La scommessa dietro al cashback di Stato

È un'iniziativa ambiziosa, costosa e contestata, nata per ridurre l'utilizzo dei contanti ma presto diventata un'altra cosa

di Eugenio Cau

Immagine dal sito di Italia Cashless
Immagine dal sito di Italia Cashless

Se guardiamo ai numeri e alle adesioni, il cashback di stato per ora sta andando bene. L’app IO, il metodo principale per ottenere i rimborsi, è passata da 3,5 milioni di download all’inizio di dicembre a oltre nove milioni, con un picco di poco meno un milione nella giornata dell’8 dicembre, quando è cominciata l’iniziativa del governo. Dopo una serie di problemi tecnici importanti nei primi giorni (il sistema non accettava le carte di credito e di debito con cui effettuare i pagamenti), le cose sono gradualmente migliorate e molte persone hanno già cominciato a vedere sull’app l’ammontare del loro rimborso.

L’operazione cashback ha anche generato notevoli polemiche: siccome il rimborso si può ottenere soltanto tramite pagamenti elettronici fatti di persona, nei negozi e non online, molti commentatori hanno sottolineato una contraddizione nella comunicazione del governo, che da un lato ha esortato i cittadini a evitare gli assembramenti a causa della pandemia da coronavirus e dall’altro ha promosso incentivi economici per fare acquisti nei negozi.

In questi giorni però si è parlato di meno del senso economico di tutta l’iniziativa, che è grande, ambiziosa e molto costosa: il governo ha stanziato 4,7 miliardi di euro per finanziarla fino al 2022, una cifra enorme, che nella comunicazione ufficiale ha trovato numerose giustificazioni: il cashback di stato, nato oltre un anno fa come strumento per favorire l’utilizzo della moneta elettronica, è diventato nel corso dei mesi diverse altre cose, come vedremo, non tutte adeguate a giustificare l’enorme spesa fatta.

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Cos’è il cashback di stato
Il cashback di stato fu citato per la prima volta in un pacchetto di misure approvato dal Consiglio dei ministri nell’ottobre del 2019 con l’intento di promuovere i pagamenti elettronici, e nominato «Piano Italia Cashless». Il piano comprendeva anche la cosiddetta «Lotteria degli scontrini» e misure per ridurre le commissioni che gli esercenti devono pagare per l’utilizzo dei POS.

Nel corso dei mesi il piano si è andato precisando in vari decreti legge e in altri atti legislativi, fino alla sua forma attuale, in cui il cashback si compone di tre parti:
L’«Extra Cashback di Natale», cioè un’operazione limitata al periodo tra l’8 e il 31 dicembre 2020, che prevede rimborsi del 10 per cento su tutti i pagamenti elettronici, con un minimo di 10 pagamenti effettuati, un rimborso massimo di 15 euro a pagamento e un rimborso totale di 150 euro a persona fino alla fine del mese.
Il «Cashback» vero e proprio, che comincerà il primo gennaio del 2021 e terminerà il 30 giugno del 2022, per una durata complessiva di tre semestri, che prevede rimborsi del 10 per cento su tutti i pagamenti elettronici, con un minimo di 50 pagamenti effettuati, un rimborso massimo di 15 euro a pagamento e un rimborso totale di 150 euro a semestre: chi ottiene il massimo del cashback riceverà dunque 450 euro nel giro di un anno e mezzo.
Il «Super Cashback», che premia con 1.500 euro a semestre i 100 mila aderenti che hanno fatto più pagamenti elettronici, indipendentemente dalla cifra spesa (se anche tutti i pagamenti sono soltanto da un euro, basta rientrare nei 100 mila che ne hanno fatti di più per ottenere il bonus).

Inoltre, come dicevamo, a partire dal 2021 sarà attivata anche la lotteria degli scontrini, con premi fino a cinque milioni di euro

Soltanto per il cashback, il governo ha previsto di spendere poco più di 4,7 miliardi di euro, come si legge nel decreto del 24 novembre 2020: 1,75 miliardi per l’anno 2021 e 3 miliardi per il 2022. È un’operazione enorme, benché spalmata in un anno e mezzo: per fare un paragone con un’altra misura del governo molto nota, il reddito di cittadinanza è costato 7 miliardi di euro nel 2020.

Uno screenshot del video di istruzioni dell’app IO sull’attivazione del cashback

Digitalizzazione ed emersione del nero
Secondo persone coinvolte nel progetto che hanno parlato con il Post, il cashback e in generale tutto il piano cashless è stato richiesto e voluto dalla presidenza del Consiglio (più che dal ministero dell’Economia) fin dall’anno scorso, con la ragione esplicita di promuovere in Italia l’utilizzo dei pagamenti elettronici nella speranza di generare due effetti: la riduzione dell’evasione fiscale e la promozione della digitalizzazione.

