Trump ha cambiato il rapporto tra Stati Uniti e Cina

Negli ultimi quattro anni ci sono state la guerra commerciale e tutta la retorica sul “virus cinese”, tra le altre cose: e adesso, con Joe Biden, che succede?

di Valentina Accorsi

(Feng Li/Getty Images)
(Feng Li/Getty Images)


Quattro anni fa Donald Trump vinceva le elezioni negli Stati Uniti e prendeva il posto dell’allora presidente Barack Obama, al suo secondo mandato. Negli anni della presidenza Trump, il modo di fare politica e i rapporti degli Stati Uniti con gli altri paesi sono molto cambiati. Gli effetti di questo cambiamento si sono visti in modo particolare nelle relazioni con la Cina, definite oggi al loro punto più basso da decenni. Le azioni politiche del presidente Trump non solo hanno reso più complicati i negoziati su qualsiasi tema, ma hanno anche avuto effetti diretti sulla vita e sulle opinioni degli americani.

I rapporti tra Cina e Stati Uniti non sono sempre stati così tesi. La situazione attuale è il risultato del mondo che sta cambiando, con la Cina in continua ascesa economica, ma è anche l’effetto del modo particolare di fare politica di Trump, incompatibile con la diplomazia cinese e inefficace dal punto di vista dei risultati commerciali.

Un passo indietro
Tra gli anni Settanta del secolo scorso e gli anni Dieci del Duemila, Stati Uniti e Cina vissero un periodo di relazioni distese: entrambi i paesi avevano interesse a mantenere buoni rapporti per ragioni soprattutto commerciali. Questo interesse comune permise di superare anche potenziali conflitti, come per esempio i rapporti dei due governi con Taiwan, paese la cui sovranità è rivendicata dalla Cina, ma che allo stesso tempo intrattiene relazioni con gli Stati Uniti.

Per decenni, infatti, il governo americano ha mantenuto nei confronti di Cina e Taiwan una politica piuttosto ambigua, chiamata “One China Policy”: in pratica gli Stati Uniti riconoscono la Repubblica Popolare Cinese come unico governo legale in Cina, ma allo stesso tempo non riconoscono Taiwan come parte della Cina, seppur ammettendo di sapere che la Cina ritiene Taiwan parte di essa. La “One China Policy” ha quindi permesso agli Stati Uniti di riconoscere e appoggiare la posizione politica cinese, e allo stesso tempo coltivare gli interessi americani a Taiwan.

Barack Obama e Xi Jinping (AP Photo/Ng Han Guan)

Nel 2010, quando la Cina sorpassò il Giappone e divenne la seconda potenza economica mondiale dopo gli Stati Uniti, il governo americano fu costretto a modificare la sua posizione nei confronti della potenza cinese.

L’allora segretaria di Stato, Hillary Clinton, teorizzò una nuova strategia, chiamata “Pivot to Asia”, che poneva l’Asia al centro degli interessi strategici americani. Nello stesso periodo, inoltre, il presidente Obama firmò un patto per il libero scambio nell’area del Pacifico, rafforzando gli interessi americani in quel pezzo di mondo. Ci furono anche motivi di tensione tra americani e cinesi – come quelli legati alle rivendicazioni sul Mar Cinese Meridionale e al deficit commerciale che gli Stati Uniti avevano accumulato nei confronti della Cina, di circa 350 miliardi di dollari – ma la presidenza di Obama terminò tutto sommato senza grossi strappi.

Ancora prima di insediarsi
Nel dicembre 2016, ancora prima di insediarsi alla Casa Bianca, Trump aveva mostrato l’intenzione di cambiare la precedente linea politica adottata da Obama nei confronti della Cina. Con l’obiettivo di stabilire rapporti commerciali bilaterali più favorevoli agli Stati Uniti, decise di forzare la “One China Policy” a proprio vantaggio.

Nel dicembre 2016, poco dopo avere vinto le elezioni, Trump fece una telefonata alla presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, in quello che fu il primo contatto ufficiale tra i due capi di stato dal 1979, quando gli Stati Uniti interruppero i rapporti con Taiwan come parte del riconoscimento reciproco con la Cina. I due leader discussero dei legami economici tra i rispettivi paesi e si congratularono per le recenti vittorie. Il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, commentò la vicenda lasciando intendere che il gesto di Trump non avrebbe cambiato le cose: la “One China Policy” non era in discussione.

Al di là delle sue limitate conseguenze, la telefonata di Trump a Tsai Ing-wen fu un anticipo di quello che sarebbe diventata una costante dell’aggressiva politica estera del presidente: cioè mettere davanti a tutto e a qualunque costo gli interessi americani, specialmente quelli commerciali, senza considerare le normali regole diplomatiche e senza curarsi di rovinare alleanze precedentemente consolidate.

La questione militare
Il primo grosso momento di rottura tra i due paesi si verificò tra la fine del 2016 e il 2017, quando gli Stati Uniti annunciarono il dispiegamento del sistema THAAD, acronimo di Terminal High Altitude Area Defense, in Corea del Sud.

Il THAAD è un sistema di difesa americano progettato per rilevare e abbattere missili balistici nemici. La questione fu rilevante non solo per il valore militare del sistema in sé, che spostava equilibri di forza esistenti nell’area, ma anche per il significato politico dell’iniziativa americana. Gli Stati Uniti dissero che si trattava di una misura difensiva con lo scopo di controllare i missili nucleari nordcoreani, che periodicamente minacciavano la Corea del Sud di attacchi e aggressioni. Secondo la Cina, però, il sistema aveva come vero obiettivo i missili cinesi, non quelli nordcoreani. Il governo cinese quindi reagì, applicando imposte sui biglietti aerei per la Corea del Sud e suggerendo il boicottaggio dei prodotti sudcoreani.

