Di sicuro i Neanderthal non erano grandi conversatori, ma forse si parlavano

Un nuovo studio sul loro apparato uditivo sostiene di aver risolto un vecchio dubbio degli archeologi

Un visitatore del Neanderthal Museum a Mettmann, in Germania, insieme alla ricostruzione di un uomo di Neanderthal (AP Photo/Martin Meissner)
Un visitatore del Neanderthal Museum a Mettmann, in Germania, insieme alla ricostruzione di un uomo di Neanderthal (AP Photo/Martin Meissner)

Vent’anni fa al paleoantropologo spagnolo Ignacio Martínez venne un’idea. Fino a quel momento gli archeologi si erano arrovellati su una questione senza venirne a capo: volevano capire se i Neanderthal – la specie di ominidi vissuti in un periodo compreso probabilmente tra mezzo milione e qualche decina di migliaia di anni fa – avessero un linguaggio verbale con cui comunicavano tra loro. Per farlo, da tempo stavano tentando in qualche modo di ricostruirne la capacità di emettere suoni e articolarli, ma senza successo. Martínez pensò allora di affrontare la questione prendendola da un altro lato, cioè ricostruendo la loro capacità di udire.

A partire da quest’idea iniziò una ricerca durata vent’anni, portata avanti da una squadra di dieci ricercatori e ricercatrici, i cui risultati sono stati pubblicati di recente su Nature Ecology & Evolution. Lo studio spiega come Martínez e i suoi colleghi siano riusciti a scoprire che l’apparato uditivo dei Neanderthal percepiva i suoni in modo simile a quello degli esseri umani moderni. E questo, secondo i ricercatori, dimostra che i Neanderthal avevano un linguaggio simile al nostro: «Dopo più di un secolo di ricerca, crediamo di aver fornito una risposta conclusiva alla domanda sulla capacità dei Neanderthal di parlare», ha detto Martínez.

Da quando furono scoperti i primi resti nell’Ottocento, le ricerche archeologiche si sono occupate estesamente dei Neanderthal, in modo particolare della loro capacità di comunicare. Gli scienziati da decenni si domandano se i Neanderthal avessero un qualche tipo di linguaggio, nel tentativo di sciogliere l’annosa questione di come l’essere umano abbia sviluppato la capacità di parlare con i suoi simili.

Per il loro lavoro Martínez e gli altri ricercatori hanno usato la tomografia computerizzata (TC), la tecnica di indagine usata anche in medicina che permette di creare delle immagini tridimensionali di parti anatomiche grazie ai raggi X. Con questa tecnica hanno elaborato modelli virtuali e tridimensionali degli apparati uditivi di cinque Neanderthal, di dieci Homo sapiens (la nostra specie) e di nove ominidi antenati dei Neanderthal. Dopodiché hanno inserito i dati raccolti in un sistema sviluppato nel campo dell’ingegneria biomedica, basato su un software in grado di misurare la capacità di un apparato uditivo.

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A questo punto bisogna fare un piccolo passo indietro per capire come funziona la nostra percezione dei suoni. L’apparato uditivo degli esseri umani è molto complesso e si è evoluto in modo tale da percepire i suoni che vanno dai 15-20 hertz (Hz) fino a circa 20 kilohertz (kHz), cioè 20mila Hz. All’interno di questo campo di frequenze, definito campo di udibilità, ce ne sono alcune che percepiamo meglio di altre, quelle dei suoni emessi quando parliamo, che vanno dai 100 Hz ai 5 kHz. In particolare, percepiamo bene le frequenze tra i 3 e i 5 kHz, quelle delle consonanti, definite dai ricercatori il “punto ottimale” dell’udito.

Attraverso le misurazioni del software, i ricercatori hanno scoperto che l’apparato uditivo dei Neanderthal ha un “punto ottimale” equivalente a quello dell’Homo sapiens, e questo secondo loro dimostra che anche i Neanderthal avevano un linguaggio verbale. Il “punto ottimale” dell’udito degli altri ominidi presi in considerazione dallo studio, antenati dei Neanderthal, si trova invece a frequenze diverse, più simili a quelle degli scimpanzé. «L’uso delle consonanti distingue il linguaggio umano dalla comunicazione dei mammiferi, che è fatta quasi completamente da vocali», ha spiegato al New York Times Rolf Quam, paleoantropologo che ha partecipato alla ricerca. «Come grugniti, ululati e grida».

La ricostruzione di come potrebbe essere stato un bambino Neanderthal di 9 anni (Wikimedia Commons)

Il dibattito intorno alla comunicazione tra esseri umani primitivi, e in particolare tra Neanderthal, esiste da molto tempo ma si è animato in modo particolare a partire dagli anni Ottanta. A causare l’interesse degli scienziati fu il ritrovamento di un osso ioide appartenuto a un Neanderthal, dalla forma molto simile a quella dei moderni esseri umani. Lo ioide è quell’osso che si trova alla base della lingua, al livello della quarta vertebra cervicale, ed è fondamentale per il movimento della lingua e quindi per la produzione e l’articolazione dei suoni (la cosiddetta fonazione). All’epoca del ritrovamento in molti pensarono che quella potesse essere una prova del fatto che i Neanderthal parlassero, ma un unico reperto fossile non era sufficiente in mancanza di altri resti di tessuto.

Anche se i partecipanti allo studio sostengono il contrario, alcuni ritengono che non sia davvero stata trovata una risposta alla domanda principale, cioè se i Neanderthal parlassero. Robert Berwick, linguista computazionale al Massachusetts Institute of Technology di Boston, dice che il “punto ottimale” dell’udito dei Neanderthal non dimostra necessariamente che avessero anche le capacità cognitive per creare un sistema linguistico simile al nostro. Secondo Berwick la forma del nostro apparato uditivo non ha un collegamento diretto con la nostra capacità di comunicare: «Se ci fossimo evoluti con le orecchie di una forma diversa, avremmo semplicemente fatto un uso diverso delle frequenze».

Secondo Quam invece i risultati dello studio sono importanti e soprattutto affidabili. «Questo è uno degli studi più importanti della mia carriera», ha detto Quam. «I risultati sono attendibili e dimostrano chiaramente che i Neanderthal avevano la capacità di percepire e produrre il linguaggio umano. Si tratta di uno dei pochi lavori di ricerca basati su prove fossili in corso sull’evoluzione del linguaggio, un tema antropologico notoriamente complicato».

A convincere i partecipanti allo studio della fondatezza della loro ipotesi, tra le altre cose, ci sarebbero numerose testimonianze – scoperte negli ultimi anni – del fatto che i Neanderthal avessero abitudini complesse e uno stile di vita più raffinato di come si immaginava un tempo: per esempio, dipingevano, costruivano collane da indossare e probabilmente seppellivano i morti. In Francia, nel 2016, furono trovati i resti di alcune stalagmiti rotte e disposte a formare dei cerchi concentrici, insieme ai resti di alcune ossa bruciate, che fecero pensare a una sorta di rito funebre. Queste scoperte hanno cambiato la visione stereotipata del passato, che immaginava i Neanderthal come esseri primitivi e privi di una vera coscienza.

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