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  • Domenica 16 agosto 2020

Le altre elezioni statunitensi di novembre

Sono quelle che rinnoveranno la Camera e un terzo del Senato: determineranno ciò che potrà e non potrà fare il prossimo presidente, chiunque sia

Il Campidoglio di Washington, sede del Congresso. (Stefani Reynolds/Getty Images)
Il Campidoglio di Washington, sede del Congresso. (Stefani Reynolds/Getty Images)

Mentre gran parte del racconto mediatico della politica statunitense è concentrata sulle elezioni presidenziali del 3 novembre, lo stesso giorno si voterà anche per il Congresso, il parlamento degli Stati Uniti. Sono elezioni strettamente collegate a quelle per il presidente, ma allo stesso tempo diverse e per molti versi indipendenti. E sono molto importanti, visto che determineranno se il prossimo presidente degli Stati Uniti, che sia Donald Trump o Joe Biden, avrà a che fare con un Congresso che lo sostiene, o con due camere in mano a partiti diversi, o addirittura con entrambe in mano all’opposizione.

Come funzionano le elezioni del Congresso
Il Congresso statunitense è composto da due camere: la Camera dei Rappresentanti e il Senato. Alle elezioni di novembre verranno rinnovati tutti e 435 i deputati della Camera, e 35 senatori su 100. Negli Stati Uniti, infatti, non si vota ogni quattro anni per il Congresso, ma ogni due: oltre a quelle in corrispondenza delle elezioni presidenziali, ci sono le elezioni di metà mandato – che si svolgono due anni dopo quelle presidenziali – e che servono a eleggere tutti i deputati e un terzo dei senatori. Il mandato dei deputati quindi dura due anni, quello dei senatori sei anni.

Per la Camera il voto è diviso per collegi elettorali, territori che possono contare da 525mila abitanti, come il primo collegio del Rhode Island, a poco meno di un milione di abitanti, come quello che corrisponde all’intero stato del Montana. Ciascuno stato ha un numero totale di rappresentanti proporzionale alla popolazione: si va dall’unico deputato del Montana, dell’Alaska o di diversi altri stati, fino ai 53 della California. I candidati dei due principali partiti, il Partito Democratico e quello Repubblicano, vengono scelti solitamente con le primarie di partito, ma possono anche essere nominati durante le convention locali. Non c’è un limite di mandati, e quindi lo stesso deputato può mantenere il suo seggio anche per decenni (e succede), finché i suoi elettori decidono di votarlo. I collegi vengono ridisegnati ogni dieci anni in modo più o meno arbitrario dalla politica, e l’attuale disegno favorisce molto i Repubblicani.

Per il Senato, invece, l’elezione avviene su base statale. Ogni stato esprime due senatori, a prescindere dalle sue dimensioni, allo scopo di dare rappresentanza agli stati più piccoli. I senatori rappresentano quindi bacini molto diversi di elettori – da decine di milioni a poche centinaia di migliaia – a svantaggio degli stati più grandi e popolosi (e quindi anche in questo caso, complessivamente, a vantaggio dei Repubblicani, che sono più forti negli stati rurali).

Il Congresso riunito in seduta comune alla Camera per il discorso sullo Stato dell’Unione di Donald Trump, il 4 febbraio 2020. (Mark Wilson/Getty Images)

Chi vota a novembre
Tutti gli Stati Uniti, visto che si rinnovano tutti i seggi della Camera e si elegge il presidente. Ma soltanto una parte del paese vota per il Senato. In particolare, rinnoveranno uno dei loro due seggi Alabama, Alaska, Arkansas, Colorado, Delaware, Georgia, Idaho, Illinois, Iowa, Kansas, Kentucky, Louisiana, Maine, Massachusetts, Michigan, Minnesota, Mississippi, Montana, Nebraska, New Hampshire, New Jersey, New Mexico, North Carolina, Oklahoma, Oregon, Rhode Island, South Carolina, South Dakota, Tennessee, Texas, Virginia, West Virginia e Wyoming.

Si voterà invece per tutti e due i senatori della Georgia, perché oltre a quella normale ci sarà un’elezione speciale per le dimissioni del Repubblicano Johnny Isakson. E ci sarà un’elezione speciale anche in Arizona, dove si è dimesso il senatore nominato al posto di John McCain, morto nel 2018.

