La ricerca sull’Alzheimer non va benissimo

Le sperimentazioni continuano a non dare risultati, e anche diagnosticarlo non è semplice: le uniche terapie curano alcuni sintomi ma non la malattia

L'ospite di una casa di riposo di Berlino, in Germania (Carsten Koall/Getty Images)
L'ospite di una casa di riposo di Berlino, in Germania (Carsten Koall/Getty Images)

Circa un anno e mezzo fa due grandi aziende farmaceutiche, la statunitense Biogen e la giapponese Eisaei, annunciarono la fine della sperimentazione farmacologica sull’aducanumab per trattare la malattia di Alzheimer, la forma più comune di demenza degenerativa. L’insuccesso dello studio si aggiunse a una lunga serie di precedenti: la ricerca sull’Alzheimer va avanti da decenni senza che siano state trovate cure, vaccini o test che permettano di diagnosticarla prima della comparsa dei sintomi. Secondo uno studio del 2014, il 99,6 per cento delle 413 sperimentazioni cliniche su questa malattia fatte tra il 2002 e il 2012 è stato un fallimento. Alcune grandi case farmaceutiche – come l’americana Pfizer, nel 2018 – hanno rinunciato definitivamente a cercare una cura per questi insuccessi.

Quest’anno poi, a causa della pandemia di COVID-19, è possibile che la ricerca sull’Alzheimer e le altre malattie neurodegenerative subisca dei rallentamenti: non solo perché anche il lavoro delle case farmaceutiche e dei ricercatori è stato influenzato dalla riduzione delle attività e degli spostamenti durante i mesi di lockdown, ma anche perché molti finanziamenti destinati alla ricerca medica sono stati diretti sugli studi relativi alla COVID-19. Quelli su altre malattie, per quanto importanti, sono passati in secondo piano. Ne parla un articolo sull’ultimo numero dell’Economist, che ricorda che la demenza degenerativa è un problema mondiale che si aggraverà sempre di più: oggi affligge circa 50 milioni di persone nel mondo e con l’invecchiamento della popolazione si stima che arriverà a colpire 82 milioni di persone entro il 2030, 150 entro il 2050.

Cosa sappiamo dell’Alzheimer
Esistono varie forme di demenze degenerative, cioè di riduzioni delle capacità cognitive, i cui sintomi, nella maggior parte dei casi, si manifestano in persone anziane, ma non sempre. Ad esempio ci sono le demenze fronto-temporali, chiamate così perché caratterizzate dalla riduzione dei lobi cerebrali frontale e temporale: si manifestano con disturbi del comportamento e della parola e di solito in pazienti più giovani rispetto a quelli malati di Alzheimer. Ci sono poi la demenza a corpi di Lewy, che ha legami con la malattia di Parkinson, e le demenze vascolari, causate da danni all’apparato circolatorio all’interno del cervello, come ripetuti piccoli ictus.

La malattia di Alzheimer, che deve il nome al medico tedesco che la scoprì nel 1906, è però la più comune e nota forma di demenza degenerativa: tra il 60 e l’80 per cento dei casi di demenza è dovuto all’Alzheimer.

– Leggi anche: Una pubblicità che spiega con delicatezza com’è convivere con l’Alzheimer

Nonostante sia nota da più di un secolo, dell’Alzheimer non conosciamo ancora l’eziopatogenesi, cioè quello che porta al suo sviluppo. Una delle ipotesi principali riguarda l’amiloide, un tipo di proteine. Nei rari casi di Alzheimer determinati con certezza da fattori genetici infatti la β-amiloide (“betamiloide”) si accumula nei neuroni a causa di mutazioni nei geni che intervengono nel suo processo di creazione. Per questo le principali aziende farmaceutiche che si occupano di malattie neurodegenerative hanno fatto delle sperimentazioni su sostanze che potessero prevenire l’accumulo della β-amiloide, come possibili cure per l’Alzheimer.

Cosa non sta funzionando
Dato che la maggior parte di queste sperimentazioni non ha funzionato, cioè non ha portato a una riduzione dell’accumulo della betamiloide e al rallentamento del decadimento cognitivo nelle persone che hanno partecipato agli studi, si è ipotizzato che per i test su questi farmaci fossero state scelte persone in uno stadio troppo avanzato della malattia, per cui ormai il danno era irreversibile.

