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  • Sabato 27 febbraio 2021

Chi ha vinto tra Facebook e l’Australia

Il social network ha sbloccato la condivisione delle news e il parlamento ha approvato la contestata legge sui media, ma bisognerà aspettare per capire chi ci ha guadagnato

(Robert Cianflone/Getty Images)
(Robert Cianflone/Getty Images)

Giovedì scorso il parlamento australiano ha approvato in via definitiva la discussa legge che dovrebbe obbligare le piattaforme online come Facebook e Google a pagare gli editori per l’utilizzo dei loro contenuti. L’approvazione è arrivata dopo che Facebook aveva bloccato la possibilità di accedere ai contenuti giornalistici tramite la sua piattaforma in Australia: per alcuni giorni gli utenti di Facebook in Australia non hanno potuto vedere nessun tipo di contenuto giornalistico, mentre agli utenti di tutto il mondo è stato impedito di condividere sulla piattaforma link dei siti di notizie australiani.

Facebook ha riammesso sulla piattaforma i contenuti giornalistici soltanto dopo che il governo aveva accettato di inserire nella legge alcuni emendamenti, che sono poi passati nella versione definitiva. Entrambi i contendenti si sono detti soddisfatti dell’accordo, e ciascuno ha sostenuto di aver ottenuto quello che voleva: per il governo, la legge mantiene comunque l’obbligo per le piattaforme di pagare gli editori, mentre Facebook sarebbe riuscito a ottenere più margine di contrattazione per evitare obblighi gravosi.

Anche gli analisti sono piuttosto divisi tra chi sostiene che sia stato il governo a cedere e chi invece ritiene che Facebook abbia subìto una sconfitta. Una delle ragioni di questa divisione è che gli emendamenti alla legge aumentano l’incertezza di tutto il processo, aggiungendo nuove fasi di negoziazione e attribuendo più potere discrezionale sia al governo australiano sia a Facebook. L’efficacia o meno della legge, probabilmente, dipenderà dalla volontà politica del governo di continuare a pretendere da Facebook e dalle altre piattaforme un certo trattamento economico a favore dei giornali.

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Cosa prevedeva la legge, e cosa è cambiato
La legge approvata in Australia (il cui nome ufficiale è News Media and Digital Platforms Mandatory Bargaining Code) impone alle piattaforme digitali di stringere con gli editori accordi economici per pagare i contenuti giornalistici ospitati sui loro servizi. Lo stato australiano decide quali piattaforme sono soggette alla legge, in base al loro dominio del mercato (erano state citate esplicitamente soltanto Facebook e Google) e quali editori possono qualificarsi per ricevere i pagamenti (verrà stilato un elenco di editori, sulla base di una lunga serie di criteri espressi nel testo di legge).

Prima dell’inserimento degli emendamenti, la legge prevedeva che se piattaforma ed editore non fossero riusciti ad accordarsi sul pagamento, si sarebbe aperto un arbitrato obbligatorio per dirimere la questione in maniera vincolante e rapida: ciascuna delle due parti avrebbe fatto un’offerta, e ne sarebbe stata scelta una delle due. L’arbitrato è ancora previsto, ma soltanto come ipotesi di ultima istanza, come vedremo.

La giustificazione della legge è che le entrate pubblicitarie che le piattaforme digitali ottengono grazie alla diffusione di contenuti giornalistici dovrebbero essere condivise con chi quei contenuti li scrive, in un contesto in cui Facebook e Google hanno praticamente il monopolio della pubblicità online, e in cui il crollo della pubblicità pagata ai giornali ha provocato la perdita di moltissimi posti di lavoro e la chiusura di testate, non soltanto in Australia.

Nelle settimane e nei giorni precedenti all’approvazione della legge, Google ha rapidamente stretto accordi economici con tutti i principali editori australiani. Anzitutto News Corp, di gran lunga il più importante editore del paese, di proprietà di Rupert Murdoch: i contenuti delle testate di News Corp, tra cui ci sono il Wall Street Journal, il New York Post e l’Australian, saranno ospitati su Google News Showcase, una sezione di Google News, in cambio di «pagamenti significativi» da parte di Google. L’azienda ha stretto o sta lavorando ad accordi simili anche con altri editori, come Seven West Media, Junkee media e GNM, l’editore del Guardian.

Facebook, invece, aveva scelto la risposta opposta: con un comunicato abbastanza brusco, aveva annunciato l’eliminazione completa dei contenuti giornalistici dalla sua piattaforma in Australia, e la rimozione in tutto il mondo dei contenuti dei giornali australiani. La disputa si è risolta soltanto dopo l’introduzione degli emendamenti.

Gli emendamenti
Questi emendamenti riguardano alcuni aspetti fondamentali della legge. Anzitutto, il governo (e più precisamente il ministro delle Finanze) mantiene la facoltà di designare quali piattaforme sono soggette alla regolamentazione, ma deve dare loro un mese di preavviso prima della designazione ufficiale. Inoltre, se il governo stabilisce che una piattaforma ha dato «contributi significativi alla sostenibilità dell’industria giornalistica australiana» allora può decidere di non applicare la legge.

