• Italia
  • Martedì 1 dicembre 2020

L’Egitto non collaborerà con l’Italia nel processo sull’omicidio di Giulio Regeni

La procura di Roma processerà cinque membri dei servizi segreti egiziani per la morte del ricercatore italiano, mentre quella del Cairo solo i rapinatori accusati di aver rubato i suoi effetti personali

( ANSA/ MASSIMO PERCOSSI)
( ANSA/ MASSIMO PERCOSSI)

La procura di Roma ha chiuso la sua inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano dell’università di Cambridge scomparso il 25 gennaio 2016 mentre stava lavorando al Cairo, in Egitto, a una tesi di dottorato sui sindacati del paese. Il suo corpo, con i segni di innumerevoli torture, venne trovato nove giorni dopo, il 3 febbraio, abbandonato al lato di una strada.

Cinque agenti della National Security, il servizio segreto civile egiziano, saranno processati con l’accusa di aver rapito, torturato e ucciso Giulio Regeni. Il processo romano si svolgerà però senza la collaborazione dei magistrati egiziani, che hanno invece deciso di procedere con un proprio processo autonomo, non contro i rapitori e gli assassini di Regeni, che giudica «ignoti», ma nei confronti di chi rubò i suoi effetti personali, e quindi l’accusa nei loro confronti sarà semplicemente di furto.

Lunedì, dopo un vertice tra il procuratore capo di Roma, Michele Prestipino, e il procuratore generale del Cairo, Hamada Al Sawi, i due magistrati hanno diffuso un documento congiunto che spiega le posizioni divergenti delle due procure. L’Egitto non risponderà alla rogatoria inviata più di un anno fa dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco, con cui l’Italia chiedeva informazioni per verificare le dichiarazioni di due testimoni che avrebbero raccontato di aver visto Regeni mentre veniva rapito da agenti della National Security, condotto in una caserma e poi trasferito in un’altra. L’Egitto non fornirà neppure gli indirizzi dei cinque membri dei servizi segreti egiziani indagati dalla procura di Roma, che quindi non potrà notificare loro gli atti.

Per quanto riguarda le accuse nei confronti dei membri della National Security, la procura del Cairo ha espresso «riserve sulla solidità del quadro probatorio», e ha valutato che non ci fossero «prove sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio». Nella nota congiunta si legge ancora che «la procura generale d’Egitto rispetta le decisioni che verranno assunte, nella sua autonomia, dalla procura di Roma».

Per quanto riguarda il processo egiziano, però, le premesse non sono delle migliori. Il procuratore egiziano ha infatti informato Prestipino di voler procedere per furto nei confronti della «banda che, utilizzando documenti contraffatti di appartenenti a forze dell’ordine, aggrediva e derubava cittadini stranieri». Una ricostruzione che la procura di Roma definì a suo tempo «priva di ogni attendibilità».

La storia della banda di rapinatori è anzi considerata il depistaggio più clamoroso delle autorità egiziane sull’omicidio Regeni. Il 24 marzo del 2016 il ministro dell’Interno egiziano scrisse su Facebook che il caso era risolto: i colpevoli erano quattro membri di una banda criminale «specializzata nel fingersi agenti di polizia, nel sequestrare cittadini stranieri e rubare loro i soldi». I rapinatori erano stati tutti uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia, quindi non poterono fornire la loro versione.

Il governo egiziano diffuse comunque le foto del passaporto di Regeni, della sua carta d’identità italiana, di una carta di credito e del suo tesserino dell’Università di Cambridge, tutto materiale che secondo gli agenti era stato trovato in possesso del gruppo di criminali. La ricostruzione, però, resse appena pochi giorni. Venne fuori che al momento della scomparsa di Regeni il capo della banda criminale si trovava a più di 100 chilometri dal luogo del sequestro.

C’erano altre cose che non tornavano: per esempio le autorità egiziane non seppero spiegare il motivo per cui dei criminali comuni avrebbero dovuto torturare Regeni per una settimana intera prima di ucciderlo. Inoltre le autorità italiane erano riuscite a scoprire che i documenti di Regeni erano stati portati nella casa di uno dei presunti rapinatori da un poliziotto.

In risposta all’omicidio e ai depistaggi compiuti dalle autorità egiziane, ad aprile del 2016 il governo Renzi decise di ritirare l’ambasciatore italiano in Egitto, Maurizio Massari. Nell’agosto 2017, dopo circa un anno di assenza e in seguito a una maggiore collaborazione da parte della procura di Giza, il governo Gentiloni nominò un nuovo ambasciatore in Egitto, Giampaolo Cantini, che è ancora oggi in carica.

«In questi 5 anni — scrivono lunedì i genitori di Giulio Regeni — abbiamo subito ferite e oltraggi di ogni genere da parte egiziana, ci hanno sequestrato, torturato e ucciso un figlio, hanno gettato fango e discredito su di lui, hanno mentito, oltraggiato e ingannato non solo noi ma l’intero Paese. Oggi i procuratori egiziani hanno la sfrontatezza di “avanzare riserve” sull’operato dei nostri magistrati ed investigatori e di considerare insufficienti le prove raccolte».

Il fatto che i magistrati egiziani continuino a riproporre la tesi dei 5 rapinatori fatti spacciare per gli assassini di Regeni viene definito dai suoi genitori «una assoluta mancanza di rispetto nei confronti non solo della nostra magistratura ma anche della nostra intelligenza».

Per questi motivi Paola e Claudio Regeni, insieme al loro avvocato Alessandra Ballerini, continuano a chiedere il ritiro dell’ambasciatore italiano in Egitto. «È evidente — hanno detto ancora i genitori del ricercatore italiano — che le strade tra le due procure non sono mai state così divise. Se da un lato apprezziamo la risoluta determinazione dei nostra procuratori che hanno saputo concludere le indagini, senza farsi fiaccare né confondere dai numerosi tentativi di depistaggio egiziani, d’altra parte non possiamo che stigmatizzare una volta di più la costante e plateale assenza di collaborazione da parte del regime».