Mezzi dell’esercito sudcoreano trasportano parti del sistema THAAD alla base aerea di Osan, a Pyeongtaek (United States Forces Korea via Getty Images)

La crisi si risolse parzialmente verso la fine dell’anno, quando la Cina decise di ammorbidire le sue posizioni e riprendere i rapporti con la Corea del Sud. Lo fece però senza passare dall’intermediazione degli Stati Uniti, secondo alcuni analisti facendo una precisa scelta politica: cioè quella di limitare il ruolo degli Stati Uniti nell’area e isolare il Giappone, alleato degli americani.

Le altre cose successe dal 2018 al 2020
Durante la presidenza Trump, i rapporti tra Cina e Stati Uniti peggiorarono anche in materia di tecnologia e commercio. Il 2018, per esempio, iniziò con due dispute: una relativa agli scambi commerciali tra una società produttrice di microchip di Singapore e un’azienda americana, e l’altra all’azienda ZTE, la più grande produttrice cinese di telecomunicazioni, accusata di aver violato le sanzioni statunitensi su Iran e Corea del Nord e per questo inibita dal poter accedere all’acquisto di componenti americani.

Uno dei temi su cui si discusse di più fu inoltre quello dell’arresto di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria di Huawei, nel dicembre 2018.

La donna fu arrestata in Canada su mandato degli Stati Uniti, che ne richiesero poi l’estradizione. L’accusa per Huawei era di aver violato l’embargo commerciale degli Stati Uniti verso l’Iran, vendendo all’Iran prodotti per le telecomunicazioni che utilizzavano brevetti statunitensi sotto licenza. In particolare, gli Stati Uniti avevano il timore che il governo cinese utilizzasse le apparecchiature per la raccolta dati vendute da Huawei per fare spionaggio contro di loro (l’intera questione è raccontata in maniera approfondita qui). Ad oggi il processo a Meng è ancora aperto e si inserisce, come tutte le altre questioni tecnologiche, nella guerra commerciale che il presidente Trump ha ingaggiato contro la Cina, accusata già in passato di spiare e rubare brevetti tecnologici americani.

– Leggi anche: Gli Stati Uniti di Trump visti dall’Europa

Nel 2020 i rapporti tra Cina e Stati Uniti sono arrivati a un punto molto basso e i motivi di tensione sono aumentati.

A luglio il governo Trump ha ordinato alla Cina di chiudere il proprio consolato a Houston, in Texas, dopo che il personale diplomatico era stato accusato di svolgere attività di spionaggio e raccolta illegale di informazioni. La Cina ha risposto chiudendo il consolato americano nella città cinese di Chengdu (capitale della regione del Sichuan, nel centro del paese), un presidio che gestiva le pratiche di molti visti statunitensi, ma che non aveva comunque la rilevanza politica ed economica di consolati come Shanghai, Pechino o Guangzhou.

La diffusione del coronavirus è stato l’ultimo grande argomento di scontro tra Cina e Stati Uniti. Nella retorica di Trump, è diventato abituale l’uso dell’espressione “il virus cinese”, che suggerisce l’attribuzione della colpa della diffusione del virus all’intero popolo cinese. Trump ha detto esplicitamente più volte di ritenere la Cina responsabile per l’inizio e la diffusione della pandemia, e l’ha accusata di non essere stata sincera nel comunicare i dati reali del contagio.

I risultati dell’America First e il futuro con Biden
Il modo di fare politica di Donald Trump è stato uno tratti distintivi della sua presidenza, per la differenza con i suoi predecessori. Come è noto, nel 2016, quando si candidò alla presidenza, Trump non aveva alle spalle una carriera politica: arrivava dal mondo degli affari. L’impressione di molti è che Trump abbia voluto applicare le logiche del mondo imprenditoriale alla politica, senza curarsi troppo delle conseguenze che un approccio del genere avrebbe provocato: l’uso di minacce eccessive, spesso basate sull’umore del momento e in alcuni casi spericolate, sono tra i mezzi usati da Trump nella sua politica estera, e verso la Cina, negli ultimi quattro anni.

Le politiche di Trump verso la Cina, comunque, non sembrano avere funzionato troppo: non solo perché i rapporti diplomatici tra i due governi si sono progressivamente deteriorati, ma anche perché la Cina ha di fatto mantenuto la sua influenza in Asia e ha continuato ad espandersi al di fuori del proprio continente, contrariamente a quanto voleva Trump. Inoltre il protezionismo aggressivo del presidente ha messo in difficoltà quei piccoli produttori americani che commerciavano materiali cinesi.

Le cose potrebbero cambiare con Joe Biden, che si insedierà alla Casa Bianca a gennaio e che ha già detto di non condividere la politica estera di Trump. Riguardo ai rapporti degli Stati Uniti con la Cina, Biden ha accusato Trump di avere messo in ginocchio la capacità degli americani di rispondere alle minacce economiche cinesi. Il presidente eletto ha auspicato la creazione di un fronte economico comune di tutte le democrazie mondiali contro le pratiche adottate dalla Cina, definite scorrette. Ha parlato inoltre di abbattere le barriere commerciali esistenti, che penalizzano gli americani, e ha detto di non voler cedere al protezionismo.

È presto per fare una previsione precisa su come saranno i rapporti bilaterali tra la Cina di Xi Jinping e gli Stati Uniti di Joe Biden: è molto probabile che torneranno a essere più regolati e regolari rispetto a quelli degli anni di Trump, anche se potrebbero comunque non migliorare di molto.

Questo e gli altri articoli della sezione L’America che ha lasciato Trump sono un progetto del corso di giornalismo 2020 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.