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  • Domenica 28 marzo 2021

Le navi che rimasero bloccate otto anni nel canale di Suez

Prese nel mezzo della Guerra dei Sei giorni, i loro equipaggi si inventarono perfino delle Olimpiadi per passare il tempo: è la storia della “flotta gialla”

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Quattro navi ferme nel Canale di Suez, nel 1971 (AP Photo)

La situazione di stallo creata dall’enorme nave che da martedì sta ostruendo il Canale di Suez, dopo essersi incastrata, ricorda per certi versi quando lo stesso passaggio rimase bloccato per motivi diversi oltre cinquant’anni fa. Nel 1967 quindici navi mercantili rimasero chiuse nel canale e ci sarebbero rimaste per otto anni, a causa dei conflitti tra egiziani e israeliani: sarebbero diventate famose come la “flotta gialla”, a causa del colore che avevano preso restando ferme nelle acque del canale e venendo ricoperte dalla sabbia del deserto circostante, come ha ricordato su Twitter il giornalista Ferdinando Cotugno.

La Guerra dei Sei giorni era iniziata nel giugno di quell’anno come risultato di antiche tensioni tra Israele ed Egitto che risalivano a vent’anni prima, quando fu fondato Israele. Poco prima che la guerra iniziasse le navi erano nel mar Rosso, dirette verso nord per attraversare il canale di Suez. Nel momento dell’attraversamento, però, cominciarono i bombardamenti israeliani non lontano dal canale, nella zona del Sinai. Per evitare che fosse preso dagli avversari, l’allora presidente egiziano Gamal Nasser chiuse il canale con le navi dentro.

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Mentre fuori si combatteva una guerra che non le riguardava affatto, le navi furono costrette a gettare l’ancora nel Grande Lago Amaro, uno dei laghi salati che si trova lungo il canale. A circa un chilometro e mezzo da loro c’era un aeroporto militare, perciò videro la guerra praticamente in diretta, mentre si svolgeva. «Stavamo fuori, sul ponte», ha raccontato anni dopo ad Al Jazeera Mick Miles, marinaio della nave britannica Port Invercargill. «E ci mettevamo a guardare le battaglie, gli aerei. Il capitano ci diceva di stare attenti, ma noi le guardavamo comunque. Non abbiamo dormito molto in quei sei giorni».


Oltre alla Port Invercargill c’erano anche altre tre navi britanniche, due svedesi, due americane (una delle quali ormeggiata poco lontano, nel lago Timish), due polacche, due tedesche (della Germania Ovest), una francese, una bulgara e una cecoslovacca. Perlopiù trasportavano merci di vario tipo, dai giocattoli al pellame passando per materie prime come il grano e la lana. In totale nel Grande Lago Amaro c’erano quattordici navi.

Al termine della Guerra dei Sei giorni, Israele – nonostante l’inferiorità numerica – conquistò tutta una parte di territorio egiziano a est del canale di Suez, tra cui la striscia di Gaza e soprattutto il Sinai. La nuova linea di confine tra gli eserciti dei due paesi fu stabilita proprio in corrispondenza del canale di Suez: gli equipaggi delle navi si trovavano quindi con le truppe egiziane a ovest e quelle israeliane a est, in uno stallo che non sembrava potersi risolvere facilmente.

Nasser decise che i passeggeri delle navi potevano proseguire – capita che le navi cargo portino anche persone – ma gli equipaggi e i carichi no. Per impedire la navigazione del canale, oltre a chiudere i due ingressi, fece disseminare le acque con vecchie imbarcazioni affondate, detriti e persino bombe. La sua preoccupazione principale era evitare che Israele accampasse pretese sul canale di Suez, che Nasser aveva nazionalizzato più di dieci anni prima a dispetto delle pressioni e dei pareri contrari di Francia e Regno Unito. Per Nasser il canale non era solo una grossa fonte di reddito, ma anche il simbolo politico della propria leadership, e non poteva perderlo.