È stata mitigata una clausola di non discriminazione che impediva alle piattaforme di riservare trattamenti diversi alle aziende giornalistiche sulla base della loro partecipazione o meno al processo previsto dalla legge: ora le piattaforme possono stringere diversi tipi di accordi commerciali, offrire remunerazioni differenti agli editori, e al tempo stesso riservare loro trattamenti differenti, per esempio nell’ordine di apparizione su un motore di ricerca.

Alle piattaforme è stato concesso più tempo prima di entrare nell’arbitrato, che era l’aspetto più temibile di tutta la legge, perché le lasciava praticamente senza difese (il giudizio è finale e vincolante) ed era un incentivo per gli editori a fare richieste molto esose. Prima l’arbitrato scattava dopo tre mesi di negoziati tra piattaforma ed editore, se non si fosse trovato un accordo. Adesso, dopo tre mesi di negoziati, se ancora non c’è un accordo, cominciano due mesi di “mediazione”, rinnovabili una sola volta. Se dopo tutto questo tempo (un massimo di sette mesi) non si è trovato un accordo, scatta l’arbitrato.

Infine, le piattaforme hanno mantenuto la facoltà di sospendere la diffusione di news, e il governo ha accettato che, se la diffusione di contenuti è sospesa, la legge non si applica: «Questo codice si applica soltanto nella misura in cui una piattaforma renda disponibile intenzionalmente il contenuto giornalistico attraverso questi servizi».

La pagina Facebook del giornale The Australian, vuota, durante il blocco imposto dal social network

Ha vinto Facebook?
Un gruppo piuttosto folto di analisti sostiene che Facebook abbia ottenuto abbastanza concessioni da indebolire la legge in maniera considerevole: tanto considerevole che, se le cose andranno per il suo verso, non dovrà mai esserne soggetto.

Anzitutto perché, se prima degli emendamenti era praticamente certo che Facebook e Google sarebbero stati designati come piattaforme sottoposte alla legge (tanto che la Commissione antitrust australiana, l’ACCC, più volte negli scorsi mesi aveva citato le due aziende come l’obiettivo della nuova legislazione), adesso non è più detto: spetta al governo decidere se una piattaforma ha dato «contributi significativi» all’industria, e Facebook questa settimana ha già cominciato le trattative per trovare accordi commerciali con i principali editori australiani, tra cui Seven West Media, Nine Entertainment e il Guardian.

Inoltre, l’azienda ha annunciato che nei prossimi tre anni investirà un miliardo di dollari per sostenere il giornalismo in tutto il mondo.

Considerando che le iniziative di Google sono molto simili, c’è la possibilità che, come ha notato in un comunicato MEAA, un sindacato di piccoli editori e lavoratori del mondo dello spettacolo australiano, la legge «non si applichi a nessuno. Resterà in un cassetto del ministro del Tesoro come una minaccia per le compagnie digitali che si comportano male, le quali a loro volta potranno ribattere alla minaccia» con un’altra sospensione delle news dalle loro piattaforme. Facebook ha inoltre quasi neutralizzato la clausola di non discriminazione che prevedeva equità di trattamento tra tutti gli editori.

Il fatto che il governo abbia riconosciuto che se una piattaforma non rende disponibili le notizie la legge non si applica potrebbe aiutare Facebook a evitare di dover entrare in un arbitrato con gli editori: alcuni analisti hanno ipotizzato che Facebook potrebbe usare la minaccia della sospensione dei contenuti giornalistici in maniera selettiva. È quello che sembra voler dire Campbell Brown, la vicepresidente di Facebook per le partnership con le aziende giornalistiche, che dopo l’accordo ha diffuso un comunicato in cui sostiene che gli emendamenti «ci consentiranno di sostenere gli editori che decidiamo noi, compresi quelli piccoli e locali» e che «il governo ha chiarito che manterremo la possibilità di decidere se le news appaiono o meno su Facebook, così che non saremo automaticamente soggetti a un negoziato forzato».

Il risultato ottenuto da Facebook, in questo senso, sarebbe aver ottenuto un più ampio margine di manovra per evitare gli automatismi (soprattutto l’arbitrato) che per l’azienda erano la parte più preoccupante della legge australiana.

Ha vinto il governo australiano?
Il governo però sostiene, emendamenti o meno, di aver ottenuto l’obiettivo che si era posto fin da principio: convincere le piattaforme a entrare in trattativa con gli editori. Anche se l’arbitrato è stato relegato a risorsa di ultima istanza, Facebook ha ripristinato la condivisione dei contenuti giornalistici, e contestualmente ha cominciato i negoziati per dare agli editori forme di retribuzione, cosa che Google aveva già cominciato a fare: «Non ho mai voluto che qualcuno arrivasse all’arbitrato, io volevo la minaccia dell’arbitrato, per dare potere negoziale alle aziende giornalistiche così che potessero concludere degli accordi commerciali», ha detto Rod Sims, il capo della ACCC e uno dei principali architetti della legge.

