Protesters Tear Down Christopher Columbus Statue Outside Minnesota State Capitol
La statua di Cristoforo Colombo abbattuta a Minneapolis. (Stephen Maturen/Getty Images)

Perché vengono abbattute le statue di Cristoforo Colombo

Storia del mito e del dibattito intorno all'esploratore genovese, simbolo identitario per qualcuno, di colonialismo e razzismo per molti altri

Negli ultimi giorni in alcune città statunitensi sono state abbattute statue di Cristoforo Colombo, l’esploratore genovese che nel 1492 approdò in quella che è attualmente l’isola di San Salvador, nell’arcipelago delle Bahamas, dando inizio alla conquista europea delle Americhe. Le statue di Colombo sono state abbattute a Richmond in Virginia e a Minneapolis in Minnesota, mentre altre a Boston e a Miami sono state vandalizzate, insieme a quelle di schiavisti, generali sudisti e politici associati più o meno direttamente al passato coloniale e razzista dei paesi occidentali.

Una statua di Cristoforo Colombo decapitata, a Boston. (Tim Bradbury/Getty Images)

Questi episodi sono stati conseguenze delle grandi proteste delle ultime settimane negli Stati Uniti e in altri paesi contro il razzismo e le violenze della polizia, organizzate in seguito alla morte di George Floyd, uomo afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis durante un arresto violento. Le proteste, le rivolte e il dibattito che ne è seguito ha riguardato tante espressioni del razzismo delle società contemporanee, compreso il rapporto con il passato coloniale che accomuna gran parte dei paesi occidentali.

Secondo i manifestanti, questo passato continua ad avere grandi conseguenze sul presente, che si concretizzano nell’emarginazione e nella sofferenza di molte persone non bianche. Eppure, sostengono in molti, questo passato è ancora sottovalutato  e parzialmente rimosso dalle società occidentali, in cui prevale una storiografia dal punto di vista dei vincitori, i colonizzatori. Pur essendo i crimini e i genocidi del colonialismo in gran parte riconosciuti, i personaggi che ne furono protagonisti sono ancora in certi casi celebrati e romanticizzati: come testimoniano le statue, dice chi vorrebbe abbatterle.

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Dall’altra parte del dibattito c’è chi dice invece che quelle statue vanno lasciate dove sono in quanto opere d’arte, in alcuni casi, o se non altro in quanto monumenti pubblici che non vanno vandalizzati a prescindere. Ma più in generale, dice chi si è schierato contro l’abbattimento delle statue, questi monumenti rappresentano persone “figlie del loro tempo”, i cui comportamenti e le cui convinzioni vanno contestualizzati e non giudicati con gli standard del XXI secolo. In tanti accusano chi sostiene la distruzione delle statue di fare un’operazione semplicistica, che distingue binariamente la storia tra buoni e cattivi, rifiutando narrazioni e posizioni che invece vorrebbero dare più complessità a questi temi. E ricordano che ci sono lati poco conosciuti e sgradevoli per gran parte dei personaggi storici, anche i più insospettabili: dalle posizioni razziste verso gli africani di Gandhi al maschilismo di Martin Luther King.

Tra i principali oggetti di dibattito c’è stato proprio Cristoforo Colombo, il cui mito negli Stati Uniti è in realtà al centro di discussioni e polemiche ormai da oltre trent’anni.

Breve storia della fama di Colombo negli Stati Uniti
Contrariamente a quanto si possa pensare, Cristoforo Colombo ebbe per secoli un ruolo marginale nell’iconografia nordamericana. Morto nel 1506, rimase a lungo poco conosciuto e le prime celebrazioni del suo arrivo ai Caraibi avvennero in occasione del 300esimo anniversario, nel 1792. Fu però nell’Ottocento che le sue imprese divennero davvero conosciute, principalmente grazie a una biografia del 1828 scritta dallo storico Washington Irving, molto romanzata e che contribuì a diffondere falsi miti: per esempio che fu Colombo a convincere gli europei che la Terra era rotonda, e non piatta.

