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  • Mercoledì 24 febbraio 2021

Il principio di “giurisdizione universale” e il regime siriano di Bashar al Assad

Grazie a questo principio un cittadino siriano è stato condannato in Germania per crimini contro l’umanità non commessi né in Germania né contro cittadini tedeschi

Eyad al Gharib 
 (Thomas Lohnes/Pool Photo via AP)
Eyad al Gharib (Thomas Lohnes/Pool Photo via AP)

Quello della “giurisdizione universale” è un principio del diritto internazionale poco applicato e conosciuto, che però negli ultimi due anni è stato nuovamente dibattuto per via di un processo molto particolare in corso in Germania. Il processo, iniziato nel 2019, ha avuto come imputati due cittadini siriani – due funzionari piuttosto importanti del regime siriano di Bashar al Assad – accusati di avere compiuto crimini contro l’umanità durante i primi anni della guerra civile in Siria, cominciata nel 2011. Entrambi si trovano in Germania da qualche anno. La particolarità del processo è stata che i crimini non sono stati commessi né in Germania né contro cittadini tedeschi, e l’intero procedimento è stato possibile solo in virtù dell’esistenza del principio di “giurisdizione universale”.

Mercoledì è arrivata la prima sentenza. L’Alta Corte Regionale di Coblenza, nello stato tedesco di Renania-Palatinato, ha condannato a quattro anni e mezzo di carcere Eyad al Gharib, uno dei due imputati, per il suo ruolo nell’arresto e nel trasferimento dei prigionieri del regime nei centri di interrogatorio gestiti dal governo di Assad. Il processo all’altro imputato, l’ex colonnello dell’intelligence siriana Anwar Raslan, è ancora in corso.

Da sempre agli stati è riconosciuto il potere di esercitare la propria giurisdizione sul territorio nazionale, e in alcuni casi sui propri cittadini che abbiano compiuto reati all’estero o su stranieri che dovunque si trovino abbiano compiuto reati contro i cittadini di quel paese. In linea di massima, i tribunali italiani non possono giudicare uno straniero che abbia compiuto un reato contro un altro straniero in un paese diverso dall’Italia.

C’è però un’eccezione a questo principio: la “giurisdizione universale”, che si basa sull’idea che alcune norme internazionali siano talmente rilevanti da valere per tutti gli stati del mondo, e che tutti gli stati del mondo si debbano impegnare a farle rispettare. Sono le norme che vietano crimini estremamente gravi come il genocidio, la tortura e i crimini di guerra e contro l’umanità.

Il concetto di “giurisdizione universale” non è nuovo. Si cominciò a discuterne, e in seguito ad applicarlo, a partire dal Diciassettesimo secolo per processare pirati e trafficanti di schiavi responsabili di crimini che per loro stessa natura venivano compiuti in zone del mondo che non erano di nessuno.

In seguito questo principio giuridico fu alla base di casi eclatanti e di grande risalto internazionale. Nel 1961, per esempio, il gerarca nazista Adolf Eichmann fu processato in Israele per crimini contro l’umanità commessi in Europa durante la Seconda guerra mondiale, quando lo stato d’Israele non era nemmeno nato: il governo israeliano sostenne la legittimità del procedimento invocando proprio la giurisdizione universale. Un argomento simile fu alla base dell’arresto a Londra del dittatore cileno Augusto Pinochet, avvenuto nel 1998 su richiesta di un tribunale spagnolo: le famiglie delle vittime della repressione militare cilena degli anni Settanta e Ottanta, che non erano riuscite ad avviare procedimenti penali in patria, si erano infatti rivolte alla giustizia spagnola, che aveva deciso di occuparsene anche a causa del coinvolgimento di cittadini spagnoli.

Un altro caso molto rilevante fu quello che coinvolse Hissène Habré, presidente e dittatore del Ciad negli anni Ottanta, accusato di avere ucciso e torturato migliaia di persone: dopo anni di tira e molla, nel 2016 Habré fu condannato all’ergastolo da un tribunale del Senegal appoggiato dall’Unione Africana e finanziato dalla comunità internazionale.