Pertanto negli ultimi anni si è deciso di tentare il trattamento in una fase iniziale di malattia, in una situazione di demenza lieve o di MCI (che sta per mild cognitive impairment, una condizione in cui è presente un deficit cognitivo, in assenza di compromissione dell’autonomia): l’accumulo di betamiloide precede l’inizio della demenza lieve di almeno 15-20 anni. Anche gli studi fatti in questo modo però sono falliti nella maggior parte dei casi.

La sperimentazione sull’aducanumab, considerata una delle più promettenti, era proprio uno di questi studi. Tuttavia, mesi dopo l’annuncio della sua interruzione, lo scorso ottobre Biogen era in parte tornata sui suoi passi: in seguito a un’analisi dati più raffinata delle precedenti, l’azienda si era accorta che un sottogruppo specifico di pazienti sottoposti a un dosaggio elevato di aducanumab aveva avuto un declino cognitivo più lento di quello del gruppo di controllo, cioè delle persone a cui era stato somministrato un placebo.

Per via di questi dati, Biogen ha iniziato un nuovo studio – nella modalità di open-label study, cioè dando il farmaco a tutti i partecipanti, senza un gruppo di controllo – sulla somministrazione ad alto dosaggio dell’aducanumab, che durerà fino a settembre del 2023, e a luglio ha chiesto l’approvazione per l’uso del farmaco contro l’Alzheimer alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa degli Stati Uniti che regolamenta farmaci e prodotti medicali. Il valore delle azioni di Biogen era diminuito di circa il 30 per cento dopo l’annuncio del fallimento delle prime sperimentazioni sull’aducanumab, mentre dopo la richiesta di approvazione all’FDA è cresciuto del 26 per cento. Per quel che ne sappiamo però l’esito della sperimentazione potrebbe non avere conseguenze per la maggior parte dei malati di Alzheimer.

Intanto a novembre in Cina è stato approvato in via temporanea l’uso di un altro farmaco, l’Oligomannate (gv-971), prodotto a partire da un tipo di alghe da un’azienda di Shanghai, la Green Valley. Secondo le sperimentazioni dei produttori ridurrebbe l’accumulo di betamiloide e rallenterebbe il declino cognitivo. Era da 17 anni che un farmaco studiato per cercare di curare l’Alzheimer non arrivava così in alto nel processo di approvazione nel paese, ma secondo alcuni scienziati occidentali, spiega l’Economist, i dati di Green Valley sono ridotti e difficili da verificare.

– Leggi anche: La città per i malati di Alzheimer

I frequenti fallimenti delle ricerche sulla cura all’Alzheimer (insieme all’alto costo, per il momento, degli anticorpi monoclonali come l’aducanumab) hanno spinto molti scienziati a dedicarsi piuttosto allo studio di metodi diagnostici che possano rilevare la malattia precocemente e alle forme di prevenzione che potrebbero ridurne l’incidenza.
Si stanno studiando anche altri aspetti che potrebbero aiutare nel trovare una cura, ma le ricerche sono molto indietro dato che fino a poco tempo fa si erano concentrate sulla betamiloide.

Le ricerche sui metodi di diagnosi e la prevenzione
Trovare dei modi per diagnosticare per tempo l’Alzheimer servirebbe per intervenire tempestivamente con le sperimentazioni e, quando ci sarà, con la cura.

Oltre ai test cognitivi, quelli in cui i pazienti devono rispondere a varie semplici domande o esercizi, e ai (costosi) test genetici usati per forme genetiche dell’Alzheimer, che però sono molto rare, oggi si usano due altri sistemi per diagnosticare la demenza di Alzheimer: uno è misurare i livelli di amiloide e delle proteina detta “tau”, la cui presenza è ricorrente nei neuroni di chi soffre di demenza degenerativa, nel liquido cerebrospinale del paziente, attraverso una puntura lombare. L’altro è fare una risonanza magnetica nucleare (RMN) e una particolare tomografia a emissione di positroni (PET amiloide) per misurare la grandezza del cervello e l’accumulo di amiloide al suo interno.

