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  • Giovedì 5 novembre 2020

Quali criteri usa il governo per definire le aree rosse

Sono 21 e sono stati resi noti a fine aprile: le nuove misure restrittive per contrastare il coronavirus li hanno fatti tornare d'attualità ed è bene spiegare cosa misurano e come

A Roma gli operatori sanitari impegnati al drive-in per il tampone (LaPresse)
A Roma gli operatori sanitari impegnati al drive-in per il tampone (LaPresse)

Per stabilire le nuove misure restrittive definite dal nuovo DPCM e provare a contenere il contagio nelle singole regioni verranno utilizzati dati “vecchi”, raccolti venerdì scorso e riferiti alla settimana tra il 19 e il 25 ottobre. La decisione è stata presa dalla cabina di regia dell’emergenza coronavirus. Nella riunione che si è tenuta ieri mattina è emerso che i dati raccolti negli ultimi sette giorni non sono sufficienti a mettere a punto un nuovo monitoraggio e, tra l’altro, è stato rilevato un grave peggioramento nelle comunicazioni da parte delle regioni, che inviano numeri incompleti.

Avere dati affidabili e aggiornati sull’andamento dell’epidemia è essenziale soprattutto per adottare misure «differenziate e ben mirate», nella logica selettiva prospettata ieri dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Non è semplice capire, però, quali siano questi dati, dove vengono raccolti e chi li analizza, e quali sono le soglie di allerta che fanno scattare le misure restrittive a livello nazionale oppure nelle singole regioni. I numeri considerati dal governo non sono solo quelli diffusi tutti i giorni dalla Protezione civile: sono anche altri, e vanno contestualizzati con cura.

In breve, tutti i parametri e i dati sono contenuti in quattro documenti. Il primo è la “road map” per il monitoraggio del rischio sanitario, cioè un protocollo di azioni che scandiscono le fasi dell’epidemia. Poi ci sono i 21 indicatori per il controllo del rischio, cioè i numeri che servono per capire se la situazione è grave oppure no. Il terzo documento ha per titolo “Prevenzione e risposta a Covid-19”, è stato messo a punto a metà ottobre dall’Istituto superiore di sanità e definisce i quattro scenari di allerta e la possibile evoluzione dell’emergenza. E infine i singoli DPCM – come l’ultimo – che traducono gli scenari ricavati dai dati in decisioni operative, come le chiusure di regioni o di settori lavorativi. Più avanti esaminiamo tutto nel dettaglio.

La premessa è che un’epidemia, soprattutto questa epidemia, è un fenomeno complicato da decifrare. Non solo per la politica, come abbiamo visto in tutto il mondo, ma anche per gli epidemiologi più esperti. Un singolo numero non può spiegare cosa sta succedendo, quali sono i problemi e come intervenire. Ecco perché le soluzioni messe in campo sono così articolate.

La road map
Il primo schema che definisce le fasi del monitoraggio del rischio sanitario è stato allegato al DPCM firmato lo scorso 26 aprile e in quel momento era importante per capire quali fossero le condizioni per uscire dal lockdown. A prima vista, e non solo a prima vista, è molto complesso.

Ci sono un inizio – «valutare se sono presenti standard minimi di qualità della sorveglianza epidemiologica» – e una fine, chiamata semplicemente «fine della pandemia», a cui segue una fase chiamata «preparazione» a possibili nuove epidemie. 

La road map contenuta nel DPCM del 26 aprile

La fase 1, ovvero il lockdown, scatta se non vengono rispettati gli standard minimi di sorveglianza epidemiologica, quindi quando il contagio è talmente grave da rendere inefficace il tracciamento con i tamponi. Una condizione che si è verificata sette mesi fa, a marzo, quando è stata decisa la chiusura nazionale.

La fase 2A è una fase di montaggio dell’evoluzione dei trend. Per avviarsi all’uscita dall’emergenza deve esserci un miglioramento di almeno il 60% di una serie di parametri: numero di casi sintomatici notificati per mese in cui è indicata la data di inizio sintomi; numero di casi notificati nel mese con storia del ricovero in ospedale, in reparto oppure in terapia intensiva; numero di casi notificati in cui è riportato il comune di domicilio. Insomma, un calo significativo di nuovi contagi e nuovi ospedalizzati.

L’analisi  di questi dati porta a valutare se «la trasmissione di Covid-19 nella regione è stabile». La stabilità viene verificata in un arco di tempo di 14 giorni attraverso il numero di casi riportati dalla protezione civile, il numero di nuovi focolai e l’indice Rt calcolato dall’Istituto superiore di sanità, cioè l’indice che serve a misurare quanto viene trasmesso il virus e che «rappresenta – per usare la definizione del ministero della Salute – il numero medio delle infezioni prodotte da ciascun individuo infetto dopo l’applicazione delle misure di contenimento dell’epidemia stessa». Quindi è uno strumento molto utile per valutare l’efficacia delle misure restrittive.

– Leggi anche: Il tasso di positività dei tamponi, spiegato

In questo punto della road map viene anche introdotta l’opportunità, nel caso i dati evidenziassero un aumento deciso in alcune aree, di «istituire una zona rossa sub regionale». 

Nella fase 2A vengono introdotti altri criteri importanti per verificare un eventuale peggioramento come la verifica di un eventuale sovraccarico dei sistemi sanitari, l’abilità di testare tempestivamente tutti i casi sospetti, la possibilità di garantire le adeguate risorse per contact tracing, isolamento e quarantena. Sono tutti i problemi che l’Italia sta affrontando in questo momento.

Già a fine aprile, insomma, era ben chiaro quali fossero le principali criticità a cui le regioni sarebbero andate incontro senza un’adeguata prevenzione. 

