• Mondo
  • Giovedì 19 novembre 2020

Le truppe speciali australiane avrebbero ucciso 39 civili afghani tra il 2009 e il 2013

Secondo un'inchiesta delle forze armate australiane i soldati avrebbero commesso gli omicidi come una prova di forza, imposta dai superiori ai più giovani

Il comandante in capo dell'Australian Defence Force (ADF), il generale Angus Campbell, rivela alla stampa i risultati dell'inchiesta sui presunti crimini di guerra commessi dalle truppe australiane in servizio in Afghanistan. Canberra, Australia, 19 novembre 2020 (Mick Tsikas - Pool / Getty Images)
Il comandante in capo dell'Australian Defence Force (ADF), il generale Angus Campbell, rivela alla stampa i risultati dell'inchiesta sui presunti crimini di guerra commessi dalle truppe australiane in servizio in Afghanistan. Canberra, Australia, 19 novembre 2020 (Mick Tsikas - Pool / Getty Images)

I corpi speciali australiani avrebbero ucciso 39 civili durante la guerra in Afghanistan. Le forze armate australiane (Australian defence force, ADF) hanno reso pubblici i risultati di un’inchiesta, durata quattro anni, in cui ammettono che ci sono «prove credibili» delle violenze. 19 soldati verranno indagati per le uccisioni di «prigionieri e civili» avvenute tra il 2009 e il 2013. Durante l’inchiesta sono stati ascoltati più di 400 testimoni.

Le indagini sono state condotte dal maggiore generale Paul Brereton e riguardano le attività delle forze speciali in Afghanistan tra il 2005 e il 2016. Il 19 novembre il generale Angus John Campbell, comandante in capo dell’ADF, durante una conferenza stampa a Canberra in cui ha rivelato i risultati dell’inchiesta, ha detto che i 39 omicidi sarebbero stati eseguiti in 23 distinti episodi, che avrebbero coinvolto in tutto 25 soldati, e non sarebbero avvenuti «nel pieno della battaglia», ma i soldati più anziani avrebbero costretto i più giovani ad uccidere i prigionieri per dimostrare di poter commettere il loro “primo omicidio”, una pratica nota come “blooding“, una sorta di “prova del sangue”. Campbell ha detto che «alcuni sottufficiali esperti, carismatici e influenti e i loro protetti» avevano abbracciato e promosso una «cultura distorta» dell’eccellenza militare, basata su «ego e elitarismo». I crimini sarebbero stati inoltre nascosti dai comandanti di pattuglia.

Negli scorsi giorni il primo ministro australiano Scott Morrison aveva detto che il rapporto avrebbe incluso «notizie molto dure per gli australiani», ma, secondo quanto scrive la BBC, in pochi si sarebbero aspettati ammissioni di responsabilità così gravi. L’ufficio del presidente afghano Ashraf Ghani ha dichiarato di aver ricevuto una telefonata da Morrison in cui gli veniva espresso il suo «profondo dolore» per ciò che l’inchiesta rivelava. L’Afghanistan ha detto che l’Australia si sta impegnando affinché sia «fatta giustizia».

Secondo i media australiani, dopo che verranno aperte le indagini dalla polizia australiana, è possibile che passino anche anni prima che possano iniziare i processi sugli omicidi dei civili in Afghanistan. Il governo australiano ha detto che istituirà una cabina di controllo indipendente per garantire che vengano individuate le responsabilità e garantita la trasparenza «al di fuori della catena di comando dell’ADF».

Prima delle rivelazioni del rapporto dell’ADF, il mese scorso era circolato parecchio un video in cui si vedevano alcuni soldati delle forze speciali australiane che parlavano di un loro commilitone che avrebbe ucciso un prigioniero «completamente obbediente», senza esitazione, durante una missione nel nord della provincia di Helmand, in Afghanistan, nel 2012. La testata australiana ABC aveva provato a ricostruire la vicenda grazie anche alla testimonianza di un soldato statunitense che era impegnato nella stessa missione, in cui Stati Uniti e Australia lavoravano insieme per fermare il traffico di droga del regime talebano in Afghanistan.

La vicenda riguarda un raid notturno condotto dalle forze speciali australiane nel maggio del 2012 nell’ambito di una più ampia operazione gestita dall’agenzia anti-droga statunitense (DEA). Il soldato statunitense intervistato da ABC – che ha chiesto di essere chiamato col nome di fantasia Josh per evitare ripercussioni – era un mitragliere che si trovava a bordo di un elicottero che avrebbe dovuto dare copertura agli australiani impegnati nell’incursione; Josh era anche incaricato di riportare i soldati alla base di Camp Bastion, da dove erano partiti.

Josh aveva raccontato che l’obiettivo era catturare e riportare indietro qualsiasi prigioniero fossero riusciti a prendere. Quella sera la missione sembrava essere andata molto bene per gli australiani: erano stati catturati sette prigionieri, ed erano stati legati con delle corde per evitarne la fuga. Quando arrivò nel punto concordato per recuperare soldati e prigionieri, il pilota dell’elicottero disse che a bordo c’era posto soltanto per sei prigionieri. Josh ha raccontato di aver sentito un attimo di silenzio, poi uno sparo, e un soldato australiano dire: «OK, adesso i prigionieri sono sei».

A quel punto fu «piuttosto chiaro a tutti quelli coinvolti nella missione che [le truppe australiane] avevano appena ucciso uno dei prigionieri», aveva spiegato Josh. Sebbene legato e «completamente obbediente», come si sente dire nel video girato il giorno dopo dai soldati australiani, il prigioniero sarebbe stato ucciso solo per liberare un posto sull’elicottero.

Il filmato in cui i soldati australiani commentano l’uccisione di un uomo catturato proviene dalla videocamera montata sul caschetto del comandante di pattuglia di una missione che si era svolta il giorno seguente nella provincia meridionale dell’Uruzgan. I soldati parlavano di una cosa ridicola e «sbagliata da moltissimi punti di vista», descrivevano chi aveva sparato come un «idiota del cazzo», e dicevano di aver temuto che avrebbe sparato anche a loro. Questi soldati sarebbero tra quelli ascoltati come testimoni nell’inchiesta condotta da Brereton.

– Leggi anche: Il drone americano che uccise 30 civili in Afghanistan

Nel 2017 ABC aveva pubblicato un reportage chiamato The Afghan Files in cui aveva approfondito la «cultura guerriera» delle forze speciali australiane in Afghanistan ed individuato diversi possibili casi di uccisioni illegali. Il giornalista che aveva avviato l’inchiesta, Daniel Oakes, fu messo sotto indagine assieme al produttore Sam Clark per aver ottenuto informazioni riservate da parte di un funzionario del governo, ma di recente le indagini sono state sospese.