La risonanza magnetica e la PET sono indagini costose e bisogna spesso aspettare per esservi sottoposti: per questa ragione si stanno cercando metodi alternativi più economici per diagnosticare l’Alzheimer, come un esame del sangue. A luglio, durante l’ultima conferenza annuale dell’Alzheimer’s Association, si è parlato con speranza di un esame di questo genere basato sulla rilevazione di una forma della proteina tau chiamata p-tau217: è stato osservato che la sua presenza nel sangue dei pazienti prevede lo sviluppo dell’Alzheimer con un’accuratezza del 96 per cento, anni prima della comparsa dei sintomi. Rilevare invece la presenza della betamiloide nel sangue è utile se si prendono in considerazione altri due fattori di rischio: l’età e la presenza della variante epsilon 4 del gene APOE; le persone che ce l’hanno, hanno una certa età e una certa quantità di betamiloide nel sangue si ammaleranno di Alzheimer, secondo uno studio dell’anno scorso, nel 94 per cento dei casi.

Altri strumenti che potrebbero aiutare a diagnosticare con un buon anticipo una demenza da Alzheimer sono le app degli smartphone, usate insieme a sistemi di raccolta dati e di intelligenza artificiale. Infatti tra i primi segni del decadimento cognitivo ci sono una riduzione del numero di parole che si usano e del senso dell’orientamento: questi problemi potrebbero essere rilevati dal modo in cui le persone usano le app. Tuttavia si tratta di una prospettiva un po’ preoccupante considerando che la stragrande maggioranza delle app che usiamo sono prodotte da grandissime aziende che già hanno a disposizione molti dei nostri dati personali.

– Leggi anche: Le complicazioni che causa la COVID-19 al cervello

Si stanno poi studiando alcuni possibili fattori di rischio per l’Alzheimer: conoscerli permetterebbe di diffondere strategie di medicina preventiva. Alla conferenza dell’Alzheimer’s Association di luglio è stato presentato uno studio secondo cui la demenza può essere prevenuta o ritardata nel 40 per cento dei casi se si evitano i seguenti comportamenti e condizioni: il fumo, la pressione alta, l’obesità, la perdita di udito, un basso livello di istruzione, il diabete (fin qui erano fattori di rischio già noti), l’abuso di sostanze alcoliche, frequenti traumi alla testa nel corso della vita e l’esposizione ad alti livelli di inquinamento in età avanzata. Questo studio suggerisce che le campagne di prevenzione per i problemi cardiovascolari, i tumori e il diabete potrebbero essere utili anche per ridurre i tassi di demenza.

Quali farmaci e terapie si usano oggi
Ai malati di Alzheimer oggi possono essere prescritti quattro farmaci: sono tutti sintomatici, cioè non curano la malattia, ma intervengono su alcuni dei suoi sintomi. Dal punto di vista del decadimento cognitivo hanno benefici limitati, ma sono comunque utili perché hanno effetti positivi dal punto di vista neuropsicologico: ad esempio riducono l’agitazione, le allucinazioni e l’apatia, e quindi aiutano a stare meglio sia i pazienti che chi si prende cura di loro. Possono avere effetti collaterali sgradevoli – come nausea e diarrea – ma esistono in diverse formulazioni, per cui i problemi si possono anche superare.

Questi quattro farmaci sono i tre inibitori della colinesterasi, un enzima, che sono chiamati anche più semplicemente anticolinesterasici, e la memantina. I primi sono usati per i pazienti la cui demenza è ancora lieve o moderata. La memantina – principio attivo venduto come Ebixa, ma di cui è scaduto il brevetto per cui ha un prezzo abbordabile – si usa per le forme moderate o gravi. Possono anche essere prescritti in abbinamento per un certo periodo di tempo: all’aggravarsi della malattia questi farmaci vengono in genere sospesi, in quanto i reali benefici non sono tali da giustificarne l’utilizzo.

– Leggi anche: La storia di Conor Dougherty, di sua mamma e di un tweet