Che cos’è la “cultura dello stupro”
No, non significa che tutti gli uomini siano stupratori
Dopo la pubblicazione del video in cui Beppe Grillo difende il figlio Ciro, 20 anni, indagato insieme ad altre tre persone per violenza sessuale di gruppo nei confronti di una coetanea, in molti hanno commentato le sue parole citando la cosiddetta “rape culture” o “cultura dello stupro”.
In un commento pubblicato oggi su La Stampa, Michela Marzano ha ad esempio spiegato che in poco meno di due minuti Grillo è riuscito «a riassumere brutalmente l’essenza stessa di quella cultura dello stupro che colpevolizza le vittime, stigmatizzandole e oggettivandole». Michela Murgia, su Repubblica, ha spiegato che «il consenso tra adulti esiste se le persone fanno un patto su termini condivisi», e ha aggiunto: «Per un meccanismo sociale che si chiama cultura dello stupro – quella secondo la quale la violenza è sexy e la sessualità è violenta – in Italia avviene l’esatto opposto: il consenso femminile ai rapporti sessuali è considerato implicito anche in assenza di disaccordo. Se non dici no, allora è già sì».
“Cultura dello stupro” è un’espressione utilizzata dagli studi di genere e dai femminismi per descrivere una “cultura” nella quale non solo la violenza e gli abusi di genere sono molto diffusi, minimizzati e normalizzati, ma dove sono normalizzati e incoraggiati anche gli atteggiamenti e le pratiche che giustificano e sostengono quella violenza e che pretendono di avere il controllo sulla sessualità femminile.
L’origine dell’espressione “rape culture” è incerta. Tra le prime a parlarne, negli anni Settanta, vi fu la produttrice e regista statunitense Margaret Lazarus che nel documentario “Rape Culture” affrontò il tema della rappresentazione dello stupro nel cinema, nella musica e in altre arti.
In quegli stessi anni, nel libro Against our will: Men, women and rape, la scrittrice e giornalista Susan Brownmiller parlò di «cultura solidale con lo stupro». Brownmiller sostenne che lo stupro è «un processo cosciente di intimidazione attraverso il quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura».
Il libro ebbe il merito di sganciare lo stupro dalla dimensione sessuale per collocarlo all’interno di una dinamica di potere tra i generi storicamente rintracciabile: gli uomini, stabilì Brownmiller, non stuprano spinti da un incontenibile desiderio sessuale, ma per esercitare o ribadire il loro potere e il controllo sul corpo femminile. Lo stupro, in questa dimensione, non colpisce solo la vittima: è l’espressione più estrema di una società patriarcale e misogina nella quale ci sono sistemi, istituzioni, media e atteggiamenti radicati che incoraggiano la violenza contro le donne.
Nel 1993, sempre negli Stati Uniti, venne pubblicato il libro Transforming a Rape Culture, in cui le autrici Pamela Fletcher, Emilie Buchwald e Martha Roth diedero una definizione più estesa di “cultura dello stupro”:
«Un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile e sostiene la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale è “un fatto della vita”, inevitabile come la morte o le tasse».
L’espressione “cultura dello stupro” è dunque molto ampia: non fa esclusivo riferimento allo stupro ma a una serie di pratiche e comportamenti molto diffusi come l’utilizzo di un linguaggio misogino, l’oggettivazione costante del corpo delle donne, il cosiddetto “slut shaming“, cioè la stigmatizzazione dei comportamenti e dei desideri sessuali femminili che si discostano dalle aspettative di genere tradizionali, e la colpevolizzazione della vittima quando subisce una violenza, lo spostamento cioè su di lei della responsabilità o di parte della responsabilità di quel che è accaduto.
Descrivono la “cultura dello stupro”, ad esempio, frasi quali “se l’è andata a cercare”, il sottintendere che la vittima non sia stata abbastanza attenta, o che non abbia subìto violenza dato che non ha reagito a sufficienza o non ha denunciato subito; il considerare com’era vestita, quanto aveva bevuto, quanto fosse attraente o sessualmente libera. Concetti che, spesso, si attivano non solo nei commenti, nel contesto sociale o nella rappresentazione dei media della violenza di genere, ma anche nei tribunali.
La conseguenza, o l’obiettivo, è instillare un pregiudizio su chi ha subito violenza per delegittimarla, e negare o ridimensionare la violenza di genere.
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Nel 2019, la giornalista britannica Laurie Penny ha spiegato che «nominare e denunciare la cultura dello stupro è stata una delle pratiche femministe più importanti degli ultimi tempi, ma anche una delle più discusse e fraintese».
Cultura dello stupro, dice molto chiaramente Penny, «non descrive necessariamente una società dove lo stupro è la routine, anche se è incredibilmente diffuso. La cultura dello stupro descrive il processo per cui lo stupro e le molestie sessuali vengono banalizzate e giustificate, il processo per cui l’agire sessuale delle donne è costantemente negato e ci si aspetta che donne e ragazze vivano nella paura di subire uno stupro e cerchino in ogni modo di proteggersi».
Scrive ancora Penny: «Non è necessario aver subìto uno stupro per subire le conseguenze della cultura dello stupro. Non è necessario essere uno stupratore seriale per perpetuare la cultura dello stupro. Non è necessario essere un convinto misogino per beneficiare della cultura dello stupro».