Alla fine dell’Ottocento il mito di Colombo diventò particolarmente sentito tra gli immigrati italiani e irlandesi, in quel periodo assai discriminati negli Stati Uniti, che iniziarono a dipingerlo come un padre fondatore del paese. Nel 1892, in occasione del 400esimo anniversario, il presidente Benjamin Harrison suggerì l’idea di una festa per celebrare l’arrivo di Colombo nelle Americhe, festa che fu poi istituzionalizzata da Franklin D. Roosevelt nel 1934. A lungo il Columbus Day, il 12 ottobre, fu una specie di festa per gli italiani e irlandesi negli Stati Uniti, e negli anni Trenta peraltro fu un’occasione per celebrare il regime fascista di Benito Mussolini per i suoi simpatizzanti italo-americani.

Nei decenni successivi il Columbus Day si consolidò come una delle principali festività statunitensi, occasionalmente contestata dai suprematisti bianchi che sostenevano che a scoprire l’America non fosse stato Colombo, bensì i vichinghi secoli prima. Avevano torto entrambe le fazioni: i vichinghi, e in particolare l’esploratore islandese Leif Erikson, erano stati effettivamente i primi europei ad approdare nel Nord America, dove però da millenni vivevano i nativi americani, arrivati probabilmente dall’Asia attraverso lo stretto di Bering.

La polizia davanti alla statua abbattuta a Minneapolis. (Stephen Maturen/Getty Images)

I crimini di Colombo
Ma le contestazioni al Columbus Day e alle statue di Colombo non riguardano tanto il suo eventuale primato, bensì quello che l’esploratore fece una volta arrivato ai Caraibi, e le conseguenze che le sue azioni ebbero nei decenni successivi su milioni di persone che vivevano all’epoca nel Nord America. A partire dagli anni Novanta, un movimento sempre più partecipato cominciò a porre l’attenzione su un’altra versione della storia, quella degli indios e dei nativi americani, fino ad allora ampiamente trascurata e che ebbe ampia diffusione con l’uscita di Storia del popolo americano dal 1492 a oggi, un importante saggio del 1980 di Howard Zinn che ripercorre la storia del Nord America dal punto di vista delle popolazioni oppresse.

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Da allora molti saggi hanno approfondito e riscoperto lati poco conosciuti della storia di Colombo e delle sue spedizioni, rivelandone i crimini e gli aspetti più drammatici, e i grandi danni alle popolazioni autoctone. Uno dei più citati, anche nel dibattito di questi giorni, è Colombo – I quattro viaggi pubblicato nel 2011 da Laurence Bergreen.

Tutti o quasi sanno che Colombo salpò dalla Spagna con tre caravelle per scoprire una nuova rotta per l’Oriente, ritrovandosi dopo oltre due mesi di navigazione in una terra a lui sconosciuta e che a lungo pensò essere una propaggine dell’Asia. La prima popolazione che incontrò furono i Lucayan, molto pacifici e che accolsero i suoi uomini offrendo cibo e acqua, chiedendo loro se arrivassero dal paradiso, scrisse Colombo nel suo giornale. Con 50 uomini potevano essere soggiogati e si poteva governarli a piacimento, aggiunse. Ne rapì alcuni e salpò diretto verso altre isole, arrivando a Cuba e poi a Hispaniola, l’isola dove oggi ci sono Haiti e la Repubblica Dominicana.

Una statua di Colombo vandalizzata a Miami. (Carl Juste/Miami Herald via AP)

Lì incontrò i Taìno, la popolazione che subì le conseguenze più drammatiche dalle spedizioni colombiane. Colombo li descrisse come una popolazione sorprendentemente pacifica e generosa: lasciò sull’isola una quarantina di uomini, fece dei prigionieri nativi da portare con sé e continuò brevemente le sue esplorazioni, prima di tornare in Spagna a render conto delle sue scoperte.

Colombo sovrastimò la quantità d’oro disponibile in quelle isole, promise laute ricchezze alla monarchia spagnola e fece ritorno ai Caraibi alla fine del 1493 con 1.200 uomini e 17 navi. Dopo aver esplorato molte isole fece ritorno a Hispaniola, dove scoprì che gli uomini che aveva lasciato erano stati uccisi dai Taìno, dopo che avevano cominciato a razziare l’isola in cerca d’oro, schiavi e donne da violentare. Colombo fece prigionieri circa 500 indigeni, di cui circa 200 morirono durante il viaggio di ritorno.