Due elezioni diverse
Si dice spesso che fare previsioni sulle elezioni presidenziali americane su base nazionale lascia il tempo che trova, perché l’elezione è su base statale e può capitare, come è successo nel 2016, che chi vince il voto popolare poi non vinca in abbastanza stati per avere la maggioranza nel collegio elettorale, l’assemblea di delegati che concretamente assegna la presidenza. Vale qualcosa di simile anche per il Congresso: al Senato, le elezioni di novembre saranno praticamente 34 elezioni diverse (cioè una per ogni stato che vota). Per la Camera, in un certo senso ci sono 435 elezioni diverse: ma fare analisi su ogni singolo collegio è impossibile, e quindi si tende a fare previsioni più generali.

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Com’è adesso il Congresso
I Democratici controllano la Camera, con 232 deputati contro i 198 dei Repubblicani (ci sono 4 seggi vacanti e un indipendente). L’hanno ripresa alle elezioni di metà mandato del 2018, con una larga vittoria che ha permesso loro di superare lo svantaggio determinato dal disegno dei collegi. Il Senato invece è controllato dai Repubblicani, che hanno 53 senatori contro i 45 dei Democratici (ci sono due indipendenti, che votano con i Democratici: uno è Bernie Sanders).

Un Congresso diviso, cioè controllato una camera per partito, è una condizione piuttosto normale negli Stati Uniti: negli ultimi vent’anni Camera e Senato sono state controllate contemporaneamente dallo stesso partito per un totale di dieci anni, sei dai Repubblicani e quattro dai Democratici. Che un partito controlli nello stesso momento anche la presidenza è ancora più raro: è successo tra il 2003 e il 2007 per i Repubblicani, tra il 2009 e il 2011 per i Democratici, e di nuovo tra il 2017 e il 2019 per i Repubblicani. Succede, di solito, in corrispondenza dell’elezione di un nuovo presidente, ma non sempre: George W. Bush nei suoi primi due anni alla Casa Bianca dovette avere a che fare con un Senato Democratico.

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Se un presidente ha dalla sua parte il Congresso, i suoi poteri sono molto ampi. Se una o entrambe le camere non lo sostengono, potrà fare molto meno. Per questo si dice che i primi mesi di una presidenza, in cui spesso lo stesso partito controlla entrambi i rami del Congresso, sono quelli in cui un’amministrazione può davvero avviare delle riforme, sperando di portarle a termine.

Cosa si prevede per queste elezioni
Uno dei primi aspetti da tenere in considerazione è che queste elezioni corrispondono a quelle presidenziali, e quindi sono normalmente assai più partecipate di quelle di metà mandato. Tradizionalmente si ritiene che una maggiore affluenza favorisca i Democratici, ma è una regola che è stata spesso messa in discussione. A complicare i calcoli, per queste elezioni, c’è il fatto che si terranno in mezzo a una pandemia: con ogni probabilità l’affluenza ne risentirà, e infatti si sta discutendo di come favorire il voto per posta, al quale però Trump è molto ostile.

La questione del voto per posta potrebbe avere un ruolo fondamentale nell’esito delle elezioni, perché a seconda dell’estensione e delle modalità con cui sarà garantito potrebbe cambiare significativamente l’elettorato che si esprimerà sul prossimo Congresso e sul prossimo presidente. Uno dei problemi più citati quando si parla di inclusività elettorale negli Stati Uniti, per esempio, è che in certi seggi è normale fare ore e ore di coda per votare: una cosa che tante persone non possono permettersi, per motivi di lavoro. Con una pandemia di mezzo, problemi di questo tipo potrebbero diventare ancora più evidenti.

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Fino a prima della pandemia da coronavirus c’era più incertezza sull’esito delle elezioni di novembre per quanto riguarda il Congresso. Ma gli ultimi mesi hanno cambiato radicalmente gli Stati Uniti: c’è stata e c’è ancora una crisi sanitaria senza precedenti nell’ultimo secolo, di cui Trump è visto da buona parte degli elettori come responsabile; c’è stata e ci sarà l’annessa crisi economica. E ci sono state anche le grandi proteste anti-razziste di giugno, che secondo molte analisi hanno dato più entusiasmo e compattezza all’elettorato Democratico.

