Afghanistan
(AP Photo/Rahmat Gul)

Cos’è l’ISIS-K, spiegato

La divisione afghana dello Stato Islamico responsabile dell'attentato a Kabul è nata diversi anni fa: è nemica dei talebani e di al Qaida, oltre che dell'Occidente

di Elena Zacchetti

Giovedì la divisione afghana dell’ISIS ha compiuto un violentissimo attentato all’aeroporto di Kabul che ha ucciso decine di civili afghani, talebani e militari statunitensi. L’attentato non era inaspettato: già nei giorni precedenti diversi servizi d’intelligence occidentali avevano concluso che un attacco dell’ISIS a Kabul fosse molto probabile e giovedì i governi di Stati Uniti e Regno Unito avevano invitato i propri cittadini a tenersi alla larga dalla zona dell’aeroporto, dove da giorni stanno proseguendo le operazioni di evacuazione di stranieri e afghani.

L’attentato, ha scritto il giornalista del Washington Post John Hudson, è stato particolarmente tragico perché era atteso: «L’unica speranza per contrastarlo erano i talebani», che da giorni controllano l’esterno dell’aeroporto con checkpoint e verifiche di vario tipo e che avrebbero dovuto intercettare gli attentatori prima che si avvicinassero alle zone più affollate. Inoltre la minaccia denunciata dalle intelligence occidentali era sembrata subito molto seria e credibile: l’ISIS-K (o ISKP, o Provincia del Khorasan dello Stato Islamico) è infatti presente in Afghanistan da diversi anni, e si è reso responsabile di gravissimi attentati.

Potrebbe sembrare strano, o contraddittorio, che un gruppo sunnita, jihadista e terroristico (l’ISIS) faccia un attentato contro i civili di un paese che oggi si trova sotto il controllo di un altro gruppo sunnita e fondamentalista (i talebani), molto vicino a un’organizzazione terroristica anch’essa sunnita (al Qaida). L’inimicizia tra le due fazioni, però, non è una cosa degli ultimi giorni: va avanti da tempo e si inserisce nella più ampia rivalità tra organizzazioni terroristiche – al Qaida e ISIS principalmente – per la supremazia del mondo jihadista. È importante saperlo, perché i rapporti tra questi gruppi potrebbero condizionare il prossimo futuro dell’Afghanistan.

L’ISIS-K fu fondato di fatto nel 2014 da qualche centinaia di talebani pakistani che trovarono rifugio poco al di là del confine, in Afghanistan, dopo essere fuggiti da alcune offensive militari compiute dalle forze di sicurezza pakistane. Il ruolo di leader fu assunto dal pakistano Hafiz Saeed Khan, che era un membro di Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP), cioè i talebani pakistani, e che poi divenne il primo “emiro” dell’ISIS-K.

Nell’ottobre di quell’anno Khan, insieme ad altri importanti membri del suo gruppo, decise di prestare giuramento di fedeltà a Abu Bakr al Baghdadi, allora leader dell’ISIS, in un momento in cui l’ISIS stava emergendo come forza dominante all’interno del mondo jihadista globale. Nel 2015 l’ISIS accettò di riconoscere ufficialmente l’“affiliazione” del gruppo di Khan, che divenne così l’ISIS-K, dove “K” sta per Khorasan, cioè il nome della regione storica che include parti dell’attuale Pakistan, Iran, Afghanistan e Asia Centrale.

L’obiettivo dell’ISIS-K era infatti quello di fondare un califfato nell’Asia meridionale e centrale, su cui imporre un’interpretazione estremamente rigida della sharia, la “legge islamica”, così come aveva fatto il gruppo principale in Siria e in Iraq.

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L’iniziale crescita del gruppo fu facilitata certamente dai legami e dalle reti di amicizie che Khan e gli altri membri dell’ISIS-K avevano messo in piedi nel corso degli anni: secondo un articolo pubblicato nel 2018 dal centro studi americano Combating Terrorism Center, già durante il suo primo periodo di attività entrarono nell’ISIS-K membri di diverse fazioni estremiste e jihadiste della regione, tra cui miliziani della Rete Haqqani, il gruppo che oggi è considerato il principale legame tra talebani afghani e al Qaida. Diversi importanti esponenti dello Stato Islamico iniziarono inoltre a rifugiarsi in Afghanistan quando, a partire dal 2015, l’ISIS cominciò a perdere terreno sia in Siria che in Iraq.

L’ISIS investì un bel po’ di soldi nella sua divisione afghana, trasferendo diverse centinaia di migliaia di dollari per migliorare la sua rete in Asia Centrale.

Nonostante il reclutamento di nuovi membri, e l’arrivo dei finanziamenti, l’ISIS-K rimase per anni un gruppo di limitato rilievo in Afghanistan, anche a causa degli arresti dei suoi membri e degli attacchi aerei mirati contro la sua leadership compiuti dalla coalizione militare guidata dagli Stati Uniti. Nel giro di pochi anni, i bombardamenti occidentali uccisero cinque capi consecutivi del gruppo, i cosiddetti “emiri”, tra cui Hafiz Saeed Khan.

C’era poi un altro fattore che aveva limitato il successo dell’ISIS-K finora. Secondo il Center for Strategic of International Studies, think tank di Washington, l’ISIS-K incontrò molta ostilità soprattutto nelle zone in cui i talebani afghani erano più forti, dove i due gruppi si scontrarono apertamente in diverse occasioni.