Ci sono varie stime sul numero di Taìno che abitavano Hispaniola prima dell’arrivo di Colombo: Bartolomé de las Casas, vescovo che raccontò i primi decenni della colonizzazione europea in America, sosteneva che fossero tre milioni, ma gli storici oggi sono più concordi su stime nell’ordine di alcune centinaia di migliaia. Quello che è sicuro è che quando las Casas arrivò sull’isola, nel 1508, scrisse che gli indigeni erano 60mila. 25 anni dopo ne erano rimasti poche centinaia. Spesso il genocidio dei Taìno è stato attribuito alle malattie portate dagli europei, in particolare il vaiolo, la malaria e l’influenza, ma la storiografia più recente ha ribadito il ruolo centrale avuto dai massacri compiuti dagli europei.

Il genocidio dei Taìno cominciò con Colombo e proseguì dopo la sua morte, ma ebbe le sue basi nel trattamento riservato agli indigeni dall’esploratore genovese nelle sue spedizioni. Oltre a fare centinaia di schiavi, ordinò a tutti quelli sopra ai 14 anni di cercare oro per gli spagnoli. Per sopprimere le ribellioni dei Taìno, ordinò una repressione brutale, che comprese torture e l’esposizione pubblica di pezzi di cadaveri per spaventare la popolazione. In una lettera, raccontò l’efficacia e la convenienza economica della vendita di bambine di 9 e 10 anni come schiave sessuali. Alcuni storici credono che tantissimi Taìno si suicidarono in massa per sfuggire al controllo spagnolo e alle insostenibili richieste di oro, cotone e altre risorse.

Colombo, che era stato nominato governatore delle nuove colonie dalla monarchia spagnola, perse lucidità e prestanza fisica spedizione dopo spedizione, e nel suo terzo viaggio dovette affrontare la ribellione dei coloni spagnoli, arrabbiati per la sua incompetenza nel governo e per le promesse non mantenute circa la ricchezza delle isole caraibiche. Riuscì a fare un accordo di pace, in cui acconsentì a condizioni umilianti, e nel 1500 la regina Isabella e il re Ferdinando lo rimossero dal suo incarico. Già all’epoca, nei documenti che motivarono la decisione, emersero testimonianze raccapriccianti sulle torture ordinate da Colombo per coloni e nativi che voleva punire per i motivi più vari.

L’abbattimento della statua di Colombo a Minneapolis. (Evan Frost/Minnesota Public Radio via AP)

Eredità
Le proteste che da decenni anticipano il Columbus Day e che in questi giorni stanno accompagnando le vandalizzazioni delle statue di Colombo vorrebbero includere i suoi comportamenti tirannici e violenti e il genocidio di Taìno nel racconto storico dell’esploratore. Da anni in tanti chiedono che il Columbus Day sia sostituito con una festa per i nativi americani, richiesta accolta in diversi stati e contee statunitensi.

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A difendere Colombo, nel dibattito in corso da anni negli Stati Uniti, ci sono storici secondo i quali le sue reali responsabilità nelle crudeltà e nelle violenze commesse dagli spagnoli furono marginali, in quanto dovute soprattutto alla volontà e agli ordini della monarchia. Le commemorazioni nei suoi confronti sono difese principalmente per motivi legati alla sua importanza nell’identità italo-americana e cattolica, e a sua discolpa vengono spesso citati episodi aneddotici riguardo alla sua fede religiosa e a manifestazioni di compassione nei confronti degli indigeni, con i quali, secondo i suoi difensori, sarebbe stato più magnanimo rispetto ai suoi contemporanei, nonostante tutto.

Ma le statue di Colombo, così come quelle degli schiavisti e dei generali confederati che difesero lo schiavismo nella Guerra Civile, sono interpretate da sempre più persone come testimonianze di un passato i cui effetti sono visibili ancora oggi nella società statunitense, dove il razzismo è non a caso definito “sistemico”, cioè scritto nelle leggi e organico all’amministrazione della giustizia. Le ricostruzioni storiche più moderne dicono infatti che la conduzione del potere di Colombo nei Caraibi fu un’anticipazione dei metodi applicati successivamente dai coloni europei nei confronti dei nativi di Nord e Sud America, sterminati e soggiogati per secoli, e soprattutto della tratta degli schiavi tra il XVI e il XIX secolo, due tra i più grandi crimini contro l’umanità della storia moderna.

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