I guariti che risultano nuovamente positivi al coronavirus sono contagiosi?

No, secondo una ricerca condotta in Corea del Sud: ma servono ulteriori conferme

I Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie della Corea del Sud (KCDC) hanno pubblicato uno studio sui pazienti guariti dalla COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, che risultano poi nuovamente positivi ai test a giorni o settimane dalla loro guarigione. Secondo la ricerca questi pazienti non sono contagiosi, e l’esito positivo dei nuovi test deriva probabilmente dalla presenza di materiale virale ormai inattivo nel loro organismo. Lo studio è preliminare, ma se confermato ridurrebbe le preoccupazioni sulle presunte recidive da COVID-19 e i rischi di nuovi contagi da persone guarite.

I KCDC hanno analizzato 285 casi di individui convalescenti da COVID-19, ma che erano poi risultati nuovamente positivi al coronavirus tramite un test con il tampone, che si basa sull’analisi di saliva e muco alla ricerca di frammenti del codice genetico (RNA) del coronavirus. A seconda dei casi, i pazienti erano risultati di nuovo positivi al virus da uno a 37 giorni dalla loro guarigione e dalla fine del loro periodo di isolamento. In media, l’arco temporale della nuova positività era intorno alle due settimane.

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I ricercatori hanno allora analizzato la storia clinica dei pazienti, notando che circa la metà aveva manifestato nuovi sintomi riconducibili al coronavirus, seppure in forme più lievi rispetto alla prima fase della malattia. Nessuno di loro era però diventato nuovamente contagioso, almeno basandosi sulle informazioni raccolte attraverso il tracciamento delle persone con cui erano venuti in contatto.

Per 108 pazienti sono stati poi eseguiti altri test di laboratorio per verificare se fossero ancora contagiosi. Dalle analisi è emerso che nessuno di loro avesse forme del coronavirus ancora attive e quindi in grado di trasmettersi ad altre persone.

Il test tramite i tamponi è a oggi il miglior strumento per rilevare la presenza del coronavirus in un individuo in un dato momento: consente di identificare l’RNA del virus e quindi il grado di infezione. Negli ultimi mesi è comunque diventato evidente che in alcuni casi un esito positivo non indica necessariamente che l’infezione sia ancora attiva e che le particelle virali (virioni) provenienti dalla persona esaminata siano in grado di contagiare altri individui. Il test rileva infatti la presenza del materiale genetico del coronavirus, che potrebbe essere in forme ormai deteriorate e non più pericolose.

Secondo la ricerca del KCDC questo dovrebbe essere il caso dei pazienti analizzati e che erano risultati nuovamente positivi al coronavirus. Lo hanno concluso dopo avere provato a isolare e coltivare il virus dai campioni prelevati, constatando di non avere ottenuto versioni attive.

I ricercatori hanno poi eseguito un esame del sangue su 23 pazienti nuovamente positivi, rilevando nel 96 per cento dei casi la presenza di anticorpi neutralizzanti contro il coronavirus. A oggi non è ancora chiaro se si diventi immuni e per quanto tempo, ma la presenza di questi anticorpi e la mancanza di ricadute significative tra i pazienti studiati sembra suggerire che l’organismo serbi un ricordo dell’infezione, riuscendo a contrastarla.

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Lo studio diffuso dal KCDC è ancora preliminare ed è basato su un numero relativamente basso di pazienti, ma offre nuovi indizi importanti per comprendere meglio perché alcune persone guarite risultino ancora positive al coronavirus. Le autorità sanitarie sudcoreane ritengono che molto derivi dalla sensibilità dei test tramite il tampone e che quindi i “nuovamente positivi” siano in realtà “tornati positivi”, quindi senza avere subito un secondo contagio.

Negli ultimi mesi in numerosi paesi, compresa l’Italia, sono stati segnalati casi di pazienti guariti dalla COVID-19 e risultati positivi a settimane di distanza. Come segnalato anche dagli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità, è probabile che nella maggior parte dei casi queste persone abbiano mantenuto alcune tracce del coronavirus, in una forma ormai non attiva, ma comunque rilevabile attraverso i test.

Questa circostanza sembra escludere la possibilità che si possa contrarre il coronavirus una seconda volta dopo essersi ammalati, per lo meno in breve tempo. Non sapendo però se e per quanto si resti immuni dal virus, occorreranno ancora mesi e nuove ricerche per comprendere completamente i meccanismi che portano all’eventuale immunizzazione e al suo mantenimento.