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  • Domenica 14 febbraio 2021

Perché gli ebrei ultraortodossi israeliani non seguono le norme sul coronavirus

Usano poco la mascherina e molti sono scettici sull'efficacia dei vaccini, tra le altre cose: c'entra soprattutto il loro stile di vita

(AP Photo/Ariel Schalit)
(AP Photo/Ariel Schalit)

Israele è uno dei paesi in cui la vaccinazione di massa è più avanzata, ma dall’inizio della pandemia da coronavirus continua ad avere un problema con un pezzo consistente della propria popolazione: la comunità degli ebrei ultraortodossi, che rappresenta circa il 12 per cento delle persone che vivono in Israele ma a cui appartiene quasi una persona su tre che ha contratto il coronavirus.

Il governo israeliano conosce molto bene il problema e da mesi sta facendo pressioni sulla comunità ultraortodossa perché segua le misure di distanziamento fisico e rispetti le regole imposte dai lockdown totali o parziali. A fine dicembre i leader delle tre principali comunità ultraortodosse hanno esortato i propri seguaci a vaccinarsi, ma diversi osservatori ritengono che l’invito sia arrivato troppo tardi, e che più in generale le comunità ultraortodosse predichino uno stile di vita incompatibile con le esigenze imposte dalla pandemia.

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Gli ebrei ultraortodossi sono noti per seguire un’interpretazione rigida e letterale della dottrina religiosa ebraica, rifiutandone gli sviluppi moderni. Fin dalla sua fondazione, lo stato israeliano ha protetto il loro stile di vita, dedicato perlopiù allo studio dei testi religiosi, con generosi sussidi e privilegi fra cui l’esenzione dal servizio di leva, obbligatorio per la stragrande maggioranza dei cittadini israeliani, che dura 30 mesi per gli uomini e 24 per le donne.

Un primo problema posto dalle loro credenze, in tempi di pandemia, è la fiducia incrollabile nella protezione e nella volontà divina. Gli ultraortodossi si considerano le persone più care a Dio e ritengono che praticare il loro secolare stile di vita possa proteggerli dalle sventure che colpiscono il resto della popolazione umana. Per questa ragione nutrono grande diffidenza per la scienza e la tecnologia, ma anche, più banalmente, per la raccolta differenziata: i quartieri di Gerusalemme abitati dalle comunità ortodosse sono spesso i più sporchi e pieni di rifiuti.

Il quartiere ultraortodosso di Gerusalemme, Mea Shearim, fotografato nell’aprile del 2018 (Il Post)

La fiducia nella volontà divina si concretizza soprattutto nell’obbedienza ai leader religiosi, che vengono interrogati come se fossero degli oracoli e le cui opinioni hanno un peso enorme all’interno della comunità.

Una di queste persone si chiama Chaim Kanievsky, ha 93 anni ed è il leader spirituale della comunità di ultraortodossi di origine lituana. Studia la Bibbia per circa 17 ore al giorno e nel resto del tempo, quando non dorme, risponde alle domande che gli pongono i suoi seguaci per iscritto, tramite bigliettini, oppure tramite la voce di uno dei suoi nipoti, che gliele urla nell’orecchio. Ad aprile gli fu chiesto cosa dovessero fare i fedeli per evitare di contrarre la COVID-19. «Dovrebbero studiare il Talmud», cioè uno dei principali testi sacri per l’ebraismo, rispose Kanievsky.


Kanievsky è stato uno dei tre leader religiosi che a fine dicembre avevano esortato i loro seguaci a vaccinarsi, sottolineando che nei mesi precedenti li aveva spesso invitati a seguire le regole di distanziamento fisico e spiegando che indossare la mascherina era un obbligo di tipo religioso. Diversi leader che hanno parlato col New York Times hanno detto che l’approccio antiscientifico viene promosso soltanto da una minoranza radicale di rabbini, e che la maggior parte della comunità si sforza di seguire le regole imposte dal governo.

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Le condizioni e lo stile di vita degli ultraortodossi rendono comunque vulnerabili queste comunità al rischio di contrarre il virus. Mendy Moskowits, un 29enne ultraortodosso che vive nel quartiere ultraortodosso di Romema, a Gerusalemme, ha spiegato ad Associated Press che alcune famiglie vivono in piccoli appartamenti con moltissimi figli, con cui condividono un unico bagno: per loro il lockdown «non può funzionare, né tecnicamente né fisicamente».

La vita degli ultraortodossi, inoltre, ruota intorno alla comunità. I giovani maschi di età superiore ai 14 anni studiano, mangiano e dormono nelle yeshiva, le scuole religiose. Le donne, giovani o anziane, vanno a fare la spesa e sbrigano le faccende di casa in gruppo. Le preghiere sono quasi sempre collettive, e ai matrimoni e ai funerali partecipano a volte migliaia di persone. La scorsa settimana due funerali di prominenti leader religiosi ultraortodossi morti entrambi di COVID-19 hanno attirato ciascuno più di 10mila persone, scrive Associated Press.

Eppure, come ha notato il rabbino ortodosso Natan Slifkin in un recente articolo su Jewish Chronicle, molti ultraortodossi «non vedono alcun legame fra la violazione delle restrizioni e la morte delle persone per la COVID-19. La loro visione del mondo lascia poco spazio per la scienza moderna ma offre terreno fertile per le teorie complottiste e il pensiero magico».

Moltissimi ultraortodossi hanno sporadici contatti col mondo esterno, non possiedono tv o computer e si informano soltanto tramite pashkevil, i manifesti a caratteri cubitali con cui i leader religiosi tappezzano i quartieri ultraortodossi per trasmettere le informazioni più urgenti. Alcuni pashkevil, soprattutto nelle prime settimane della pandemia, contenevano informazioni false o fuorvianti sul coronavirus. Negli Stati Uniti un pashkevil invitava ad uccidere un membro della comunità che aveva segnalato alle autorità di New York una preghiera illegale all’interno di una sinagoga.

L’esercito israeliano sorveglia una manifestazione di protesta degli ultraortodossi a Gerusalemme contro il lockdown imposto dal governo, 30 marzo 2020 (AP Photo/Mahmoud Illean)

Molti ultraortodossi non possiedono nemmeno gli strumenti necessari per comprendere le restrizioni: nelle scuole ultraortodosse, che hanno programmi speciali rispetto a quelle pubbliche, le materie scientifiche trovano pochissimo spazio e vengono accantonate quasi subito per lasciare spazio allo studio dei testi religiosi.

Il ministero della Salute israeliana ha un dipartimento che si occupa di sensibilizzare gli ultraortodossi coinvolgendo leader religiosi e studiando apposite campagne di informazione, ma i numeri dimostrano che gli sforzi sono ancora insufficienti. Alcuni dati citati dal Times of Israel indicano che a Bnei Brak, una comunità ultraortodossa che si trova a est di Tel Aviv e considerata uno dei principali focolai della pandemia nel paese, il 63 per cento delle persone che hanno più di 60 anni possiede gli anticorpi oppure si è sottoposta alla vaccinazione. La media nazionale è quasi venti punti più alta, intorno all’81 per cento. In altre comunità ultraortodosse – come il paese di Tifrah o la colonia di Immanuel – il tasso di immunizzati è circa la metà di quello nazionale.