In Islanda si lavora meno, ma si guadagna uguale

Per quasi tutti i lavoratori islandesi le ore sono passate da 40 a 36 a settimana e sono aumentati produttività e benessere

di Leonardo Siligato

Una veduta di Reykjavík, in Islanda. (Berit Watkin / Wikimedia Commons)
Una veduta di Reykjavík, in Islanda. (Berit Watkin / Wikimedia Commons)

In Islanda, dal 2019 i sindacati sono riusciti a ottenere una riduzione delle ore lavorative per decine di migliaia di persone mantenendone invariato lo stipendio. I sindacati hanno ottenuto questo risultato facendo leva sull’evidenza empirica fornita da due studi condotti rispettivamente dal comune della capitale Reykjavík e dal governo islandese sull’1,3 per cento della forza lavoro del paese a partire dal 2014, i quali hanno dimostrato come una diminuzione delle ore lavorate facesse aumentare o tutt’al più mantenesse inalterata la produttività dei lavoratori.

In questo modo, sono riusciti a far ridurre le ore in contratto o a ottenere il diritto a una loro diminuzione per l’86 per cento dei lavoratori del paese: un risultato senza precedenti, pur considerato che la popolazione islandese non supera i 357 mila abitanti, di cui quelli che lavorano sono meno di 197 mila.

Il dato è emerso da un rapporto redatto dall’ALDA (l’Associazione per la democrazia sostenibile islandese: un ente senza fini di lucro che da un decennio sostiene la necessità di ridurre le ore lavorative nel paese) e dal think tank indipendente britannico Autonomy. Nel rapporto viene fornito un resoconto dettagliato di come i lavoratori islandesi siano arrivati a ottenere questo risultato, che rappresenta un precedente importante nell’annoso dibattito sui pro e i contro di ridurre l’orario lavorativo.

Nel 2014, prima che iniziassero gli studi che avrebbero poi portato alla riduzione dell’orario di lavoro, gli islandesi lavoravano mediamente più di qualsiasi altra popolazione del Nord Europa: 39,6 ore alla settimana in media a testa, contro le 36,8 della Finlandia, le 36,3 della Svezia, le 33,9 della Norvegia e le 33,6 della Danimarca. Forse anche il paragone con gli altri paesi nordici, dove la ricchezza pro capite e i servizi offerti dallo stato erano simili ma si lavorava meno e la produttività era maggiore, ha fatto lentamente radicare nella società civile islandese l’opinione che fosse necessario diminuire le ore lavorate. Gli islandesi si trovavano infatti nella condizione di essere una delle popolazioni più ricche al mondo in termini di PIL pro capite, ma di non avere il tempo di godersi la ricchezza prodotta a causa del pessimo bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata.

Perciò, nel 2014, il più importante sindacato di lavoratori del settore pubblico del paese (BSRB) chiese e ottenne dal comune di Reykjavík che venisse svolto uno studio empirico su una parte dei suoi dipendenti per capire se una riduzione delle ore lavorate a parità di salario avesse effetti sul benessere dei lavoratori e sulla loro produttività, sia sul breve che sul medio periodo. Un altro obiettivo dello studio era quello di trovare soluzioni organizzative efficaci per aumentare la produttività riducendo le ore lavorate.

Il test è durato cinque anni ed è arrivato a includere 2.500 lavoratori, compresi i dipendenti di scuole e strutture per anziani e disabili. I lavoratori coinvolti hanno visto le proprie ore lavorative ridursi da 40 a 35 o 36 a settimana, a seconda dei casi, mentre il loro stipendio è stato lasciato invariato.

Terminato nel settembre 2019, lo studio ha portato a concludere che la riduzione delle ore non aveva ridotto le prestazioni lavorative in molti casi, mentre in altri le aveva aumentate: in uno dei call center del comune, per esempio, la percentuale di telefonate a cui i dipendenti hanno risposto è stata del 93 per cento in media, contro l’85 per cento misurato nello stesso periodo in un gruppo di controllo a cui non erano state diminuite le ore.

A fine 2015, BSRB è riuscita a convincere anche il governo islandese a condurre uno studio simile. Obiettivi e modalità erano gli stessi del precedente, e il governo ha incoraggiato tutte le proprie istituzioni a parteciparvi. Iniziato nel 2017, lo studio ha coinvolto 440 dipendenti in diversi uffici, tra cui il direttorato delle Entrate, quello dell’Immigrazione, una stazione di polizia e il dipartimento di medicina interna di un ospedale ad Akranes, nell’Ovest dell’Islanda.

Anche questo studio ha prodotto risultati simili al precedente: generalmente non ci sono state prove di un impatto negativo della riduzione dell’orario sull’erogazione dei servizi, che anzi in alcuni casi è migliorata. Per esempio, nel dipartimento di polizia sotto osservazione, il numero di casi chiusi al mese è passato da 6,7 a 8,8 in media. Certo, le variabili che influiscono sulla chiusura di un caso sono molte, e perciò non è possibile attribuire con certezza questo aumento alla riduzione delle ore di lavoro. C’è però un altro dato che indica un miglioramento della produttività dei poliziotti in esame: il numero medio di giorni necessario a processare un’imputazione è passato da 12,5 a 7,6.