Che la diffusione dei pagamenti digitali favorisca l’emersione del nero è cosa nota: i pagamenti elettronici e digitali sono tracciati e quasi impossibili da nascondere al fisco e, come hanno scritto i due economisti Leonzio Rizzo e Massimo Taddei sul sito lavoce.info, favorirne l’utilizzo significa aumentare la base imponibile e quindi i ricavi per lo stato nella raccolta delle imposte. Secondo il ministero dell’Economia, le imposte non incassate dallo stato a causa dell’evasione superano i 100 miliardi di euro l’anno e  l’Italia è uno degli ultimi paesi in Europa nell’utilizzo di pagamenti elettronici e digitali: ci sono enormi margini di miglioramento.

Un’altra ragione per promuovere la diffusione dei pagamenti elettronici e digitali è la riduzione del costo di gestione del contante, che è un oggetto fisico da curare e preservare: secondo la Banca D’Italia, per conservare, trasportare e tenere in sicurezza il denaro contante sono stati spesi 7,4 miliardi di euro nel 2016, soltanto in Italia.

I benefici sulla digitalizzazione sono più difficili da individuare, ma l’intenzione del governo è stata fin da subito di legare l’erogazione del cashback a sistemi digitali come l’app IO, sviluppata per rendere accessibili via smartphone i servizi della pubblica amministrazione, SPID, il sistema pubblico di identità digitale, necessario per accedere a IO, e la carta d’identità elettronica (CIE). L’idea generale è che promuovere i pagamenti elettronici assieme ai servizi digitali sia un vettore della digitalizzazione del paese. La digitalizzazione avrebbe come conseguenza uno snellimento delle procedure (per esempio: pagare le imposte via app anziché fare la fila in posta), un alleggerimento della burocrazia e un efficientamento complessivo della pubblica amministrazione.

Un aiuto alle famiglie e l’anticipazione del programma
Quelle qui sopra (riduzione dell’evasione fiscale e di altri costi connessi al contante, digitalizzazione) sono le motivazioni esplicite del piano cashless del governo, per come era stato concepito alla fine del 2019. La cose, però, sono cambiate molto con l’arrivo della pandemia da coronavirus. A causa della crisi, lo stato ha cominciato a promuovere una dopo l’altra misure di welfare, bonus, sussidi e iniziative per il rilancio dei consumi, spendendo soltanto nel 2020 circa 100 miliardi di euro in trasferimenti ai cittadini. Anche il cashback è entrato in questa logica, non soltanto agli occhi dell’opinione pubblica ma nella comunicazione ufficiale del governo.

Un paio di esempi: lo scorso settembre, davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha parlato del cashback come di un’iniziativa per dare una «spinta ai consumi». Inoltre durante la conferenza stampa del 3 dicembre, in diretta tv nazionale e a pochi giorni dalla partenza dell’iniziativa, anche Conte ha detto che il cashback è stato approvato per «sostenere le attività commerciali» e «aiutare le famiglie». Nel discorso successivo, quello del 18 dicembre, Conte ha riaggiustato il messaggio dicendo che è una «misura di sistema» e che è «il primo passo per la integrale digitalizzazione del paese per pagamenti in piena sicurezza». Ma poi ha aggiunto, di nuovo, che il cashback è «un concreto sostegno alle famiglie in un periodo così complesso».


Conte in particolare faceva riferimento all’«Extra Cashback di Natale», quello limitato a dicembre, la cui ideazione è recente e tutta legata alla pandemia. Secondo i piani originari, infatti, il cashback sarebbe dovuto partire ufficialmente il primo gennaio: dicembre avrebbe dovuto essere il mese di prova, con una comunicazione istituzionale ridotta e l’obiettivo di far aderire al programma un numero limitato di persone, così da testare tutti i sistemi ed essere pronti per la partenza ufficiale di gennaio. Sul sito del ministero dell’Economia, forse poco aggiornato, questa cosa si capisce abbastanza chiaramente: si legge che il programma comincia il primo gennaio del 2021 e soltanto in fondo alla pagina si trova scritto che l’8 dicembre del 2020 sarebbe partita una «fase sperimentale» del progetto.

I piani sono cambiati quando, quest’autunno, il team di comunicazione della presidenza del Consiglio ha visto nella fase di test di dicembre un’opportunità per promettere ai cittadini 150 euro a testa da usare per lo shopping di Natale. Il test di basso profilo è diventato un’inaugurazione in grande stile con oltre cinque milioni di aderenti e quest’anticipo è una delle ragioni dei problemi tecnici dei primi giorni: i sistemi non erano stati pensati per un sovraccarico di accessi fin da dicembre.

