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  • Martedì 9 marzo 2021

«Sono il calciatore più perdente della storia»

Un estratto dal nuovo libro che racconta la vita e la carriera di Paolo Maldini, uno dei più forti – e vincenti, checché ne dica lui – calciatori di sempre

Paolo Maldini (Chris Cole/Allsport)
Paolo Maldini (Chris Cole/Allsport)

Paolo Maldini, 1041 è il titolo di un libro pubblicato dalla casa editrice 66thand2nd che racconta la storia di Paolo Maldini, uno dei più grandi e famosi calciatori di sempre, a lungo capitano del Milan e della Nazionale. La vita e la carriera di Maldini, che oggi è il direttore tecnico del Milan, sono raccontati da Diego Guido, creativo e giornalista freelance che scrive di calcio per L’Ultimo Uomo, Studio ed Esquire. Il libro comprende anche diverse dichiarazioni inedite di Paolo Maldini, che ha parlato con Guido durante la scrittura del libro. Ne pubblichiamo di seguito un estratto: dove pur avendo vinto in carriera – tra molte altre cose – ben sette campionati italiani di Serie A, cinque Coppe dei campioni, due coppe Intercontinentali e un Mondiale per club, Maldini si definisce «il calciatore più perdente della storia».

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Una mattina d’inverno del 2020, durante una breve pausa di lavoro Maldini stava conversando in una delle sale riunioni di Casa Milan con Frederic Massara e Zvonimir Boban, i suoi colleghi allora più stretti. Massara è stato un discreto attaccante perlopiù di serie B e C, con una buona carriera da dirigente di calcio in serie A. Boban è stato molte cose tra cui un laureato in storia e il numero due della Fifa a stretto contatto con il presidente Gianni Infantino. Oltre che un dissidente politico.

Una foto di lui con la maglia numero dieci bianca e blu della Dinamo Zagabria era stata una delle micce accese verso la deflagrazione della guerra dei Balcani. Una foto in cui si trovava sul terreno del Maksimir, lo stadio di casa, portava la fascia di capitano al braccio e lanciava un calcio a un poliziotto della Repubblica federale jugoslava. L’agente stava prendendo a manganellate uno dei tifosi croati della Dinamo che, provocati dai cori e dal vandalismo di quelli serbi della Stella Rossa, avevano invaso il campo. Boban era entrato nello scontro in sua difesa. Pochi giorni prima il partito del nazionalista Franjo Tudjman era diventato il primo partito nel Parlamento croato e a quel punto era stato chiaro a tutti che Croazia e Serbia si sarebbero presto scontrate frontalmente, forse addirittura con le armi. La partita tra le squadre più importante dei due paesi, da sempre rivali, era stata il palcoscenico perfetto su cui sfogare le tensioni politiche ed etniche. Boban era il riferimento indiscusso della Dinamo e quel giorno, per deduzione, anche di tutta la Croazia. Per questo la foto del suo calcio in pieno petto un uomo dello Stato – uno Stato che però non sentiva più essere il suo – era stata la raffigurazione perfetta della rivolta croata verso le istituzioni jugoslave. Certificava che la disgregazione della Federazione era già in atto.

– Leggi anche: La partita che preannunciò la guerra in Jugoslavia

Per quel calcio Boban sarebbe stato squalificato ed escluso dalla Nazionale che un mese dopo avrebbe giocato a Italia 90 ma in Italia ci sarebbe comunque arrivato, un anno dopo. Nel 1991 il Milan lo avrebbe acquistato lasciandolo in prestito al Bari fino al 1992, quando avrebbe finalmente incontrato Maldini e iniziato a giocare con lui per la prima di nove stagioni trascorse assieme, fino al 2001. Al Milan era tornato diciotto anni dopo e per farlo aveva rinunciato alla sua prestigiosa carica ai vertici del governo del calcio del pianeta. E questo perché era stato l’amico Paolo a volerlo con sé.

Tornando a quella mattina d’inverno del 2020, al caffè con Massara e Boban, staccandosi per un momento dall’analisi dei parametri contrattuali di cui tener conto nelle trattative di mercato di quel gennaio, Maldini aveva pronunciato una frase di granito. «A pensarci bene io sono il calciatore più perdente della storia».

Non aveva lasciato il tempo ai due di ribattere che già aveva iniziato a produrre l’elenco delle sue rovine sportive. «Ho perso tre finali di Champions League. Tre finali di Intercontinentale. Due finali di Coppa Italia. Tre di Supercoppa Italiana». Lo ascoltavano in silenzio. Massara, con la sua carriera di calciatore tutta trascorsa lontano dai livelli più alti avrebbe anche potuto essere segretamente stizzito. E lui, allora, cosa avrebbe dovuto dire? Ma Maldini non aveva finito. «Aspetta, e con l’Italia? Con l’Italia, ho perso una finale dei Mondiali, una finale degli Europei e una semifinale in casa nel ’90». Massara e Boban lo avevano più che altro lasciato parlare. Poi avevano cambiato argomento, prima di rimettersi al lavoro. Se numericamente e qualitativamente il suo discorso sulle sconfitte ha una logica, questa logica non regge contro il significato più puro della parola «perdente». Perdente è chi, per demerito o per cattiva sorte, dopo le sconfitte non trova nuove occasioni per vincere.

Un perdente da manuale è ad esempio il mediano tedesco Carsten Ramelow. Ha giocato per molte stagioni nel Bayer Leverkusen e qualcuna meno nella Nazionale tedesca, e tra maggio e luglio del 2002 gli era accaduto di vivere il periodo più decisivo di tutta la sua carriera. Con il Bayer era andato vicino a vincere la Bundesliga, la Coppa di Germania e la Champions League, mentre con la Mannschaft aveva quasi messo le mani sulla Coppa del Mondo. Il primo trofeo lo aveva perso all’ultima giornata di campionato, gli altri tre perdendo ognuna delle rispettive finali. Da quei tremendi due mesi in poi, Ramelow non ha mai più potuto lottare per nessun trofeo.

So bene che la frase di Maldini era prima di tutto una battuta e so che conosce alla perfezione la differenza profonda tra sconfitti e perdenti. Ma credo fosse comunque utile qui sistemare le cose.