Continuiamo a non sapere molto dell’impatto delle scuole sui contagi
Vengono chiuse sulla base di quello che sappiamo del coronavirus, ma di fatto mancano studi approfonditi, nonostante qualche novità
Fin dall’inizio dell’epidemia, la chiusura delle scuole è uno dei temi più discussi, soprattutto perché le decisioni al riguardo di fatto non sono state supportate da studi e dati approfonditi e sufficientemente affidabili, che mancano ancora oggi. Se da un lato non è ancora stata verificata una correlazione certa tra l’apertura delle scuole e l’aumento dei positivi al coronavirus nella popolazione, dall’altro non sono state indagate nemmeno le reali conseguenze della didattica a distanza sull’apprendimento e la socialità degli studenti, tra le preoccupazioni maggiori per le famiglie, che ormai da un anno denunciano grandi difficoltà nel riorganizzare il proprio lavoro e la vita privata dovendo badare ai figli tutto il giorno.
Nonostante limiti e incertezze, la chiusura delle scuole è stata una delle misure restrittive decise con maggiore disinvoltura: sia perché la correlazione tra le scuole aperte e i maggiori contagi di fatto è stata sempre data per scontata, sia perché è uno dei provvedimenti più semplici da attuare. Da martedì, con il nuovo DPCM, sono state introdotte regole che prevedono nuovi meccanismi per chiudere le scuole nelle regioni dove si supera una certa soglia di nuovi positivi, oltre a un’estensione della chiusura nelle zone rosse.
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I contagi in aumento
A un anno dall’inizio dell’epidemia in Italia, sembra che molti amministratori abbiano compreso l’importanza di studiare più a fondo l’impatto del coronavirus sulla scuola. Nelle ultime settimane, infatti, sono iniziate alcune indagini a livello nazionale e regionale con l’obiettivo di monitorare l’incidenza dei contagi tra i giovani e verificare le cause della trasmissione del virus.
In molte regioni italiane l’anno scolastico è iniziato lo scorso 14 settembre e nel corso degli ultimi mesi ci sono state molte interruzioni decise da ordinanze regionali. Da venerdì 6 novembre, con l’introduzione dei colori a seconda della gravità della situazione epidemiologica, nelle regioni in area rossa gli studenti delle scuole superiori, della seconda e della terza media hanno seguito le lezioni da casa, mentre sono rimasti in classe gli alunni dall’asilo nido fino alla prima media. Dopo le vacanze di Natale, l’11 gennaio sono riprese le lezioni in presenza per il 50 per cento della didattica. Da metà gennaio, con l’introduzione delle zone rosse locali in molte province e comuni, la situazione è stata ancora più frammentata.
Secondo l’ultimo bollettino nazionale di sorveglianza epidemiologica pubblicato il 26 febbraio dall’Istituto superiore di sanità, il 18,1 per cento di tutti i contagi riguarda bambini e giovani sotto i 18 anni, una percentuale in «lievissimo aumento» rispetto al 17,9 per cento del periodo tra l’1 e il 14 febbraio. È una percentuale significativa e forse destinata ad aumentare in presenza delle varianti, che sembrano essere più contagiose tra i bambini e gli adolescenti fino ai 18 anni.
Uno degli studi che hanno convinto il Comitato tecnico scientifico a consigliare nuove possibili chiusure per le scuole si intitola “Focus età evolutiva” ed è stato realizzato dall’Istituto superiore di sanità prendendo in esame i dati dal 28 agosto al 21 febbraio. Secondo l’indagine, dall’ultima settimana di gennaio l’incidenza settimanale ogni 100mila abitanti dei casi tra zero e 18 anni ha superato quella dei casi trovati tra tutte le persone con più di 20 anni.
Come si può osservare dal grafico, l’incidenza attuale è comunque molto inferiore rispetto a quella rilevata durante la cosiddetta seconda ondata, da ottobre fino a dicembre. Si suppone che l’andamento e il calo siano dovuti soprattutto alle misure restrittive: non solo la chiusura delle scuole in molte regioni e in periodi diversi, ma anche l’introduzione delle limitazioni agli spostamenti a seconda dei colori delle aree: giallo, arancione e rosso.
In un altro grafico pubblicato nello studio si può notare la crescita dell’incidenza settimanale ogni 100mila abitanti nella fascia d’età tra 10 e 19 anni avvenuta tra l’inizio e la metà di febbraio.
I dati che mostrano lo stato clinico dei casi con meno di 20 anni confermano che tra i giovani le conseguenze del virus sono più lievi rispetto agli adulti e soprattutto agli anziani. Circa il 70 per cento di tutti i positivi con meno di 20 anni risulta asintomatico al momento della diagnosi, circa il 20 per cento è considerato “lieve” e poco più del 10 per cento “paucisintomatico”. I dati, approssimativi perché non ancora pubblici, sono ricavati da questo grafico contenuto nel report dell’ISS.
