azienda che produce 3 milioni di tonnellate di confezioni di plastica ogni anno sono una forma di greenwashing, cioè di “ambientalismo di facciata” portato avanti per questioni di immagine e sfruttato per evitare di prendere impegni più gravosi per la riduzione dell’uso della plastica.

Il critico articolo di Gizmodo riassume tutta la questione così: «Finché l’attenzione pubblica e i finanziamenti saranno indirizzati verso costosi sogni tecnologici, le aziende e i legislatori potranno continuare a rimandare riforme significative».

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