L’elezione presidenziale poi influirà non solo sull’affluenza, ma anche sul voto. È più comune che un elettore dia il suo voto per il Congresso allo stesso partito del suo candidato presidente preferito. I sondaggi dicono che il tasso di approvazione di Trump è di poco superiore al 40 per cento (è stato anche più basso, all’inizio del suo mandato) mentre la percentuale di elettori che disapprova la sua gestione dell’epidemia è intorno al 58 per cento. Se a questo si unisce una crisi economica gravissima – nel secondo trimestre del 2020 gli Stati Uniti hanno registrato la peggiore contrazione economica di sempre – e il fatto che Biden è in testa a tutti i sondaggi, e anche di diversi punti, i Democratici hanno dalla loro un grande vantaggio.

Le previsioni più accurate sono basate sui singoli collegi, e dicono che oltre 300 sono già praticamente certi: circa 185 per i Democratici, e 150 per i Repubblicani. Quelli su cui si giocano davvero le elezioni sono quel centinaio di seggi il cui esito è più incerto. I sondaggisti li dividono in quelli che molto probabilmente saranno vinti da uno o dall’altro partito, in quelli che tendono di più da una parte, e in quelli troppo incerti per esprimere un favorito: questi ultimi sono più o meno 25. I sondaggi sui singoli collegi, messi insieme, dicono che i Democratici sono favoriti a ottenere il controllo della Camera.


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Senato
Le cose sono diverse, e più complicate. Le tendenze e le considerazioni generali possono aiutare a farsi un’idea, ma è necessario considerare ogni singolo stato per fare previsioni. La prima cosa da tenere a mente è che dei 35 senatori che si giocano il seggio, 23 sono Repubblicani e 12 Democratici. Questo significa che i Repubblicani hanno molto più da perdere, e che al contrario i Democratici hanno molte possibilità diverse per puntare a sottrarre seggi agli avversari.

Ci sono seggi che non sono in discussione: i più sicuri sono quelli in cui c’è un candidato uscente di un partito che tradizionalmente va forte in quello stato. È il caso dell’Oregon, dove è strafavorito il Democratico Jeff Merkley, o dell’Oklahoma, dove è ricandidato il Repubblicano Jim Inhofe, che occupa il suo seggio dal 1994. In totale, i seggi del Senato in cui si vota a novembre ma in cui non c’è praticamente gara sono 17, sette per i Democratici e 10 per i Repubblicani.

Il sito 270towin, che mette assieme i sondaggi di diversi istituti, indica sei seggi in bilico: Montana, Colorado, Iowa, Georgia (quello dell’elezione normale), North Carolina e Maine. Tutti sono attualmente controllati dai Repubblicani. Tra questi, uno di quelli più osservati è il Montana, uno stato che negli ultimi cinquant’anni ha votato una sola volta per un presidente Democratico (Bill Clinton nel 1992) ma che dal 2005 ha governatori Democratici. Quello attuale, Steve Bullock, si è candidato al Senato riaprendo un’elezione che i Repubblicani consideravano vinta (restano comunque leggermente favoriti). Una situazione simile è quella del Colorado, dove a sfidare l’uscente senatore Repubblicano c’è John Hickenlooper, popolare governatore dello stato tra il 2011 e il 2019 (qui invece è lui il favorito).

Gli stati in cui invece è leggermente favorito un partito diverso da quello che controlla attualmente il seggio sono due: l’Alabama, uno degli stati più Repubblicani degli Stati Uniti, dove nel 2018 era stato eletto il Democratico Doug Jones, perché l’avversario Roy Moore era stato accusato di violenze sessuali su minori durante la campagna elettorale; e l’Arizona, dove il seggio che per anni era stato saldamente di McCain è ora conteso da Mark Kelly, astronauta e marito di Gabrielle Giffords, la politica che subì un attentato a Tucson nel 2011.


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Nonostante la situazione generale favorevole, per i Democratici sarà molto complicato vincere abbastanza seggi da guadagnare il controllo del Senato: devono riconfermare i 12 che hanno – e in almeno un caso, l’Alabama, sono sfavoriti – e devono conquistarne quattro dei Repubblicani. Oppure soltanto tre, se Biden sarà presidente: le regole del Senato prevedono infatti che se c’è parità su un voto si possa esprimere il vice presidente.