Da dove viene la pinsa romana

Nelle pizzerie italiane si vede sempre di più, anche fuori dalla capitale, ma fino a vent'anni fa non esisteva

(Pinsalab)
(Pinsalab)

Agli occhi di un consumatore occasionale, il concetto di “pinsa romana” può essere difficile da interpretare. Apparentemente è un piatto che si differenzia poco da una normale pizza alla pala, molto diffusa nei forni del Centro Italia, e ad aumentare la confusione molti locali che la servono – le “pinserie” – si richiamano a una presunta aura tradizionale del piatto. Ma qualsiasi romano o romana sopra una certa età può testimoniare che fino a una ventina di anni fa, della pinsa, in città non c’era traccia.

Il motivo è che la pinsa prima del 2001 non esisteva. Corrado Di Marco, imprenditore che proviene da una famiglia di fornai attivi fin da inizio Novecento, sostiene di averla ideata in quell’anno con tutte le caratteristiche che la distinguono, che oggi sono raccolte da una serie di regole scritte: la forma ovale, il mix di farine (soia, frumento, riso e una pasta acida detta biga), il peso del panetto e l’alta idratazione dell’impasto, tra il 75 e l’80 per cento.

Nonostante l’origine relativamente recente, circola molto una storia che fa risalire la pinsa all’antica Roma. Secondo questa versione, la pinsa sarebbe una rivisitazione in chiave moderna di una ricetta antichissima, una specie di pane basso e duro usato come piatto che poi – una volta ammorbidito dal condimento messo sopra – veniva mangiato. Questa antenata della pizza è citata dall’Eneide di Virgilio e lo stesso nome della pinsa testimonierebbe l’ascendenza latina, dato che pinsère in latino significa “pigiare”, “schiacciare”.

 

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La storia dell’antica origine della pinsa viene riportata da molti siti, ma in realtà è una forzatura frutto di un’invenzione di Di Marco. Lo ha ammesso lui stesso in un’intervista lo scorso anno, in cui disse: «Per sette anni ho studiato il latino, quindi ho chiamato pinsa il prodotto ovale che avevo realizzato. Non c’è traccia storica della pinsa, non esiste, è una storiella che ho inventato». Tuttavia, è vero che tra gli antichi romani era diffuso un disco di pane duro usato come piatto, che però può essere al massimo considerato un primitivo e lontano parente della moderna pizza, e non della pinsa.

Dopo l’invenzione e la diffusione della pinsa promossa da Di Marco, è nata un’associazione che si chiama Originale Pinsa Romana e che ha stabilito un disciplinare di produzione, non ancora riconosciuto a livello statale (come è invece il caso della pizza napoletana). In sostanza, anche chi non si attiene a questo insieme di regole è libero di chiamare il suo prodotto “pinsa”, ma non riceve il certificato di originalità che l’associazione conferisce, dice Domenico De Rosa, chef, ristoratore ed esperto di cottura della pinsa in forno a legna. «Poi ovviamente il prodotto si può fare in vari modi» aggiunge De Rosa. «L’importante è che abbia comunque un rapporto di proteine maggiore, perché sono quelle che trattengono l’acqua. Poi la pasta deve essere maturata minimo 24 ore fino a un massimo di 72 ore».

De Rosa lavora per Gustolab 360, un’azienda di Roma che produce basi per pinsa vendute poi sia ai ristoranti che nella grande distribuzione organizzata (GDO, vale a dire i supermercati). Ci sono anche alcuni ristoranti che hanno un proprio laboratorio in cui si producono da soli gli impasti, ma molti si riforniscono da aziende come quella di De Rosa: ce ne sono molte, soprattutto di media grandezza, ma anche aziende più grandi e affermate come Buitoni hanno avviato una produzione di basi per pinsa.

Nonostante il nome faccia supporre un radicamento particolare a Roma e nel Lazio, la pinsa romana si sta diffondendo soprattutto fuori dai confini della capitale. Tra le aziende produttrici di basi per pinsa, per esempio, una delle maggiori si trova a Reggio Emilia. Si chiama Pinsalab ed è nata nel 2016 come un piccolo locale con laboratorio a Guastalla, a circa 30 chilometri da Reggio. Poi, racconta la responsabile marketing Rossella Palladini, i gestori si sono accorti che vendevano di più le basi da portare via e cuocere che le pinse da consumare sul momento, perciò si concentrarono sulle prime. Oggi Pinsalab è un’azienda con più di 80 dipendenti.

 

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«La cosa che distingue la pinsa dalla pizza è l’utilizzo delle tre farine, che rende l’impasto molto più difficile da maneggiare» dice Palladini. «Noi abbiamo trovato la nostra tecnica ottimale che consiste nello stendere a mano ogni base che produciamo. In questo momento ne facciamo 31mila al giorno». Anche Pinsalab vende sia ai ristoranti che alla GDO, e si attiene grossomodo al disciplinare dell’associazione Originale Pinsa Romana. Tuttavia, secondo Palladini sarebbe auspicabile un riconoscimento e una tutela del prodotto maggiori, perché «ci sono produttori che spacciano qualcosa che non è pinsa per pinsa: spesso vai a vedere gli ingredienti e c’è solo la farina di frumento».

Sicuramente il settore è in espansione. Pinsalab nel 2020 ha chiuso l’anno con un fatturato di 4,8 milioni di euro, mentre le previsioni dell’azienda per il 2021 superano gli 11 milioni, e nel frattempo da gennaio a oggi sono stati assunti 36 nuovi dipendenti. I dati della società di statistica Nielsen dicono che il mercato della pinsa vale 18 milioni di euro e che nel 2020 è cresciuto del 182 per cento rispetto al 2019. La crescita è sostenuta soprattutto dalla grande distribuzione, più che dai ristoranti: secondo l’azienda di Corrado Di Marco – che produce basi ma anche mix di farine – le pinserie in tutto il mondo sono circa 5.000.

– Leggi anche: La volta che il New York Times scoprì la pizza