Dorothy Arzner, regista

E pioniera, perché si costruì una gran carriera quando per una donna era quasi impensabile averne una

Dorothy Arzner sul set di "Andiamo all'inferno allegramente" nell'aprile 1932
(AP Photo)
Dorothy Arzner sul set di "Andiamo all'inferno allegramente" nell'aprile 1932 (AP Photo)

Ai Golden Globe di quest’anno per il premio alla miglior regia sono stati candidati due uomini e tre donne: Emerald Fennell, Regina King e Chloé Zhao, rispettivamente registe di Una donna promettente, Quella notte a Miami… e Nomadland. È la prima volta in 77 anni che tra i candidati c’è più di una donna, e anche una delle poche in cui ce n’è almeno una. Prima di Fennell, King e Zhao le donne candidate a questo premio erano state in tutto cinque. Perché nella storia del cinema poche donne sono riuscite a diventare registe e perché per quelle che ci riuscirono è stato spesso difficile fare carriera: per decenni, e in parte ancora oggi, quello dei registi è stato un ambiente prettamente maschile e assai maschilista, dal quale le donne sono state e sono ancora in larga parte escluse. Ma poche non vuol dire nessuna.

Le candidature e i premi, infatti, sono solo una parte della storia: da Alice Guy-Blaché (considerata la prima regista della storia del cinema) e fino ai giorni nostri, diverse registe hanno dato un rilevante contributo al cinema. Il più grande, probabilmente, lo diede Dorothy Arzner, che era nata un anno dopo il cinema e che tra gli anni Venti e gli anni Quaranta diresse quasi venti film restando, per gran parte della sua carriera, l’unica regista di Hollywood.

Arzner lanciò la carriera di Katharine Hepburn, è ritenuta la prima donna a dirigere un film sonoro ed è considerata l’inventrice di un tipo di microfono ancora oggi in uso. Diresse film importanti, studiati e apprezzati; eppure smise di fare la regista a poco più di quarant’anni, venendo per diverso tempo quasi dimenticata dalla storia del cinema. La riscoprì la critica cinematografica femminista degli anni Settanta, che tuttavia non riuscì a farla diventare conosciuta e ricordata come tanti altri registi, attori e attrici di quel periodo. Nonostante Arzner sia – ancora oggi e in assoluto – la donna ad aver diretto più film per una grande casa di produzione.

Dorothy Emma Arzner era nata nel 1897 a San Francisco, in California, ma dopo che il tremendo terremoto del 1906 distrusse la casa in cui viveva si trasferì a Los Angeles, dove il padre ebbe successo grazie a un ristorante che prese a essere frequentato da alcuni dei più grandi personaggi del cinema di inizio Novecento. Tuttavia, Arzner non pensò subito a una carriera nel cinema e scelse invece di studiare medicina, lavorando come infermiera negli anni della Prima guerra mondiale e provando poi a fare l’assistente di un chirurgo. Capì però che la cosa non faceva per lei e, su consiglio di un’amica, nel 1919 fece in modo di ottenere un colloquio con uno dei dirigenti della Players-Lasky, la casa di produzione che sarebbe poi diventata la Paramount Pictures. C’era stata la guerra e c’era stata l’influenza spagnola e l’industria del cinema – un settore in rapida crescita – aveva grande bisogno di manodopera: «anche senza esperienza» disse Arzner in un’intervista del 1974 «era possibile avere un’opportunità, bastava mostrarsi capaci e volenterosi».

Alla Players-Lasky Corporation, Arzner finì a parlare con il produttore William DeMille, il quale le chiese cosa volesse fare, nel cinema. Lei disse di ritenere di saper «allestire i set», al che lui la invitò a dirle di che epoca fossero i mobili nell’ufficio in cui si trovarono, una domanda alla quale non riuscì a rispondere (erano “francescani” disse lui). DeMille – fratello del famoso regista Cecil – le disse allora di prendersi un po’ di giorni per girare tra i set, per capire quale altro lavoro ritenesse di poter svolgere. Arzner accettò e dopo una settimana tornò dicendo di voler fare la sceneggiatrice. Lui chiese perché, lei rispose che era il posto da cui iniziare se si voleva “partire dal basso”. DeMille gradì la risposta e la mise a trascrivere sceneggiature dettate da altri.

