Estrarre i metalli dalle piante anziché dalle miniere

Si può fare sfruttando la capacità di certe specie di assorbire e trattenere i metalli, utili anche a risanare il suolo inquinato

Un esemplare di Alyssum morale, una delle piante cosiddette iperaccumulatrici da cui è possibile estrarre i metalli (Wikimedia)
Un esemplare di Alyssum morale, una delle piante cosiddette iperaccumulatrici da cui è possibile estrarre i metalli (Wikimedia)
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L’industria mineraria è una delle attività umane che hanno maggiori ripercussioni negative sull’ambiente, per l’inquinamento prodotto dai macchinari usati per estrarre i metalli, per la contaminazione del suolo e delle falde acquifere con le sostanze con cui si trattano i minerali grezzi e anche per il modo in cui può modificare un territorio. È però un’industria fondamentale per produrre innumerevoli oggetti, a partire dagli smartphone e dalle batterie che li alimentano. Per questo da tempo si cercano metodi alternativi per procurarsi certi metalli: uno potrebbe essere usare le piante.

Circa 700 delle 320mila specie di piante conosciute al mondo sono in grado di assorbire dal terreno e trattenere significative quantità di metalli, senza risentire di effetti negativi. Per questa loro caratteristica, sono definite “iperaccumulatrici”. Sono ad esempio il salice, il girasole o l’alisso giallo (Alyssum murale), una pianta erbacea con fiori gialli che cresce anche in Italia ed è in grado di assorbire fino a 16,9 grammi di nichel per chilogrammo. Tra i metalli che le piante iperaccumulatrici trattengono ci sono lo zinco e il cobalto, entrambi fondamentali per costruire batterie, e il già citato nichel, impiegato tra le altre cose per la produzione dell’acciaio inossidabile.

L’idea di sfruttare queste piante per ottenere certi metalli risale al 1983, quando l’agronomo statunitense Rufus L. Chaney ideò il processo di phytomining, che si può tradurre come “fitoestrazione”. In poche parole la fitoestrazione consiste nel coltivare e raccogliere piante che trattengono grandi quantità di certi metalli, che poi si possono estrarre tramite processi chimici.

Tra gli scienziati che stanno perfezionando i metodi di fitoestrazione c’è Antony van der Ent, un ricercatore di biogeochimica all’Università del Queensland, in Australia. I suoi studi, racconta un articolo della rivista di temi ambientali Grist, hanno ispirato una sperimentazione nel parco nazionale di Kinabalu, sito patrimonio dell’Umanità UNESCO sull’isola del Borneo, in Malesia: in un’area di questo parco, c’è una miniera di nichel particolare, che si trova nelle piante.

Dalla sperimentazione al parco di Kinabalu è emerso che con la fitoestrazione si possono ottenere dai 150 ai 250 chili di nichel per ciascun ettaro di alberi trattati, con un guadagno di alcune migliaia di euro per ettaro. Van der Ent ha spiegato che a parità di terreno coltivato questi prezzi sono in linea e talvolta anche superiori a quello che guadagnano gli agricoltori locali con altri tipi di coltivazione: tra tutte, quella della palma da olio, che è ampiamente diffusa sia in Indonesia che in Malesia e che però è legata a enormi problemi ambientali, in particolare al disboscamento e alla riduzione della biodiversità. Destinare le coltivazioni agli alberi per l’estrazione del nichel potrebbe essere quindi un’alternativa interessante anche per gli agricoltori.

Secondo Van der Ent, questo processo sta iniziando a convincere imprenditori e investitori e ha tutte le caratteristiche per essere utilizzato su larga scala anche per l’estrazione di cobalto, tallio e selenio. Prossimamente dovrebbe partire una nuova sperimentazione proprio in Indonesia, che però per il momento è stata sospesa per via della pandemia da coronavirus.

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Nonostante queste tecniche siano efficaci e meno dannose per l’ambiente rispetto all’industria mineraria tradizionale, è difficile che riescano a rimpiazzarla. Secondo Van der Ent però possono diventare complementari ai metodi tradizionali, anche perché hanno un ulteriore vantaggio.

Uno dei problemi principali dell’estrazione mineraria, infatti, è che spesso i componenti chimici impiegati per separare i metalli dai minerali grezzi vengono dispersi nel suolo e nelle falde acquifere, con grosse conseguenze sugli ecosistemi e sulla vita delle persone; la bonifica dei terreni contaminati però è un’operazione che ha tempi e costi molto elevati, e non sempre le grosse imprese si sono preoccupate di avviarla. Da questo punto di vista, le piante iperaccumulatrici sarebbero risorse molto utili proprio per trattare i terreni contaminati, catturando le sostanze nocive dal terreno: in questo caso si parla di fitorisanamento.

Il fitorisanamento è stato sperimentato con lo scopo di bonificare i terreni contaminati in diversi paesi europei, tra cui l’Italia. In Francia, nell’ambito di un piccolo progetto di bonifica, è stato dimostrato che le piante erano riuscite ad assorbire buoni livelli di nichel, zinco e cadmio; in Italia sono state sperimentate tecniche di fitorisanamento sia coi girasoli che con la brassica, un’altra pianta erbacea. In Sardegna per la bonifica dei suoli contaminati vicino ai siti minerari è stata utilizzata la Cannabis sativa in via sperimentale, con risultati promettenti.