Un’imbarcazione affondata per ostruire il passaggio del canale di Suez, 23 giugno 1967 (AP Photo/Aly Mahmoud)

Di fatto gli equipaggi erano ostaggi. Nei mesi successivi alla fine della Guerra dei Sei giorni, si mobilitò la Croce Rossa Internazionale, per capire come far uscire i marinai dallo stallo e convincere le due parti in causa a lasciarli andare. I capitani delle navi suggerirono di mantenere solamente la parte dell’equipaggio essenziale, e le autorità israeliane e quelle egiziane accettarono che si facesse un ponte aereo tra Atene e il Cairo per mandare a casa almeno una parte dei marinai. «Il primo mese è stato come una vacanza», raccontò nel 1974 il capitano della nave polacca Jakarta, Miroslaw Proskurnicki. «Il secondo mese è stato più difficile. Alla fine del terzo mese è diventato terribile».

Cinque mesi dopo la fine della Guerra dei Sei giorni, gli equipaggi rimasti bloccati cominciarono a ingegnarsi per rendere la situazione più vivibile. Nacque la Grande Associazione del Lago Amaro, che organizzava attività ed eventi ricreativi come giochi di carte, partite di calcio sui ponti delle navi, barbecue e giornate di sci d’acqua. Sulla nave bulgara si andava a vedere i film, su quella svedese c’era la piscina dell’associazione, mentre su una delle due navi tedesche si poteva andare in chiesa.

I marinai crearono anche un loro sistema postale, con francobolli personalizzati, più per testimonianza che per utilità dato che i francobolli non erano ritenuti validi da nessuno. L’idea dietro a quei francobolli – nel corso degli anni ne fecero centinaia – era di affermare l’indipendenza della comunità che si era creata: «Noi non eravamo né con gli egiziani, né con gli israeliani», ha spiegato John McPherson, marinaio della britannica Melampus. «Eravamo una comunità e ce ne stavamo per conto nostro. Perciò per farci la nostra identità ci facemmo i francobolli». Prima di spedire le lettere venivano aggiunti veri francobolli egiziani, anche se si racconta che qualche lettera sia arrivata a destinazione anche con il solo francobollo della Grande Associazione del Lago Amaro.

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A un anno dall’inizio dello stallo furono organizzate le Olimpiadi del Lago Amaro, in concomitanza con quelle ufficiali di Città del Messico. I marinai fecero gare di tiro con l’arco, tuffi, vela, corsa e salto in alto, e ci furono premi e medaglie – fatte di piombo e dipinte – come nelle olimpiadi vere. L’equipaggio dei polacchi fu quello che vinse più gare di tutti, seguito dai tedeschi e dai britannici.

Nel corso degli otto anni ci fu un frequente ricambio degli equipaggi minimi che badavano alle navi, perciò nessun marinaio rimase bloccato per tutti gli otto anni della chiusura del canale. Nonostante i tentativi di manutenzione, però, le grandi imbarcazioni ci misero poco a rovinarsi. Alla fine solamente le navi tedesche erano in grado di muoversi da sole, mentre le altre furono trainate. Una delle navi, l’americana African Glen, era stata addirittura affondata perché colpita da un razzo israeliano nel 1973, durante un altro conflitto armato tra arabi israeliani, la Guerra dello Yom Kippur, a seguito del quale il canale di Suez fu finalmente riaperto grazie a un accordo internazionale.

Ci volle un anno per liberare il canale di tutti i detriti e le navi affondate. Per commemorare il momento la Grande Associazione del Lago Amaro fece un set di francobolli dedicati. Le due navi tedesche, le uniche che poterono continuare il viaggio messo in pausa otto anni prima, arrivarono ad Amburgo festeggiate da decine di migliaia di persone. Peraltro furono anche le uniche navi del gruppo che ci guadagnarono qualcosa da tutta la faccenda, perché trasportavano materie prime – lana, minerali, acciaio e piombo – che raddoppiarono il loro valore durante gli anni in cui rimasero ferme.

La Nordwind e la Münsterland fotografate ad Amburgo a maggio del 1975 (AP Photo)

Secondo Cath Senker, che ha scritto un libro sulla storia della “flotta gialla”, una delle due navi tedesche, la Münsterland, ha stabilito un record del mondo per aver fatto il più lungo viaggio marittimo commerciale della storia: otto anni, tre mesi e cinque giorni.