Le ultime due fasi della road map sono la numero 3, che si raggiunge solo con l’arrivo del vaccino o un «accesso diffuso a trattamenti», quindi con un contenimento del contagio senza pressione sugli ospedali. La fase quattro, come già detto, viene chiamata “preparazione” e significa che l’epidemia è alle spalle. 

I 21 indicatori
I 21 indicatori studiati per verificare la gravità dell’epidemia contengono i valori delle soglie d’allerta che devono essere monitorate attraverso la raccolta dei dati a livello locale e nazionale. 

Gli indicatori sono raggruppati in tre ambiti. Il primo misura la capacità di raccolta dati delle singole regioni. 

Il primo ambito degli indicatori studiati per monitorare l’epidemia (Quotidiano Sanità)

Il secondo ambito si riferisce alla capacità di testare tutti i casi sospetti e la possibilità di garantire adeguate risorse per contact tracing, isolamento e quarantena. Una delle soglie più importanti riguarda il tempo mediano che trascorre tra l’inizio dei sintomi e la data di isolamento: non deve superare i tre giorni. Sul contact tracing, uno dei problemi più rilevanti di questo autunno, viene chiesta una relazione periodica alle regioni per capire se sono state messe in campo forze adeguate al tracciamento dei casi. Al momento quasi tutte le regioni non sembrano soddisfare questo parametro. Anzi, ormai è chiaro che in molte zone il contact tracing è saltatoGià in questo decreto di sei mesi fa, però, era stato raccomandato di garantire a questo compito «non meno di 1 persona ogni 10.000 abitanti includendo le attività di indagine epidemiologica, il tracciamento dei contatti, il monitoraggio dei quarantenati, l’esecuzione dei tamponi».

Il secondo ambito dei parametri che servono a monitorare l’epidemia (Quotidiano Sanità)

Il terzo ambito di indicatori invece contempla soprattutto la tenuta dei servizi sanitari, cioè la pressione sugli ospedali, e il monitoraggio della trasmissione del contagio così come viene osservato tutti i giorni attraverso i dati della Protezione civile. 

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L’elenco dei 21 indicatori prevede il monitoraggio di nove parametri tra cui il numero di nuovi focolai, il numero di accessi al pronto soccorso per coronavirus, il tasso di occupazione dei posti letto in terapia intensiva.

(Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse)

Tutti i dati raccolti vengono analizzati da due algoritmi di valutazione che a loro volta generano una matrice del rischio, «definito come la combinazione della probabilità e dell’impatto di una minaccia sanitaria». Per semplificare, tutti questi parametri servono per determinare la probabilità di veder peggiorare la situazione sanitaria. Con un impatto alto e un’alta probabilità di peggioramento si va incontro a un rischio definito “molto elevato”.

È doveroso dire che le regioni non sempre riescono a raccogliere questi dati, limitando la comprensione della situazione. Più volte negli ultimi mesi il comitato tecnico scientifico ha sollecitato maggiori investimenti da parte delle regioni per raccogliere i dati in modo più preciso. Nell’ultimo report settimanale del ministero è stato scritto esplicitamente: «Si osserva una sempre maggiore difficoltà a reperire dati  completi a causa del grave sovraccarico dei servizi territoriali, questo potrebbe portare a sottostimare la velocità di trasmissione in particolare in alcune regioni». È un problema rilevante. 

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I quattro scenari
A metà ottobre è stato approvato un altro documento che prevede quattro possibili scenari di evoluzione dell’epidemia. Si chiama “Prevenzione e risposta a Covid-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” ed è stato studiato da Istituto superiore di sanità, ministero e regioni in collaborazione con Protezione civile, Aifa, Inail, istituto Spallanzani, università Cattolica, Areu 118 Lombardia e fondazione Bruno Kessler. 

I quattro scenari si basano sui dati che abbiamo raccontato finora e sono più chiari rispetto ai decreti. 

Lo scenario numero 1 è la «situazione di trasmissione localizzata (focolai) sostanzialmente invariata rispetto al periodo luglio-agosto 2020». Quindi è già stato superato dalla crescita dei contagi delle ultime settimane.
Il secondo scenario individua una «situazione di trasmissibilità sostenuta» con un indice Rt sempre compreso tra 1 e 1,25. Anche in questo caso, in alcune regioni l’indice Rt, che permette di monitorare l’efficacia degli interventi nel corso di un’epidemia, è già superiore a 1,5.

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Lo scenario numero 3 individua una «situazione di trasmissibilità sostenuta e diffusa con rischi di tenuta del sistema sanitario nel medio periodo», con valori di Rt regionali sempre compresi tra 1,25 e 1,5. Con questo scenario «la crescita del numero di casi potrebbe comportare un sovraccarico dei servizi assistenziali entro 2-3 mesi».
Il quarto scenario, il peggiore, mostra le conseguenze di una «situazione di trasmissibilità non controllata, con valori di Rt regionali maggiori di 1,5». Il documento spiega che uno scenario di questo tipo potrebbe portare a un numero di casi elevato e al sovraccarico dei servizi assistenziali, senza la possibilità di tracciare l’origine dei nuovi casi. 

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La politica traduce gli scenari in decisioni operative. Nell’ultimo DPCM, per esempio, nelle regioni che rientrano nello scenario 4 sarà vietato uscire di casa tranne che per comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità, cioè quasi solo per motivi di salute. 

Tutte le misure decise nei DPCM possono cambiare nel tempo, con il via libera di altri DPCM, a seconda dell’evoluzione dell’epidemia, così come è avvenuto nelle ultime tre settimane con l’approvazione di tre provvedimenti per limitare la trasmissione del contagio.