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  • Domenica 31 maggio 2020

Vietare il consumo di animali selvatici non è così facile

È una delle principali cause della diffusione di nuove malattie, ma per combatterlo non bastano leggi e azioni di polizia

(AP Photo/Vincent Thian)
(AP Photo/Vincent Thian)

Dopo l’inizio della pandemia da coronavirus in Cina, in tutto il mondo si sono moltiplicate le richieste di chiudere i “wet market”: i mercati alimentari diffusi in tutta l’Asia orientale dove in alcuni casi si vendono animali selvatici spesso ancora vivi e in condizioni igieniche precarie. In questi mercati è facile che un nuovo virus passi da un ospite animale a uno umano ed è proprio intorno al “wet market” di Wuhan che – secondo le prime indagini dei medici cinesi, ancora da confermare – si sarebbe diffuso il coronavirus, partendo forse dai pipistrelli (che si ritiene siano l’ospite dentro al quale il coronavirus si è evoluto) e arrivando poi agli esseri umani, passando forse per i pangolini (una specie di mammifero la cui carne è considerata una prelibatezza in alcune zone della Cina).

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Ad aprile oltre 300 comitati, organizzazioni e associazioni hanno scritto all’Organizzazione Mondiale della Sanità chiedendo di vietare il commercio di carne di animali selvatici nel tentativo di limitare le possibilità di “spillover”, o “zoonosi”, cioè il passaggio di una malattia dagli animali all’uomo, mentre la stampa e i politici di tutto il mondo hanno accusato il governo cinese di non volere o di essere incapace di gestire i propri “wet market”.

Ma come ha spiegato Alex Bowmer, ricercatore di antropologia medica alla London School of Hygiene & Tropical Medicine (una delle più antiche istituzioni mediche dedicate allo studio delle malattie infettive), proibire il commercio di carne di animali selvatici rischia di peggiorare il problema. Bowmer ricorda che negli ultimi dieci anni le campagne di sensibilizzazione – e i tentativi di proibire o limitare il consumo di questa carne con le azioni di polizia – sono fallite non solo in Cina ma anche in Africa occidentale e Sud America.

Il consumo di animali esotici ha profonde radici culturali, economiche e legate alla sopravvivenza. In Africa, per esempio, dove il consumo di carne di animali trovati nella foresta ha causato numerose epidemie di ebola, scimmie e pipistrelli sono spesso l’unica fonte di proteine a cui hanno accesso le persone più povere. In Asia gli animali esotici sono considerati un cibo di lusso, da consumare in occasioni speciali.

In questo contesto, proibire la vendita di animali selvatici serve soltanto a spostarne il commercio nel mercato nero. Bowmer ricorda che è già accaduto in Africa occidentale dopo il divieto di vendita iniziato in numerosi paesi in seguito all’epidemia di ebola del 2013-2016, e anche in Cina, quando nel 2003 si scoprì che alcuni zibetti, mammiferi simili a gatti selvatici, ospitavano il coronavirus che causa la SARS. Non aiuta nemmeno il fatto che in genere questi divieti siano spesso soltanto temporanei.

Anche se spesso è associato alla cultura tradizionale e alla superstizione, il commercio e il consumo di animali selvatici è in realtà un fenomeno doppiamente legato al progresso economico e tecnologico. Da tempo i ricercatori segnalano che nei paesi in via di sviluppo, soprattutto la Cina ma non solo, il consumo di animali selvatici è cresciuto di pari passo con la nascita di una classe media che si può permettere quello che è considerato uno “status symbol”.

Nel frattempo, la globalizzazione ne ha facilitato il commercio anche su lunga distanza. Il mercato cinese, per esempio, viene rifornito con animali provenienti da tutta l’Asia sudorientale, spesso venduti e comprati su piattaforme online. Lo scorso febbraio il governo cinese ha imposto un nuovo divieto nella vendita di questo tipo di carne, e come conseguenza ha chiuso più di 150 mila tra pagine web e profili social di venditori che si occupavano di questo commercio.

Per combattere questo commercio e i pericoli che in un mondo globalizzato rappresenta per la popolazione dell’intero pianeta, secondo Bowmer non basta approvare qualche legge. Sarà un lavoro lungo, che richiederà sforzi considerevoli. Diffondere informazioni corrette e protocolli su come maneggiare animali selvatici è una delle priorità. Invece di vietare la carne di animali selvatici completamente, prosegue Bowmer, i governi dovrebbe aumentare gradualmente i regolamenti sul commercio di alcune specie che pongono i rischi principali (come i pipistrelli).

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Ma come sempre, la soluzione migliore è intervenire alla radice del problema. In questo caso significa impegnarsi a fondo per fornire fonti di cibo alternative alle popolazioni per cui gli animali selvatici sono una componente essenziale della dieta, mettendo così limite alla domanda. Allo stesso tempo bisogna introdurre vasti programmi per fornire opportunità di lavoro differenti ai cacciatori e ai commercianti di animali selvatici, così da ridurre l’offerta.

In generale, prosegue Bowmer, sarà sempre più importante studiare maggiormente gli animali e cercare attivamente di scoprire nuovi virus in attesa di fare il salto nella nostra specie. Bowmer cita in particolare il programma PREDICT del governo degli Stati Uniti che tra il 2009 e il 2019 ha portato ad esaminare 140 mila campioni biologici all’interno dei quali sono stati identificati mille nuovi virus, tra cui un nuovo ceppo di virus ebola.

Ma l’azione più importante di tutte è cercare di comprendere a fondo il contesto in cui avviene il commercio di carne selvatica, l’aspetto economico che riguarda la cattura e la macellazione, e quello sociale e culturale che ne circonda il consumo. Soltanto osservando questi meccanismi sarà possibile adottare soluzioni mirate davvero in grado di incidere nelle abitudini delle singole comunità.

Chi ha studiato l’epidemia di ebola nel 2013-2016 ha scoperto che gli interventi migliori per ridurre il consumo di carne proveniente da animali selvatici sono quelli che si concentrano nel fornire opportunità di lavoro alternative ai cacciatori e fonti di proteine diversificate agli abitanti delle comunità. In altre parole, spiega Bowmer: «Se vogliamo davvero ridurre il rischio di future pandemie, dobbiamo riconoscere e comprendere l’importanza delle dinamiche sociali che stanno dietro il consume di carne di animali selvatici».