Questi risultati vanno a consolidare quella che è ormai una certezza, a guardare i dati degli ultimi vent’anni: nei paesi dove si lavora in media meno ore, la produttività in termini PIL per ogni singola ora lavorata è più alta.

Per riuscire a mantenere lo stesso livello di servizi riducendo le ore lavorate, le strutture coinvolte negli studi islandesi hanno dovuto operare cambiamenti nell’organizzazione del proprio lavoro. Quelli più comuni sono stati l’abbreviamento delle riunioni o la loro sostituzione con email o altri mezzi di comunicazione digitali più efficienti, il taglio dei compiti ritenuti meno utili e l’ottimizzazione dei turni di lavoro.

Questi accorgimenti hanno portato i lavoratori osservati a lavorare effettivamente meno, contrariamente a quanto successo in Francia dopo le leggi Aubry I e II, che hanno ridotto la settimana lavorativa a 35 ore ma allo stesso tempo hanno avuto l’effetto di aumentare le ore di straordinario: per mantenere gli stessi livelli di produzione, i lavoratori dovevano restare al lavoro più a lungo. Questo in Islanda per ora non è accaduto se non in rare eccezioni, e tutto lascia pensare che la causa sia la riorganizzazione che ha reso il lavoro più efficiente.

Entrambi gli studi hanno inoltre misurato come cambiava il benessere dei lavoratori dentro e fuori l’ambiente lavorativo attraverso dei questionari.

Nello studio condotto dal governo, il benessere percepito e i sintomi di stress dei lavoratori a cui erano state ridotte le ore sono diminuiti, mentre i dipendenti che costituivano il gruppo di controllo non hanno riportato cambiamenti. Nello studio del comune di Reykjavík, i dipendenti di alcuni uffici e scuole, nonché coloro che lavoravano all’aperto, hanno comunicato un aumento del proprio benessere, mentre altri non hanno riportato cambiamenti. In generale, la riduzione delle ore sembra aver migliorato o tutt’al più lasciato invariata la percezione di benessere dei lavoratori.

Stando ai resoconti di chi ha osservato un miglioramento del proprio benessere, i fattori principali sembrano essere l’aumento del tempo dedicato a famiglia e rapporti sociali, quello dedicato alla cura di sé, una maggior facilità nel fare commissioni e una partecipazione maggiore alle mansioni casalinghe, che a loro volta hanno contribuito a ridurre lo stress nell’ambiente famigliare.

– Leggi anche: Una settimana lavorativa di 4 giorni?

Sulla base di questi risultati, nel 2019 e nel 2020, diversi sindacati tra cui BSRB sono riusciti a ottenere dal governo, dalle municipalità e dalla Federazione delle imprese islandesi (una federazione di imprese simile alla Confindustria italiana) nuovi contratti collettivi che hanno introdotto la possibilità di ridurre l’orario di lavoro a paga invariata per 170 mila delle 197 mila persone occupate in Islanda. Nel settore privato, le ore sono passate da 40 a 35 o 36 a seconda dei casi, mentre in quello pubblico sono passate a 36 con l’eccezione di alcuni lavoratori in funzioni particolarmente stressanti, come quella degli infermieri, che sono riusciti a ottenere settimane di 32 ore.

È da notare però che questi cambiamenti non sono stati privi di costi: in alcuni casi, soprattutto nel settore ospedaliero, è stato necessario assumere più dipendenti per compensare le ore perse. Ciò è costato al governo l’equivalente di circa 33,6 milioni di dollari, che però sono una cifra esigua se comparata al budget totale del governo islandese, che nel 2019 ammontava all’equivalente di 7,1 miliardi di dollari.

Fino a ora, stando al rapporto di ALDA e Autonomy, le riduzioni nell’orario lavorativo in Islanda non sembrano aver portato a controversie e paiono anzi essere rimaste molto popolari. Il sostegno per l’attuale coalizione di governo, guidato dalla quarantacinquenne Katrín Jakobsdóttir (leader del partito Sinistra – Movimento Verde) è aumentato a maggio rispetto al mese precedente, mettendo la coalizione in una posizione di relativa forza in vista delle elezioni che si terranno il prossimo settembre.

Bjarkey Olsen Gunnarsdóttir, deputata eletta sempre con il partito Sinistra – Movimento Verde, ha detto in aprile che una riduzione delle ore darà alle persone più libertà, flessibilità e controllo sul proprio tempo. «Dovremmo continuare su questo cammino», ha aggiunto, «e credo che il prossimo passo sia ridurre le ore lavorative a 30 alla settimana».