Dopo qualche mese Arzner fu promossa e messa a lavorare al montaggio, allora un lavoro fisico e faticoso, e in un paio di anni si occupò, con altri, di più di 50 film del Realart Studio, una sussidiaria della Players-Lasky.  Stando alle sue successive interviste, non ci mise però molto a capire due cose su come funzionava il cinema a quei tempi. La prima era che «se ci si voleva lavorare, conveniva farlo da regista, perché solo da regista si può dire agli altri cosa fare»; la seconda era che per farlo in una grande casa di produzione «bisognava prendere il proprio orgoglio, appallottolarlo, e buttarlo fuori dalla finestra».

Dorothy Arzner nel 1934 (AP Photo)

Già nel 1922, a poco più di 25 anni, Arzner ebbe la possibilità di dirigere le sue prime scene in sostituzione del regista principale. Erano scene di lotte tra tori, per il film Sangue e arena, con Rodolfo Valentino. E probabilmente ne diresse anche altre per altri film, senza però che il suo nome comparisse nei titoli di testa o di coda. Evidentemente riuscì comunque a farsi una certa fama e a ricevere dalla concorrente Columbia Pictures la proposta di diventare regista.

Visto che allora attori e registi lavoravano quasi solo sotto contratto con un’unica casa di produzione, Arzner andò da Walter Wanger, uno dei capi di quella per la quale lavorava, e glielo fece sapere. Per trattenerla, Wanger le mise prontamente tra le mani la traduzione di un’opera teatrale francese, con la promessa che entro un paio di settimane le avrebbe fatto dirigere un importante film tratto da quella commedia su una venditrice di sigari che diventava modella.

Un paio di settimane dopo quella promessa Arzner si presentò come regista sul set di Fashions for Women. Era in effetti un film importante, perché ci recitava Esther Ralston: una grande attrice del cinema muto. Andò sufficientemente bene e ad Arzner fu data una buona libertà di scegliere altre storie e di dirigerle: «era tutto fatto per dare a chi dirigeva quello che voleva, se sapeva cosa voleva», disse lei nel 1974.

Arzner riuscì anche a passare piuttosto agevolmente al sonoro, dirigendo nel 1927 L’allegra brigata, il rifacimento di un film muto di qualche anno prima, su una studentessa universitaria che si innamora del suo professore (ma poi succede dell’altro). Era un film importante perché serviva a lanciare nel sonoro, il formato del futuro, Clara Bow, una stella del muto, il cinema del passato. Solo che Bow era a disagio con le parole e ancora di più con tutti quei microfoni. Per aiutarla, Arzner fece quindi attaccare un microfono a una canna da pesca, così da farlo pendere sopra Bow ma fuori dall’inquadratura. Aveva inventato – sebbene poi non lo brevettò e lo fecero altri – il “boom”, un particolare microfono attaccato a una lunga asta.

Dorothy Arzner e Clara Bow nel 1927 (Wikimedia)

Come ha scritto Variety, L’allegra brigata fu un film fondamentale nella carriera di Arzner, perché anticipò diversi temi dei suoi successivi film. In particolare, raccontava la storia di una donna che «sceglie l’indipendenza e rifiuta di essere controllata da un uomo». Il film, inoltre, potè godere di certe libertà che poco dopo diventarono quasi impensabili, perché all’inizio degli anni Trenta entrò in vigore il Motion Picture Production Cod, che stabiliva “linee guida morali” per i film e, di fatto, li censurava in ogni racconto sessualmente troppo esplicito (dove per “sessualmente troppo esplicito” si intende anche mostrare coppie non sposate che condividono un letto, dormendoci). Ed essendo Arzner l’unica regista donna di quegli anni in cui le discriminazioni di genere erano all’ordine del giorno, è facile pensare che i suoi film fossero tenuti sotto particolare osservazione da questo punto di vista.

Negli anni successivi diresse quindi diversi altri film, a volte anche più di uno all’anno. Fino al punto che nei primi anni Trenta potè addirittura permettersi di diventare freelance: di lavorare cioè in modo più autonomo, senza dover stare sotto contratto con un’unica casa di produzione. Fu soprattutto in quel periodo che, come ha scritto Variety, Arzner si fece la fama di essere «una regista di donne» e di lavorare, tra le altre, con Clara Bow, Joan Crawford e Lucille Ball.