Secondo alcuni analisti, inoltre, la minaccia dell’arbitrato non è esclusa, e il governo non ha perso la possibilità di metterla in atto: «È come se il ministro del Tesoro avesse un grosso bastone in mano e dicesse: se non vi comportate come se il codice si applicasse a voi, faremo in modo che si applichi», ha detto al Sydney Morning Herald Belinda Barnet, un’esperta di media digitali dell’Università di tecnologia di Swinburne.

Molto dipenderà dunque dalla volontà politica del governo, che secondo alcuni mantiene una posizione contrattuale forte, perché in qualunque momento può decidere di designare Facebook e Google come piattaforme soggette alla legge.

Il problema delle piccole aziende giornalistiche
Una delle criticità principali della legge australiana, nota da tempo ma tornata nel dibattito dopo l’introduzione degli emendamenti, è che rischia di escludere i piccoli editori. La legge ha già dei criteri piuttosto stringenti per definire quali aziende possono rientrare nella categoria di editori, e tra queste c’è quello economico: il fatturato annuale deve essere di almeno 150.000 dollari australiani, circa 100.000 euro. Inoltre, è sempre stata piuttosto spostata sulle esigenze dei grandi editori, tanto che secondo molti sarebbe evidente nella sua concezione l’influenza soprattutto di Rupert Murdoch, uno degli editori più potenti del mondo, il cui business è nato in Australia, suo paese d’origine, e che conduce ormai da anni una campagna molto dura contro le piattaforme online.

Dopo l’approvazione degli emendamenti, il sindacato MEAA ha sostenuto che gli accordi che Facebook e Google stanno stringendo con gli editori rischiano di escludere quelli più piccoli, perché le piattaforme potrebbero ritenere che per dare «contributi significativi» sia sufficiente remunerare soltanto le aziende più grandi.

Inoltre, e questo è un problema che non dipende dagli emendamenti, la legge australiana aiuta gli editori di giornali ma non necessariamente il giornalismo: una volta ricevuto un pagamento da Facebook e Google, niente vieta agli editori di distribuire i soldi come dividendi agli azionisti, anziché investirli nell’attività giornalistica. Né ci sono criteri o garanzie che vengano destinati a progetti di informazione più accurati e utili alle comunità, piuttosto che a prodotti giornalistici screditati o mediocri in cerca di click o consensi facili e partigiani.

– Leggi anche: Perché i lavoratori di Google vogliono fare un sindacato

È solo l’inizio
Le vicende della legge sui media in Australia sono state osservate con attenzione un po’ in tutto il mondo perché potrebbero diventare il modello dei rapporti tra i media e le piattaforme anche in altri paesi. «Non c’è dubbio che in Australia si sia combattuta una battaglia che riguarda il mondo», ha detto questa settimana Josh Frydenberg, il ministro del Tesoro australiano. «Facebook e Google non hanno nascosto il fatto che sanno che gli occhi del mondo sono sull’Australia».

Per ora l’Australia è l’unico paese al mondo ad aver approvato una legge che obbliga in maniera così esplicita le piattaforme digitali a pagare per i contenuti giornalistici, se si esclude l’esperimento spagnolo con Google News nel 2014. I politici di altri governi, però, si sono detti interessati a seguire e, nel caso, emulare l’esperimento.

Il più deciso sembra il governo del Canada, il cui ministro per il Patrimonio canadese (una figura che si avvicina al ministro della Cultura), Steven Guilbeault, ha detto che intende riprendere i princìpi della legge australiana, anche se sta ancora lavorando su quale modello adottare.

Nell’Unione Europea, la direttiva sul copyright approvata nel 2019 prevede alcune forme di remunerazione per i contenuti giornalistici, ma il modo in cui queste remunerazioni dovrebbero essere concesse è ancora oggetto di interpretazioni. L’Antitrust francese, per esempio, l’anno scorso aveva ordinato a Google di trovare accordi economici con gli editori, cosa che è stata fatta a gennaio, ma per ora Facebook sembra escluso. Andrus Ansip, ex primo ministro dell’Estonia ed ex commissario europeo per il Mercato unico digitale, commentando le vicende australiane ha detto al Washington Post che vuole vedere se la direttiva sul copyright sarà in grado di garantire una remunerazione ai giornali, ma che in ogni caso «non ci fermeremo finché le piattaforme non avranno accettato il diritto degli autori a una remunerazione equa».

A riprova del fatto che l’Unione Europea sta guardando attentamente cosa succede in Australia, questa settimana la vicepresidente della Commissione con delega all’Antitrust, Margrethe Vestager, ha detto durante un’audizione in Parlamento che se le piattaforme dovessero sospendere la condivisione delle news, come fatto in Australia, la Commissione risponderebbe con forza e avrebbe «numerosi strumenti da utilizzare».

Negli Stati Uniti non ci sono disegni di legge che prevedono la remunerazione dei media, ma Ken Buck, un deputato del Partito Repubblicano, ha detto a Reuters che la sottocommissione Antitrust, di cui fa parte, intende presentare una serie di proposte di legge bipartisan, la prima delle quali dovrebbe consentire alle piccole aziende giornalistiche di negoziare con le piattaforme delle forme di remunerazione.