Funzionerà?
L’operazione cashback, dunque, è nata nel 2019 con un certo intento e nel corso degli ultimi mesi ne ha assunti altri, in parte contraddittori con il primo. Ora la domanda da porsi è se l’intento originario (cioè quello di portare importanti benefici allo stato e ai cittadini grazie a pagamenti elettronici e digitalizzazione) può ancora essere raggiunto (e se è mai stato raggiungibile), oppure se il cashback e le altre iniziative come la lotteria degli scontrini saranno considerati nei prossimi anni come una spesa ulteriore che non ha portato frutti, cioè semplicemente un bonus, un po’ come quello che ha favorito l’acquisto di biciclette, ma infinitamente più costoso.

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Altri paesi hanno usato sistemi simili e alcuni hanno avuto successo. L’esempio più vicino è il Portogallo, l’unico che nel 2014 ha approvato sia un sistema di cashback (che prevedeva però una detrazione del 15 per cento sulla dichiarazione dei redditi, non un versamento diretto) sia una lotteria degli scontrini (la fatura da sorte, lo scontrino della fortuna). Le misure hanno funzionato: secondo lavoce.info, in Portogallo la percentuale di IVA evasa è passata dal 13,7 per cento nel 2014 al 7 per cento nel 2019. Se anche in Italia si riuscisse a ottenere lo stesso risultato, lo stato riuscirebbe a incassare dieci miliardi in più soltanto di IVA, coprendo abbondantemente la spesa del cashback. Esperimenti simili, soprattutto con varie forme di lotterie degli scontrini, sono stati adottati anche a Taiwan, in Slovacchia, in Argentina, tra gli altri, ma non sempre hanno avuto successo nel far emergere l’evasione fiscale.

In Italia funzionerà? L’unica previsione ufficiale è quella del ministero dell’Economia, che in una relazione tecnica pubblicata a novembre scrive che sia il cashback sia la lotteria degli scontrini sono «norme procedurali» che hanno una «natura interpretativa» e che soprattutto «non producono effetti finanziari». Dunque, a prendere alla lettera quanto scritto dal ministero, sembra che lo stato non si aspetti entrate aggiuntive grazie al piano Italia Cashless. Occhio però: non è esattamente così, perché in realtà è piuttosto comune che il ministero sia prudente nel valutare la possibilità di nuove entrate, soprattutto quando derivano da misure senza precedenti. Inoltre, è probabile che il governo stia cercando di precostituire quello che in linguaggio politico viene chiamato «tesoretto», un’entrata inattesa che può essere spesa fuori dai normali impegni di bilancio — anche se in questo caso tanto inattesa non sarebbe.

Ci sono altre stime, come quella di The European House – Ambrosetti, un think tank italiano che in uno studio fatto per la Cashless Society ha calcolato che con il Piano Italia Cashless (compresa dunque la lotteria degli scontrini), di qui al 2025 lo stato italiano otterrebbe un maggiore gettito di 4,5 miliardi di euro. Questi numeri però sono molto incerti e preliminari, come hanno sottolineato persone che si sono occupate della questione.

La sezione “portafoglio” dell’app IO

Sono state fatte anche stime sui benefici portati dalla digitalizzazione del paese, che sono difficili da misurare: una vecchia stima ancora molto citata del Politecnico di Milano, per esempio, sosteneva che il risparmio per lo stato generato dalla digitalizzazione della pubblica amministrazione ammontasse a 20 miliardi di euro. La digitalizzazione, inoltre, porterebbe benefici importanti alle imprese, oltre che ai cittadini.

Alcuni economisti sostengono che queste previsioni siano troppo ottimistiche, e che diversi elementi strutturali del cashback di stato renderanno difficile raggiungere gli obiettivi prefissati, soprattutto in termini di recupero dell’evasione fiscale. «La norma finirà per avvantaggiare i consumatori che già utilizzano le carte e si destreggiano meglio tra le procedure digitali, e questo potrebbe annullare gli effetti sull’emersione del nero», dice Nicola Rossi, politico e professore di Economia politica all’università di Roma Tor Vergata. Il rischio maggiore, secondo Rossi e altri, è che l’incentivo dei rimborsi non sarà sufficiente a convincere gli italiani che non utilizzano la carta a cominciare a farlo, né a convincere quel 20 per cento circa delle famiglie che ancora non possiede carte a farne una.