Dorothy Arzner e Sonya Levien, la sceneggiatrice con cui collaborò per The Captive Bride, nel 1930 (Hulton Archive/Getty Images)

Nel 1933 uscì La falena d’argento, con la quasi debuttante Katharine Hepburn nel ruolo di un’aviatrice che finisce in mezzo a un triangolo amoroso con un uomo sposato e che, però, non finisce per odiarsi con la moglie di lui, che perdona il tradimento (finisce comunque tragicamente). La nota critica cinematografica Pauline Kael ne parlò come di «uno dei rari film raccontati dal punto di vista della sessualità femminile».

«Scelsi Katharine dopo averla vista sul set mentre recitava in Febbre di vivere» disse Arzner nel 1974 «quando temevo che l’avrebbero relegata a ruoli “alla Tarzan”».  Hepburn, invece, disse di Arzner: «Aveva diretto molti film, era molto brava. Indossava i pantaloni. E anche io».


Nel 1940, dopo una serie di altri film, arrivò quello che probabilmente fu il più apprezzato di Arzner: Balla, ragazza, balla. Descritto da Variety come «un’atipica commedia burlesque con due amiche ballerine come protagoniste, che contiene un’appassionata critica allo sguardo maschile di cui le protagoniste sono oggetto». Secondo Atlas Obscura, il film è «un luminoso esempio della maestria di Arzner», secondo Sight & Sound ha per protagoniste «due cripto-lesbiche Fred e Ginger».

In Balla, ragazza, balla ci sono scene divertenti e visivamente vivaci, ma anche scene più intense e profonde. Una sorta di meta-scena, in cui una donna parla a un pubblico quasi tutto maschile davanti a lei, parlando quindi anche un po’ al pubblico dall’altra parte dello schermo.


Questa scena, così come praticamente l’intera filmografia di Arzner, fu velocemente dimenticata già da dopo la Seconda guerra mondiale, anche perché Arzner smise di dirigere, senza che il motivo sia mai stato chiarito per bene.

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Dopo aver diretto Sacrificio supremo – un film di guerra e il suo ultimo film – Arzner si dedicò per un po’ alla produzione di film per il Women’s Army Corps, il ramo femminile dell’esercito statunitense, e poi si dedicò all’ideazione e alla realizzazione di pubblicità per la Pepsi: l’attrice Joan Crawford, sua amica, aveva sposato Alfred Steele, amministratore delegato dell’azienda; e poi anche all’insegnamento. Tra i suoi studenti ci fu Francis Ford Coppola, che qualche anno fa la definì «tenace e vivace, ma con un cuore grande come il mondo».

Negli anni Settanta si ritornò a parlare di (e con) Arzner, a guardare e studiare i suoi film in particolare per analizzarne le rappresentazioni di genere e il modo in cui si parlava di sessualità e della netta predominanza dello sguardo maschile nel cinema, un tema molto analizzato dalla critica britannica Laura Mulvey.

Karyn Kay, che la intervistò nel 1974, ricordò così quella riscoperta: «Fu una rivelazione e fu emozionante: una grande regista aveva lavorato a Hollywood quando si pensava che nemmeno fosse possibile, facendo film personali e con complesse protagoniste femminili». In un’altra approfondita critica dei film di Arzner, la critica Donna R. Casella scrisse che «mostravano relazioni complicate, opportunità mancate, matrimoni finiti e anche la morte» e che «riuscì a fare due cose allo stesso tempo: soddisfare le richieste dei suoi capi maschili, con storie apparentemente convenzionali, ma anche inserire temi più difficili e provocatori su quello che si pensava dovesse essere il ruolo delle donne».

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Arzner non si sposò mai e nemmeno parlò mai apertamente del suo orientamento sessuale. Tuttavia, era noto che visse per decenni con la ballerina e coreografa Marion Morgan. Arzner – che raccontò di avere il grande rimpianto di non essere riuscita a fare un film di guerra tratto dal libro Stepdaughters of War, con Marlene Dietrich – morì nel 1979, a 82 anni. Pochi anni prima, in occasione di un tributo nei suoi confronti da parte del sindacato dei registi (e delle registe) statunitensi fu letto un messaggio che Hepburn le aveva scritto diversi decenni prima: «Non è meraviglioso che tu abbia avuto una così grande carriera, quando nemmeno avevi il diritto di averne una?».