I motivi della rivalità erano tra le altre cose legati alle differenze ideologiche. Mentre i talebani puntavano alla creazione di un loro emirato all’interno dei confini afghani, l’ISIS-K aveva l’obiettivo di fondare un Califfato esteso all’Asia centrale e meridionale; inoltre, per i membri dell’ISIS-K l’interpretazione della sharia da parte dei talebani non era sufficientemente rigida: i primi chiamavano i secondi “apostati” e “cattivi musulmani”, sostenendo che volessero tradire il jihad, la guerra santa. Daniele Raineri, che in questi giorni è stato inviato a Kabul per il Foglio, ha scritto: «Lo Stato islamico odia i talebani perché li considera dei tiepidi, attaccati all’idea nazionalista di un emirato soltanto afghano e non al sogno del califfato mondiale, e inoltre colpevoli di collaborare con l’intelligence pachistana e di trafficare droga».

La rivalità tra talebani e ISIS-K era inoltre alimentata dalla vicinanza dei primi con al Qaida, nemica giurata dell’ISIS da sempre. Questa inimicizia si era vista in particolare durante la guerra in Siria, quando i due gruppi si erano combattuti apertamente e duramente.

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Dopo essersi molto indebolito – fu cacciato dalle province afghane di Nangarhar e Kunar e costretto a operare per lo più in piccole cellule distribuite sul territorio – l’ISIS-K riuscì a riorganizzarsi. Charlie Winter, esperto di jihadismo, ha detto al Guardian: «Quella dell’ISKP è stata una traiettoria di rinascita dopo un periodo complicato tra il 2019 e la prima metà del 2020. Il gruppo è rimasto improvvisamente silente dopo le vittorie dei talebani, e una delle ragioni potrebbe essere che si stava preparando per una nuova campagna [terroristica]».

Questa “rinascita” fu aiutata dall’arrivo di un nuovo leader forte e ambizioso, Shahab al Muhajir, e ancora una volta dal flusso di miliziani dall’estero, in particolare da Pakistan, Tagikistan e Uzbekistan, attirati dalla promessa di una nuova campagna terroristica contro i talebani, il governo afghano e gli americani, e dalle defezioni della cosiddetta Rete Haqqani, che negli anni precedenti aveva sviluppato molta esperienza nella guerriglia urbana e aveva compiuto diversi attentati assai sofisticati a Kabul.

Il segretario di Stato americano Mike Pompeo insieme ad Abdul Ghani Baradar, capo del team di negoziatori dei talebani, il 21 novembre 2020 a Doha, Qatar (AP Photo/Patrick Semansky, Pool)

L’arrivo di nuovi membri fu favorito anche dall’avvio dei negoziati di pace che i talebani intrapresero con gli Stati Uniti di Donald Trump, che culminarono con l’accordo firmato nel 2020 che sanciva il ritiro completo delle truppe americane dall’Afghanistan.

Molti talebani non erano contenti dei negoziati, perché pensavano che i colloqui di pace avrebbero costretto il loro gruppo a fare concessioni in un momento in cui si sentivano forti militarmente: pensavano cioè di poter vincere da soli, e diversi si unirono all’ISIS-K (poi comunque non andò così: gli Stati Uniti accettarono di ritirare le loro truppe senza ottenere praticamente nulla in cambio, solo la vaga promessa che i talebani non avrebbero più dato protezione ad al Qaida, come invece avevano fatto tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila; promessa che molto probabilmente sarà disattesa).

La retorica usata allora dall’ISIS-K per favorire il reclutamento – cioè che i talebani fossero così moderati da sedersi allo stesso tavolo dei negoziati con gli americani – è la stessa emersa nelle ultime ore, dopo l’attentato a Kabul, quando l’ISIS ha descritto i talebani come collaborazionisti nei confronti degli Stati Uniti e degli afghani che negli ultimi anni avevano collaborato con l’Occidente.

L’attentato all’aeroporto di Kabul, il più grave che ha colpito i soldati americani negli ultimi 10 anni, sarà probabilmente presentato come una «grande vittoria» da parte dell’ISIS-K, ha detto Tore Hamming, esperto di ISIS. Hamming, la cui posizione è ampiamente condivisa da molti analisti, ha detto: «[L’ISIS-K] ha raggiunti diversi scopi: ha colpito obiettivi legittimi (legittimi secondo la loro prospettiva), ha mostrato di essere ancora una forza che non può essere sottovalutata e ha sfidato il progetto di stato dei talebani dimostrando come il gruppo non sia in grado di garantire la sicurezza di Kabul».

Quello all’aeroporto di Kabul è stato l’ultimo, e il più grave, di una serie di attentati particolarmente violenti compiuti dall’ISIS-K negli ultimi anni in Afghanistan e Pakistan, che hanno colpito anche scuole femminili, ospedali e reparti di ostetricia. Secondo un rapporto dell’ONU del mese scorso, oggi l’ISIS-K avrebbe tra i 500 e i 1.500 miliziani in Afghanistan e sarebbe riuscito a rafforzare la propria presenza attorno a Kabul.

Le intelligence occidentali hanno rilevato che gli attacchi potrebbero non essere finiti, soprattutto ora che gli Stati Uniti e gli altri paesi coinvolti nella missione NATO stanno lasciando del tutto il paese e non potranno più fare affidamento come prima né sulla raccolta di informazioni di intelligence, né sugli attacchi aerei mirati. Per quanto riguarda invece i complessi rapporti tra talebani, ISIS-K, al Qaida, Rete Haqqani e gli altri gruppi jihadisti della regione, si dovrà aspettare per vedere che succederà: «La storia della militanza e del jihad nella regione è molto complicata», ha scritto Abdul Sayed, esperto di jihadismo in Afghanistan e Pakistan. «Temo che sia possibile molta altra violenza dovuta alle complicate dinamiche» tra i gruppi.

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