Altri analisti sono più ottimisti, come per esempio Leonzio Rizzo, professore di Scienza delle Finanze all’università di Ferrara e coautore dell’articolo citato sopra su Lavoce.info, secondo il quale il cashback di stato «è una bella scommessa» che potrebbe funzionare. Anche lui però vede il rischio che «l’effetto del cashback si riversi tutto sulla spesa al supermercato», cioè che lo stato finisca per rimborsare acquisti per i quali l’erogazione dello scontrino è già la normalità. Secondo Rizzo l’iniziativa potrebbe essere rafforzata da una misura forte che obblighi e incentivi tutti i fornitori di beni e servizi a usare il POS, non soltanto i negozi ma anche, per esempio, i liberi professionisti.

A metà dicembre è intervenuta anche la Banca centrale europea che, con una lettera di uno dei membri del comitato esecutivo, Yves Mersch, in uscita in questi giorni, ha criticato il cashback dicendo che l’iniziativa «compromette l’obiettivo di un approccio neutrale nei confronti dei vari mezzi di pagamento disponibili», cioè discrimina in un certo modo il contante. Inoltre, Mersch ha scritto che il cashback potrebbe effettivamente aiutare a combattere l’evasione fiscale, ma che prima di approvare una norma così importante «dovrebbe sussistere… una chiara prova che il meccanismo di cashback consenta, di fatto, di conseguire la finalità pubblica della lotta all’evasione fiscale». Il ministero dell’Economia, a cui era rivolta la lettera, ha risposto tramite «fonti» fatte arrivare ai media italiani dicendo che «i rilievi formali espressi da Mersch non appaiono peraltro fondati». Il ministro Gualtieri ha aggiunto in un’intervista alla Stampa che la lettera è «un’opinione non vincolante, che riflette le note posizioni sul tema del suo autore, che non ha mai fatto mistero di essere un difensore del contante».

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Un’iniziativa poco progressiva
C’è un altro problema: nel momento in cui il governo ha presentato il cashback come una misura di «aiuto alle famiglie», si è cominciato a giudicarlo non soltanto in base alla sua efficacia nel promuovere i pagamenti elettronici, ma anche come misura di welfare. E se lo si considera come tale, il cashback rischia di essere ingiusto o quanto meno poco progressivo, perché gli utilizzatori frequenti di pagamenti elettronici fanno parte della fascia più agiata della popolazione, così come quelli che sono abituati a spendere di più con le carte, e che dunque otterrebbero un rimborso maggiore.

Enrico D’Elia, senior economist al dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia, ha calcolato che se davvero l’operazione cashback non riuscirà ad ampliare la platea degli utilizzatori di strumenti di pagamento elettronici, e dunque i rimborsi finissero soprattutto a chi fa già uso di carte, il coefficiente di Gini, che misura le disuguaglianze, passerebbe dal 35,21 al 35,43 per cento, e un aumento significa un peggioramento: l’Italia sarebbe un po’ più diseguale. Il coefficiente di Gini è piuttosto rigido, e due decimi di variazione sono importanti: per fare un paragone, il reddito di cittadinanza l’ha abbassato di sette decimi.

Persone che hanno lavorato al progetto dicono che il governo è consapevole di questi rischi, ma che è stato deciso di accettarli perché creare delle discriminanti in base al reddito avrebbe significato rendere il progetto complesso e di difficile accesso (sarebbe stato necessario un ISEE valido, per esempio). I difensori dell’iniziativa, inoltre, dicono che di solito le previsioni negative non tengono conto del «Super Cashback» che partirà all’inizio dell’anno, la cui attribuzione non dipende dall’ammontare della spesa ma dal numero assoluto delle transazioni fatte con denaro elettronico, e che dunque non dovrebbe beneficiarne soltanto chi può permettersi di spendere di più.

La scommessa
Il cashback di Natale è già tutto sommato un’operazione riuscita, nella misura in cui il governo ha raggiunto il suo obiettivo di comunicazione: aveva promesso un contributo per lo shopping natalizio e tra due mesi milioni di italiani si troveranno con un piccolo bonifico sul conto corrente — anche se, come dicevamo, c’è il rischio che saranno gli italiani che ne hanno meno bisogno.

Gli obiettivi più ambiziosi del cashback che partirà a gennaio, per i quali il governo ha impegnato una quantità ingente di risorse pubbliche, sono enormemente più difficili da raggiungere. Sarà anche complicato stabilire cosa costituisce un successo: la riduzione dell’evasione fiscale e l’adozione dei pagamenti elettronici sono relativamente facili da misurare, ma i benefici economici della digitalizzazione — che pure è un processo che non può essere fatto a costo zero — sono più sfuggevoli e si spalmano sul lungo periodo.