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  • Venerdì 8 ottobre 2021

I due giornalisti dissidenti che hanno vinto il Nobel per la Pace

Maria Ressa e Dmitry Muratov hanno carriere molto diverse, ma in comune il fatto di guidare due testate libere e perseguitate

(Ernesto Distefano/Getty Images)e (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)
(Ernesto Distefano/Getty Images)e (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Quest’anno il premio Nobel per la Pace è stato assegnato a due giornalisti dissidenti, che nei loro rispettivi paesi sono stati perseguitati da governi autoritari che hanno represso sistematicamente la libertà di stampa. Maria Ressa, cofondatrice e direttrice del giornale filippino Rappler, e Dmitry Muratov, cofondatore e direttore del giornale russo Novaya Gazeta, hanno vite e carriere per certi versi molto diverse e vengono da situazioni differenti. Ma hanno in comune il fatto di essere alla guida di due delle rarissime testate davvero libere nei loro rispettivi paesi, e di essere stati oggetto di minacce e condanne per questa ragione.

Maria Ressa è stata perseguitata dal governo autoritario del presidente filippino Rodrigo Duterte, è stata arrestata e condannata a svariati anni di carcere in processi che secondo gli osservatori internazionali avevano motivazioni politiche, intentati contro di lei a causa delle inchieste del suo giornale sulla corruzione e i metodi violenti del governo.

Dmitry Muratov per più di vent’anni ha guidato uno dei pochissimi giornali di opposizione contro il presidente russo Vladimir Putin (e prima ancora contro i corrotti governi del periodo post sovietico): Novaya Gazeta è stata oggetto di innumerevoli minacce e persecuzioni, e sei dei suoi giornalisti sono stati assassinati in circostanze spesso poco chiare. La più famosa, Anna Politkovskaya, fu uccisa il 7 ottobre del 2006.

Come ha scritto il comitato del Nobel, l’idea quest’anno è stata quella di premiare due «rappresentanti di tutti i giornalisti che si battono» per proteggere la libertà d’espressione, «in un mondo in cui la democrazia e la libertà di stampa stanno affrontando ostacoli sempre più grandi».

Maria Ressa
Ressa ha 58 anni ed è una delle giornaliste più note e autorevoli delle Filippine (nel dicembre del 2018 la rivista americana Time l’aveva inserita tra le persone dell’anno, assieme ad altri giornalisti minacciati per il loro lavoro). Ressa, che ha anche cittadinanza statunitense, per vent’anni ha lavorato come giornalista investigativa e corrispondente all’estero per la tv americana CNN, a capo sia della redazione di Manila che di quella dell’Indonesia. Poi ha diretto la divisione dedicata alle notizie di ABS-CBN, il principale canale televisivo di notizie delle Filippine. Nel 2012 ha fondato Rappler assieme ad altre tre giornaliste.

Il nome Rappler nasce dall’unione di rap (“discutere”) e ripple (“fare onde”, e quindi in senso lato “smuovere le cose”). Inizialmente nella redazione di Rappler lavoravano solo 12 giovani giornalisti e sviluppatori e si pensava che fosse rivolto principalmente a lettori giovani, ma nel tempo e grazie ai social network è diventato uno dei principali siti di notizie del paese: ora ci lavorano più di cento persone.

Maria Ressa (AP Photo/Aaron Favila)

Fin dalla sua nascita, Rappler divenne molto conosciuto per la sua attività di lotta alla diffusione di notizie false nelle Filippine, e durante la campagna elettorale che poi fu vinta da Rodrigo Duterte nel 2016 iniziò a occuparsi della disinformazione operata dai sostenitori del presidente, che diffondevano notizie false sui social network per favorirlo.

L’indagine giornalistica di Rappler proseguì anche dopo l’elezione di Duterte e fece emergere l’esistenza una “fabbrica di troll”, che attraverso decine di profili falsi diffondevano notizie false in sostegno di Duterte e in particolare delle sue violente politiche di lotta alla droga. L’indagine rivelò inoltre come spesso gli omicidi compiuti nell’ambito di questa campagna contro la droga (almeno 27 mila secondo un organo indipendente del governo) avvenissero anche quando le persone coinvolte non avevano nulla a che fare con lo spaccio.

Le conseguenze delle indagini di Rappler si sono viste per la prima volta nel luglio del 2017, quando Duterte sostenne che il sito era di proprietà di cittadini americani e per questo violava la Costituzione delle Filippine.