L’alta incidenza dei casi trovati tra bambini e giovani sul totale dei positivi non significa necessariamente che il contagio riguardi realmente così tanto queste fasce della popolazione. Dipende infatti, almeno in parte, dal fatto che nelle scuole è in vigore un sistema di monitoraggio perlopiù tempestivo e capillare. Lo dimostra anche il dato sugli asintomatici tra i ragazzi positivi: dipende certamente dal fatto che sui più giovani il coronavirus ha effetti minori, ma anche dal fatto che nelle scuole è più facile che un positivo asintomatico sia rilevato, perché si fanno più tamponi.
Dall’inizio dell’anno scolastico, infatti, in tutte le regioni sono stati creati “punti tampone” dove è possibile verificare i casi sospetti tra gli studenti in tempi rapidi per mettere subito in quarantena le classi all’accertamento della positività. I protocolli hanno consentito di monitorare l’ambiente scolastico in modo più esteso rispetto a tutto il resto della popolazione.
Le indagini regionali
Nell’ultimo mese, inoltre, sono iniziate alcune indagini a livello regionale. Una delle più strutturate è quella organizzata dal Veneto che da inizio gennaio ha avviato un monitoraggio nelle scuole per cercare di risalire con precisione all’origine dei contagi. Dal 7 gennaio al 23 febbraio sono state coinvolte 27.460 persone tra studenti, operatori e docenti in quarantena oppure scelti a campione per partecipare al monitoraggio. In due mesi gli studenti positivi, dai nidi alle superiori, sono stati 1.702, mentre quelli in quarantena 21.540. I docenti e gli operatori positivi sono stati 257 e in quarantena 1.651.
Il dato più interessante, che risponde a una delle domande più importanti sull’impatto della scuola, riguarda gli studenti delle scuole superiori: secondo lo studio del Veneto, il 50,7 per cento degli studenti tra 14 e 19 anni sottoposti alla quarantena si è infettato a causa di un contatto extrascolastico. Non in classe, quindi. Questa percentuale, però, non esclude l’impatto diretto della scuola, perché con “extrascolastico” si può intendere anche il viaggio in autobus da casa a scuola, evitato con la didattica a distanza.
Anche in Emilia-Romagna è iniziato un monitoraggio che negli ultimi giorni ha mostrato un aumento preoccupante dei casi. Nel mese di febbraio infatti sono stati trovati 6.080 positivi tra bambini, ragazzi, insegnanti e personale scolastico, con un aumento del 68 per cento rispetto all’intero mese di gennaio, quando i casi erano stati 3.614. Nelle ultime due settimane – dal 15 al 21 e dal 22 al 28 febbraio – i numeri indicano un’incidenza dei casi dai 6 ai 18 anni superiore a 350 ogni 100mila studenti, mentre tra i bambini fino ai 5 anni l’incidenza è vicina ai 250 casi. «Secondo l’interpretazione unanime degli scienziati, tutto questo è dovuto alla maggiore diffusività del virus a causa della predominanza della variante inglese», ha detto Raffaele Donini, assessore regionale alle Politiche della salute. «Per quanto riguarda le scuole speriamo di poter sviluppare test di massa vicino agli istituti, non solo nelle farmacie, per alunni, professori e personale».
In Toscana il servizio sanitario ha iniziato il progetto «Scuole sicure» che, oltre a monitorare i casi positivi tra gli studenti, prevede screening gratuiti e volontari al personale docente e non docente, e screening a campione tra gli studenti. Secondo gli ultimi dati, in Toscana i positivi tra gli studenti sono aumentati in modo significativo: nella settimana tra i 4 e il 10 gennaio erano 341, mentre tra il 15 e il 21 febbraio sono stati 881. Non ci sono dati certi, però, sull’origine dei contagi.
Secondo il direttore dell’ufficio scolastico provinciale di Firenze, Roberto Curtolo, l’ambiente scolatico è molto controllato e le probabilità che la trasmissione del virus avvenga nelle classi è inferiore rispetto all’esterno. «Se non si controllano parchi e luoghi di aggregazione non riusciremo a risolvere il problema», ha detto in un’intervista al Corriere Fiorentino.
In mancanza di dati e studi, tutte le considerazioni che vengono espresse sul ruolo della scuola nella diffusione dei contagi sono opinioni basate sull’aneddotica. Gli stessi esponenti del Comitato tecnico scientifico hanno dato pareri discordanti, e spesso hanno cambiato opinione nel giro di poche settimane, senza dare sicurezze a chi deve decidere e alle famiglie.
L’unico studio condotto dall’Istituto superiore di sanità per verificare una possibile correlazione tra l’apertura delle scuole e l’andamento dei contagi è stato pubblicato lo scorso 30 dicembre. Era stato annunciato come una possibile svolta, ma anche in questo caso le conclusioni hanno portato solo nuovi interrogativi. «La chiusura delle scuole è stata adottata in tutto il mondo per frenare la diffusione di COVID-19», si legge. «Tuttavia, l’impatto della chiusura e della riapertura delle scuole sulle dinamiche epidemiche rimane ancora poco chiaro».