Nonostante gli eclatanti casi di Eichmann, Pinochet e Habré, a partire dagli anni Duemila l’applicazione della giurisdizione universale cominciò a subire un certo ridimensionamento. I critici erano parecchi: tra loro c’era anche Henry Kissinger, noto segretario di Stato americano sotto la presidenza di Richard Nixon, che in un articolo pubblicato nel 2001 su Foreign Affairs sostenne che la giurisdizione universale rischiava di creare una tirannia universale: quella dei giudici. Inoltre, ha spiegato Julia Crawford, giornalista specializzata tra le altre cose in giustizia transnazionale, la giurisdizione universale veniva invocata ovunque e contro chiunque, senza coordinamento e senza preparazione sufficiente per mettere in piedi processi efficaci: «Le persone cominciarono a pensare che una versione estesa della giurisdizione universale fosse ormai morta» e diversi paesi cominciarono a rendere più restrittiva la sua interpretazione.

Oggi l’interpretazione più diffusa è che la giurisdizione universale si possa applicare a condizione che il presunto criminale straniero si trovi nel territorio del paese che lo vuole processare, e sempre nel caso in cui il sospettato non sia richiesto dal proprio stato di cittadinanza o da uno stato che abbia con lui un più stretto collegamento (quindi per esempio lo stato di cittadinanza delle vittime del crimine commesso). Il caso di Eyad al Gharib, il siriano condannato in Germania, ha rispettato tutte queste condizioni.

Gharib non è stato l’unico siriano indagato in Germania per avere compiuto gravi crimini durante la guerra in Siria, e la Germania non è l’unico stato europeo che da qualche anno a questa parte sta provando ad applicare il principio della giurisdizione universale soprattutto in casi legati al conflitto siriano.

Come ha detto l’avvocato tedesco Andreas Schüller, direttore del programma dei crimini internazionali dell’European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), organizzazione no profit con sede a Berlino, ci sono diverse ragioni che spiegano il ricorso sempre maggiore alla giurisdizione universale da parte di tribunali europei: e sono per lo più motivi legati proprio alla guerra in Siria.

La prima ragione è che negli ultimi anni la Corte Penale Internazionale, tribunale per crimini internazionali, che ha sede all’Aia e che avrebbe potuto farsi carico di questi processi, non è stata nella posizione di intervenire, perché il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, diviso al suo interno, ha bloccato ogni tentativo di affidarle la giurisdizione sui crimini compiuti in Siria.

La seconda è che non ci sono state nemmeno le condizioni affinché intervenisse un tribunale siriano, visto che la guerra in Siria è stata vinta dal regime di Assad, lo stesso che dovrebbe subire i processi in questione.

La terza è che rispetto ad altri casi simili del passato c’è stato parecchio materiale su cui basare le accuse, perché fin dal 2011, anno dell’inizio della guerra in Siria, organizzazioni locali, ong, avvocati, attivisti e disertori cominciarono a documentare le violenze compiute dal regime di Assad, in una misura senza precedenti.

La quarta, non legata strettamente alla guerra in Siria, è che da qualche anno c’è maggiore cooperazione rispetto al passato tra unità investigative dei diversi paesi, che a loro volta si sono specializzate sempre di più nelle indagini su crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Tra i paesi più attenti all’applicazione della giurisdizione universale ci sono soprattutto Francia, Svezia, Belgio e Germania, dove si sono tenuti o sono in corso diversi processi contro stranieri accusati di avere commesso gravi crimini contro l’umanità in Siria. Nonostante le difficoltà nella raccolta delle prove e nell’impostare un procedimento di questo tipo, diversi osservatori credono che oggi la giurisdizione universale sia la sola via praticabile dalle vittime della guerra siriana per ottenere giustizia, e allo stesso tempo che i processi per crimini gravi commessi in Siria siano l’unico punto di partenza possibile per un’applicazione più sistematica e ordinata del principio di giurisdizione universale.