Ressa negò l’accusa ma venne comunque avviata una grossa indagine per verificare la proprietà di Rappler: a gennaio 2018 l’agenzia governativa che si era occupata di indagare chiese la revoca della licenza di testata giornalistica del sito, ma una corte di appello giudicò l’accusa senza fondamento. A quel punto l’agenzia iniziò a indagare Rappler per evasione fiscale, con l’accusa che non avesse pagato l’equivalente di 2 milioni e mezzo di euro di tasse.

Per via di questa e altre accuse Ressa è stata arrestata diverse volte.

È stata condannata, assieme a un altro giornalista di Rappler, per la prima volta nel giugno del 2020 per diffamazione online. La condanna era legata a un’indagine giornalistica del 2012 in cui Ressa aveva raccontato del coinvolgimento di un ricco uomo d’affari, Wilfredo Keng, in un traffico di droga e di essere umani, e dei suoi rapporti con un giudice che all’epoca era membro del più alto tribunale delle Filippine. Il governo di Duterte aveva approvato una legge contro la diffamazione online quattro mesi dopo che l’inchiesta di Ressa era stata pubblicata: secondo l’accusa, la cui tesi era stata accolta dalle sentenze, l’articolo poteva essere soggetto alla nuova legge, dato che nel 2014 era stato aggiornato per correggere un refuso.

Dmitry Muratov
Muratov ha 59 anni e ha cominciato la sua carriera giornalistica negli anni Ottanta, nell’ultimo periodo di esistenza dell’Unione Sovietica. Cominciò a lavorare per la Komsomolskaya Pravda (un giornale legato alla più nota Pravda, l’organo ufficiale del Partito comunista sovietico), ma nel 1993, pochi anni dopo la fine dell’URRS, in un momento di grande confusione e dinamismo per la politica russa, si mise a capo di una cinquantina di giornalisti che decisero di fondare un nuovo giornale indipendente, che si sarebbe concentrato sul giornalismo d’inchiesta: la Novaya Gazeta, di cui Muratov divenne direttore.

Il giornale cominciò la pubblicazione in un ufficio da due stanze, con due computer, una stampante e senza denaro per gli stipendi. Riuscì ad andare avanti in gran parte grazie a una donazione dell’ex presidente sovietico Mikhail Gorbaciov, che diede al giornale parte del premio in denaro ricevuto dopo la vittoria del premio Nobel per la Pace del 1990.

Muratov, nel corso degli anni, ha ricevuto moltissimi premi giornalistici e oggi è considerato la figura più importante della stampa libera in Russia.

Nel corso della sua esistenza, sempre con Muratov alla guida (non è stato direttore soltanto per un breve periodo, tra il 2017 e il 2019), Novaya Gazeta ha pubblicato inchieste importanti su grossi scandali di corruzione che hanno coinvolto il governo russo e importanti aziende del paese, creandosi molti nemici. I giornalisti di Novaya Gazeta hanno anche operato in scenari eccezionalmente pericolosi, come la guerra che si svolse in Cecenia nella prima metà degli anni Duemila. In quell’occasione Novaya Gazeta fu uno dei pochi giornali a pubblicare articoli critici nei confronti dell’intervento russo nel conflitto.

Dmitry Muratov, durante una riunione della Novaya Gazeta, nel 2015 (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

In alcuni casi, il giornale ha anche ceduto a toni e contenuti scandalistici e allarmistici: per esempio, fu il primo a parlare di Blue Whale, un fenomeno di internet che creò molto allarme (si parlò una serie di prove da superare tra cui l’automutilazione, e che secondo qualcuno avrebbe spinto decine di adolescenti nel mondo al suicidio) ma che si rivelò di fatto una bufala.

Per la loro attività giornalistica, Muratov e i suoi giornalisti sono stati denunciati e minacciati innumerevoli volte, e sei di loro sono stati uccisi. In un discorso tenuto nel 2007 al Committee to Protect Journalists durante la consegna di un premio, Muratov ha parlato delle uccisioni dei suoi giornalisti come di «perdite di guerra».

In molti dei casi – il più celebre è appunto quello di Anna Politkovskaya – gli autori materiali degli omicidi sono stati arrestati e condannati, ma non si è mai arrivati ai mandanti politici. Tutti e sei i giornalisti (Igor Domnikov, Viktor Popkov, Yury Shchekochikhin, Anna Politkovskaya, Stanislav Markelov e Natalya Estemirova) stavano lavorando a importanti inchieste o a temi politicamente sensibili quando furono uccisi, e si ritiene che siano stati assassinati in relazione alla loro attività.